Alternanza senza alternativa – L’uomo solo all’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 14 dicembre 2024

Emmanuel Macron ha infine deciso, con l’indolenza che adora mettere in scena e che maneggia senza scrupoli per apparire monarca ombroso, vanitoso, capriccioso, ma pur sempre monarca assoluto. O come ripete da anni: Maestro degli Orologi. Chi sospira le sue insondabili decisioni pende dalle sue labbra: è la postura cortigiana da lui prediletta, reclamata. Dopo le Legislative di luglio nominò Michel Barnier dopo quasi due mesi. Il primo ministro nominato dopo la caduta di Barnier è François Bayrou, presidente di un partitino centrista – il MoDem, Movimento Democratico, 4,5% alle legislative – che appoggia Macron dal 2017.

Ancora una volta il Presidente s’ostina a ignorare le urne, che il 7 luglio avevano dato non la maggioranza assoluta, ma di certo la preferenza alle sinistre unite nel Nuovo Fronte Popolare. Bayrou ha il pregio di condividere la brama costante di Macron e degli oligarchi economici e mediatici che hanno facilitato la sua ascesa all’Eliseo: la brama di sfasciare l’unità delle sinistre, di attrarre nella propria orbita (oggi si chiama “blocco centrale”) i socialisti, gli ecologisti e i comunisti disposti a rinnegare il partito di Mélenchon alla loro sinistra.

Il Partito socialista promette di non sfiduciare Bayrou e per ora resta all’opposizione. Ma alcuni potrebbero tradire il Fronte Popolare. E non è detto che Bayrou terrà fede all’impegno di non ricorrere a decreti e voti di sfiducia come Barnier.

Se si vuol avere un’idea su quel che accade in Francia, tutto bisognerebbe fare tranne informarsi sui media francesi (e italiani a ruota): da tempo distorcono la realtà e la recente storia di Francia. Macron sarebbe alle prese con i “due opposti estremismi” di destra e sinistra che hanno affossato Barnier. Mélenchon, capo della France Insoumise (“Francia Indomita”, primo partito nel Fronte Popolare) è descritto come “mente della crisi”, “tiranno divisivo” e ancor peggio, quando proprio vuoi uccidere politicamente l’avversario: pro-palestinese dunque antisemita. Quanto ai socialisti e agli ecologisti, la qualifica più gettonata è: “ostaggi” delle trame di Mélenchon. Uscire dal Nuovo Fronte Popolare è descritto come una liberazione.

Tutte queste rappresentazioni sono false. Non esiste l’estremismo di sinistra, nella France Insoumise e meno che mai nel suo leader. Il programma che il suo partito ha concordato con socialisti ed ecologisti, quando Macron sciolse d’un colpo l’Assemblea non immaginando che le sinistre si sarebbero unite, è un programma socialdemocratico classico, dove per socialdemocratico s’intende il socialismo prima che venisse stravolto dai secessionismi centristi di Blair, Schröder o Renzi. I punti forti del Fronte Popolare: rilancio della domanda (cioè politica keynesiana), salario minimo, abolizione della riforma macroniana delle pensioni, e soprattutto fisco più giusto, cioè tasse sui più abbienti e sulle grandi corporazioni. Il programma di Mitterrand, nel 1981, era ben più radicale di quello di Mélenchon.

Ma evidentemente non è Mélenchon il punto. In agosto il capo degli Indomiti annunciò che, se era lui il problema, si sarebbe fatto da parte pur di salvare il programma delle sinistre e la candidatura di Lucie Castets. Macron rispose picche e fu un momento di verità. Dall’inizio del secondo mandato nel 2022 il presidente perde un’elezione dopo l’altra, ma non ammette alcuna alternanza che sfoci in una alternativa alla propria agenda. Un’agenda che reintroduca l’Imposta di solidarietà sui patrimoni, che tassi gli oligarchi che gli hanno spianato la strada dell’Eliseo, è per lui inconcepibile e inammissibile. Quel che chiede ai socialisti è l’abbandono della loro agenda elettorale. Tutto digerisce tranne che la sconfessione della propria politica: anche il tacito patto di non aggressione tra Barnier e l’estrema destra, lui che ha vinto due Presidenziali promettendo agli elettori di sinistra di incarnare la barriera contro Le Pen. Il patto Barnier-Le Pen si è infranto perché a respingere il neoliberismo dell’Eliseo non è un fantomatico patto rosso-bruno, come dicono i media anche in Italia, ma la stragrande maggioranza degli elettori.

Non è più democrazia, ma capriccio di un presidente psicologicamente instabile e profondamente di destra, e non a caso si moltiplicano gli studi sulla sua personalità. Il libro più citato è quello del sociologo Marc Joly, che descrive le sistematiche manipolazioni retoriche e i fallimenti mai ammessi in politica estera del presidente (Il pensiero perverso al potere). L’adesione sempre più netta al linguaggio e alla cultura delle destre, la negazione incaponita della realtà, il disprezzo per i movimenti sociali che hanno manifestato settimanalmente, dal 2018 per oltre due anni, contro le sue politiche (Gilet Gialli, movimento sulle pensioni): questo è Macron.

