di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 13 settembre 2020
Bisogna davvero essere ciechi per non vedere che i fautori del No al referendum sul taglio dei parlamentari si agitano molto, in taluni casi fino a sconfinare nel turpiloquio, ma in testa hanno un pensiero unico e fisso: questo Movimento 5 Stelle non ha da esistere, va fatto fuori, e se l’operazione chirurgica comporta la vittoria delle destre e la sconfessione di 40 anni di battaglie del Pd fa niente, sempre meglio del guazzabuglio che abbiamo davanti, i cui contorni sono talmente poco chiari.
A ragionare così è una parte delle sinistre, e man mano che passano i giorni la loro voce si fa al tempo stesso più sgangherata e più inconsistente.
È il caso del No proclamato su «La Stampa» da Roberto Saviano, che non ritiene utile spiegare neanche di soppiatto le ragioni della sua preferenza ma che di una cosa è assolutamente certo: i 5 Stelle, e Di Maio in particolare, sono “intrisi di una cultura profondamente autoritaria e xenofoba” e vanno finalmente liquidati con un sonoro “va ’a cag…” (equivalente sopraffino di vaffa). Quanto a Conte, l’unica prospettiva che offre è morire democristiani, dunque fuori anche lui. Il ragionamento di Montanelli sul voto dato tappandosi il naso per Saviano non vale. Poco importa se Draghi, improbabile profeta della terra promessa, non succederà a Conte sconfitto. Che vengano Salvini e Meloni. Meglio loro che Di Maio, il diavolo in persona, almeno il naso non lo tocchi e il vantaggio non è da poco.
O per meglio dire Saviano offre una ragione, che però non ha nulla a vedere col taglio di parlamentari: questo governo intrallazza con la Libia, accetta che i migranti vengano respinti in un paese dove i richiedenti asilo vengono torturati e uccisi. Obiezione più che giusta e che condivido, se non fosse che a inaugurare gli intrallazzi non sono stati i 5 Stelle ma i governi Pd, la Lega e prima ancora Berlusconi. Non esiste neanche di lontano una maggioranza pronta a ribaltare la politica italiana in Libia ma esiste solo un suo incattivirsi, se Salvini e Meloni vanno al governo.
Non meno inconsistente il No delle Sardine, esperte in frasi fatte e dubbie frequentazioni. Dice Mattia Santori: “Durante il lockdown abbiamo studiato tanto, soprattutto sul percorso e sulle parole che accompagnano un referendum. Per questo votiamo No”. Non è che sia propriamente una spiegazione del voto: in fondo sono stati in tanti a permettersi di passare il lockdown studiando, lasciando che a lavorare restassero Conte e governo, infermieri, medici e scienziati, maestri e “driver”. Se dopo tanto sgobbare Santori annuncia che vota No perché ha studiato farebbe meglio a star lontano dai microfoni.
Poi c’è il no dei giornali mainstream, che i 5 stelle non li hanno mai sopportati. In particolare c’è il No di giornali che vantano una patina ormai slavata di sinistra, tipo «Repubblica». Fa impressione che questo No di sinistra sia sbandierato in nome della Carta costituzionale, che non prescrisse il numero attuale di parlamentari (questi furono portati a oltre 600 con una legge del ’63, per moltiplicare poltrone e clientes ben oltre la proporzione decisa dai costituenti in base alla popolazione). O in nome dell’analogo No che affossò la riforma costituzionale di Renzi. Come se le due riforme fossero paragonabili. Salvatore Settis ha ricordato opportunamente su questo giornale come le due riforme non siano paragonabili: quella odierna prevede il ritocco di due articoli, contro i sostanziosi 45 riscritti da Renzi.
Naturalmente esistono dei No argomentati con più finezza, cioè fornendo qualche dettaglio in più (è il caso di Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, ecc.). Ma questi ultimi sono sommersi dal chiasso dei No vuoti di senso, che hanno come solo obiettivo quello di indebolire la presidenza Conte (il Recovery Fund da lui ottenuto a Bruxelles è appena qualche bruscolino), bloccare ogni timido tentativo di collaborazione fra Pd e 5 Stelle, staccare definitivamente il primo dai secondi, nell ’astrusa convinzione che fra i due, il partito meno confusionario sia il Pd. Questo fronte dei No, Settis lo ritiene ammaliato dal breve termine e del tutto incoerente (praticamente tutti i partiti, a cominciare dal Pd, hanno difeso e votato tagli simili in passato. Per legittimare il Parlamento e non per delegittimarlo).
Il Movimento 5 stelle è certamente una formazione ingarbugliata, come minimo. Ma non c’è partito che non lo sia, a cominciare dal Pd. Alcuni esponenti di quest’ultimo hanno addirittura cambiato opinione in pochi mesi: ieri sì al taglio e oggi no, contro il parere maggioritario del partito. Zanda e Finocchiaro sognano l’atterraggio di Draghi (per quale politica “di sinistra”?) e chi sogna non è tenuto a spiegare.
Non sono tuttavia la confusione e frammentazione del M5S a indisporre di più. Indispone che una buona parte dell’elettorato classico della sinistra ha da tempo traslocato nel Movimento (oltre che nella Lega), e non aspira a tornare nei vecchi partiti. Questo continua a essere intollerabile per il Pd, che insiste in una visione patrimoniale degli elettori (“questi sono MIEI e me li riprendo”). Difficile presentarsi come partito che ha ambizioni egemoniche sulla sinistra o sulla cultura, quando hai sacrificato quasi tutti i tuoi vecchi programmi al punto di fare affidamento sul neoliberismo di Draghi, e vieni sistematicamente sor – passato da un movimento – un elettorato – non più monopolizzabile. L’unico che ha intuito il dramma è Bersani, il quale voterà Sì e dice chiaramente che non sarebbe Draghi a profittare di una disfatta al referendum – soprattutto se combinata con sconfitte alle regionali – ma Salvini e Meloni.
Una delle più convincenti argomentazioni a favore del Sì mi è parsa quella di Lorenza Carlassare. “Se passasse il No –dice la costituzionalista –nulla verrebbe più cambiato. In particolare non verrebbe più cambiata neppure la legge elettorale […] la scelta di chi sarà eletto è unicamente operata dalle direzioni dei partiti […] prescindendo completamente dal rapporto con gli elettori”. E ancora: “In questa situazione non conta tanto il numero dei parlamentari quanto il loro rapporto con gli elettori. Se verso di noi non sentono alcuna responsabilità, di che democrazia stiamo parlando?” Già: di che democrazia stiamo parlando? Nessuno prova speciali godimenti nel votare turandosi il naso (neanche a Montanelli “piaceva”) ma godere per una vittoria di Salvini che magari chissà, faciliterà l’arrivo di Draghi, è più di un errore. È un maledetto imbroglio.
© 2020 Editoriale Il Fatto S.p.A.