Il suo cammino ha ormai le sue tappe simboliche: le Olimpiadi, la restaurazione maestosa di Notre-Dame. Due Grandi Eventi che il presidente presenta come metafore dell’Amore della Francia, del “superamento di sé”, della Responsabilità che sola può dar vita a un’unità nazionale depurata d’ogni scoria ”estremista”. Solo a queste condizioni “l’impossibile diventa possibile”, declama davanti a un parterre di capi del mondo assiepati a Notre-Dame. Tornano in auge le “radici cristiane” d’Europa, non menzionate nel preambolo del Trattato di Lisbona grazie al veto di Chirac. Unica pietra di inciampo: l’assenza di Papa Francesco, che ha preferito programmare la visita in Corsica, nella periferia di una Francia quasi decristianizzata. “Non è venuto perché predilige gli umili”, così l’arcivescovo di Parigi.

La fatidica parola d’ordine, per convincere i socialisti a “emanciparsi”, è: cultura del compromesso. Tanti socialisti ne hanno appetito. Ségolène Royal, ex candidata all’Eliseo, è giunta sino ad augurarsi in tv una “società senza movimenti sociali”. In passato fu Blair a caldeggiare un’alternanza senza alternative alla politica della Thatcher. Ora il modello è un altro: la democrazia del compromesso praticata nel Parlamento europeo. L’esempio è truffaldino. È caldeggiato da tutti coloro (la quasi unanimità, nei media francesi) che spingono i socialisti a socialdemocratizzarsi, a smettere il vecchio confronto destra-sinistra, a imparare come si fanno i compromessi e si costruiscono coalizioni “in tanti Paesi europei”, ripete Macron da mesi, negando ancora una volta la realtà delle tante coalizioni infrante nel continente, dal governo Draghi a quello tedesco.

L’Ue non ha un governo, ma un Comitato che amministra gli affari discordanti di 27 Stati e, non avendo un governo, non ha mai maggioranze parlamentari che si diano il cambio. Nulla passa in quel Parlamento se non c’è accordo del blocco centrale (Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi, Conservatori di Giorgia Meloni). Non c’è alternanza nell’Europarlamento, ma solo continua, soffocante compromissione. Citarlo come modello è non solo scorretto, sgrammaticato. È pensiero perverso al massimo grado.

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Macron combatte la realtà

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 agosto 2024

Prendendo la parola alla cerimonia finale delle Olimpiadi, il 12 agosto, Emmanuel Macron si è imbarcato in un’affermazione stupefacente, che d’un tratto lo mette a nudo: “Manca la voglia che la vita riprenda il suo posto”, ha detto con nostalgia sul volto.

On n’a pas envie que la vie reprenne ses droits. Il lungo fumetto dei Giochi olimpici, l’ecumenismo dei preparativi, le cerimonie semi-turistiche in gloria della Francia, gli abbracci, gli applausi, la competizione allegra, la Senna in cui ti puoi incantevolmente tuffare nonostante i batteri: questo l’universo di celluloide che Macron adora, che rimpiange, che trasforma in orrenda metafora politica, che vorrebbe diventasse il nostro, di noi tutti, eterno vademecum.

La “Vita” che sciaguratamente riafferma i suoi diritti altro non è che la Realtà: sono le Legislative che hanno premiato le sinistre unite pur dando loro un’esigua maggioranza relativa. Macron sconfitto non ne “ha voglia”, ne è nauseato, si installa nella strategia della denegazione. La Costituzione della V Repubblica è talmente vaga che può permetterselo, visto che è lui a nominare il primo ministro che vuole. Ma una denegazione simile va oltre il fattibile, oltre l’opinabile e le varie esegesi costituzionali. Sconfina in un farsesco colpo di mano, in un brutale Truman Show di cui Macron è regista e primo attore. La Costituzione gli dà molti poteri, ma non quello di designare la coalizione di governo, perché è al premier che appartiene la proposta dei propri ministri.

Mitterrand aveva definito la Quinta Repubblica un “colpo di Stato permanente”, nel 1964, e la predizione quasi si avvera. Lunedì il presidente ha annunciato che la sinistra unita non andrà al governo, e che Lucie Castets, candidata premier del Nuovo Fronte Popolare, non è di suo gradimento. Ha poi fatto sapere che in ulteriori consultazioni non avrebbe più ricevuto la France Insoumise di Mélenchon né l’estrema destra. In un comunicato diramato lunedì ha invitato socialisti, ecologisti e comunisti a formare una coalizione col centro macroniano e con le destre dei Repubblicani. L’unica “voglia” che ha, nella transizione dal fumetto alla brutta Realtà, è quella di sfasciare l’unione delle sinistre e se possibile anche il Partito socialista, sfracellandolo nell’abbraccio. Marine Le Pen, che Macron diceva di voler arginare, ringrazia.

Per il momento gli invitati al banchetto – socialisti, ecologisti, comunisti – reagiscono esterrefatti, come se si trovassero alle prese con uno che non ci sta con la testa. È spazientita anche la destra dei Repubblicani. Ma buona parte dei socialisti è pronta a cedere alle lusinghe del pifferaio, a rispondere all’appello. La parola magica che nobiliterà i transfughi è socialdemocrazia. I socialdemocratici sono giudicati rispettabili se agiscono come alleati del centrodestra, delle politiche di austerità, dei mercanti d’armi che riforniscono Ucraina e Israele, del riarmo anti-russo. Il colpo di mano è ideologico e dimentica la storia.

La socialdemocrazia classica si batteva per la distensione con Mosca, per “osare più democrazia” e più giustizia sociale, come prometteva Willy Brandt nel 1969. Niente di tutto questo in chi si erige oggi a socialdemocratico e invece di rappresentare l’elettorato di sinistra “rompe con il partito della collera dell’estrema sinistra anti-socialdemocratica” – la definizione è di Serge July, ex direttore di Libération – e perfino accusa Mélenchon di antisemitismo (accusa rivolta a chiunque sia inorridito dallo sterminio di palestinesi e città a Gaza).

I socialdemocratici di oggi sono neo-conservatori: l’idolo è Tony Blair. Il giorno stesso in cui un attentatore ha esploso una bombola di gas davanti alla sinagoga Beth-Yaacov, sabato a La Grande-Motte nel Sud della Francia, Jacques Attali, ex “consigliere speciale” del socialista Mitterrand, ha affermato, senza arrossire, che il responsabile è Mélenchon, colpevole di “genocidio simbolico”. La categoria è raggelante e inedita, ma l’intervistatore l’ha digerita senza scomporsi.

Eppure Mélenchon aveva tentato una contromossa, prima del diniego presidenziale. Aveva ipotizzato un governo senza ministri del proprio partito, se davvero era lui il problema. L’uscita, astuta, smaschera l’Eliseo: continuando a opporre il veto a un governo di sinistra che cerchi le maggioranze sulle singole leggi, Macron conferma che è il programma del Fronte Popolare a dargli la nausea e non la presenza di ministri del partito di Mélenchon. Il pretesto è che un governo che non ha la maggioranza sarà subito rovesciato. Nemmeno lui l’aveva, dopo le Legislative del 2022.

Sono oltre sei settimane che il governo Attal governa come se non fosse dimissionario, che la tele-realtà perdura, e che la Realtà continua a essere oscuro oggetto di esecrazione nella testa di Macron. E non solo nella sua testa, ma in quella dei grandi gruppi economici, delle classi che Macron ha blandito con ripetute agevolazioni fiscali, dei padroni delle reti televisive e di gran parte dei giornali nazionali. Il programma del Fronte Popolare è classicamente socialdemocratico, ma per tutti costoro è un incubo, perché prevede aumenti di salari, giustizia fiscale progressiva, fine delle agevolazioni fiscali macroniane, gratuità scolastica estesa, tasse sui superprofitti di multinazionali e industrie come energia e farmaceutica.

La grottesca battaglia di Macron contro la Realtà è iniziata alla vigilia delle Olimpiadi, il 23 luglio, in un’intervista che aveva come sfondo la Torre Eiffel. È stato il momento in cui il presidente ha inaugurato il fumetto delle Olimpiadi, presentandole addirittura come modello: se “sono state organizzate così bene da un sindaco socialista, da una presidente della regione a destra, da un presidente della Repubblica al centro”, perché non provare pure in politica? Ha poi detto che “nessuno può applicare il programma” del Fronte Popolare: per stare a galla, occorre che le sinistre “escano in qualche modo dalle evidenze, si assumano le loro responsabilità, sappiano fare compromessi”.

Ancora una volta è dalla Realtà che bisogna uscire: dalle evidenze. Nella stessa intervista ha esortato: “L’urgenza del Paese non è distruggere quello che si è fatto sinora, ma costruire e andare avanti”. Il verbo ricorrente è continuare: “Continuare a essere più forti e più giusti… continuare a creare ricchezza e a andare avanti… continuare a reindustrializzare, a creare competitività, a essere il Paese più attraente d’Europa”. Continuare come se nulla fosse e le elezioni fossero chimere. “Da cinque anni è questa la nostra fierezza e tutto questo va consolidato, reinvestendo al contempo nel nostro esercito, nelle nostre forze di sicurezza interna, nella nostra giustizia, nella nostra scuola”.

Macron continua a non accettare il verdetto elettorale e a ignorare le volontà di un popolo che votando in parte sinistra unita e in parte estrema destra rifiuta proprio questo: continuare come si è fatto sinora, con Macron al centro e nell’illusione di “uscire dall’evidenza”.

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