di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2022
In poche pagine dove ogni parola pesa, Giuseppe Conte illustra nella lettera a Mario Draghi la grave crisi democratica e di rappresentanza che l’Italia (e non solo l’Italia) sta traversando. Non si limita a elencare i nove punti programmatici che per il suo Movimento sono cruciali, e non possono di conseguenza essere sviliti.
È come se si tuffasse più in profondità, per meglio percepire quel che si è incrinato nel funzionamento della nostra democrazia rappresentativa. Come se avesse assorbito il ragionamento di Luciano Canfora sulla “Democrazia dei Signori” confezionata dal duo Mattarella-Draghi, e avesse fatto propria una delle conclusioni cui giunge il libro dello storico-filologo: “Una forma di assetto politico non resta ‘democratica’ anche quando il ‘demo’” – il popolo – “se n’è andato”.
Canfora descrive con acutezza l’avvento e il consolidarsi di un “partito unico articolato” (il termine, riferito al fascismo, è di Gramsci) che regna senza contrappesi e senza neppure il popolo, sospettato ormai sistematicamente di avere pulsioni “populiste”. Solo le “ali governiste” dei partiti trovano legittimità e riparo nel potere centrale, e rifuggendo ogni vera dialettica e confronto sanno perfettamente che l’estensione del loro territorio presuppone l’estensione del terreno astensionista. Il “profondo disagio politico” espresso da Conte in nome dei Cinque Stelle nasce da disfunzioni acute della democrazia: il Parlamento è “impoverito e mortificato” da decisioni che regolarmente lo scavalcano; la partecipazione al governo è un atto di responsabilità che “rischia di coincidere con un atteggiamento remissivo e ciecamente confidente rispetto a processi decisionali di cui, purtroppo, veniamo messi al corrente solo all’ultimo”. È molto tempo che Conte lo ripete a Draghi: “Le abbiamo più volte rappresentato, invano, come non sia accettabile che il Consiglio dei Ministri sia relegato al ruolo di mero consesso certificatore di decisioni già prese, con provvedimenti normativi anche molto complessi che vengono portati direttamente in Consiglio o, quando va bene, con un anticipo minimo, comunque inidoneo a consentirne un’analisi adeguata”.
Infine, l’attacco alla natura oligarchica del partito unico articolato: “Non possiamo rinunciare all’idea di un sistema democratico ‘aperto’, che contrasti l’involuzione verso derive elitarie e permetta a tutti i cittadini – attraverso l’intervento promozionale dello Stato impegnato a rimuovere ogni sorta di ostacolo – di poter concorrere, a pieno titolo, alla vita politica, economica, sociale e culturale del nostro Paese”. La lettura della norma costituzionale sui partiti (art. 49) si affina: i partiti non sono articolazioni del potere ma strumenti che i cittadini possono usare se vogliono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Se i partiti dimenticano che il metodo democratico è scontro pacifico di idee perdono senso oltre che elettori. Nella lettura di Conte sono i cittadini, tramite i partiti, a “determinare la politica nazionale”.
È partendo dalla critica dell’assetto politico che Conte evoca i punti decisivi per il M5S. È infatti chiaro che il governo Draghi è nato per uccidere il lascito di Conte: reddito di cittadinanza (1 milione di poveri in meno secondo l’Istat), salario minimo, decreto dignità, giustizia. E superbonus (che andrebbe però vincolato al reddito, come giustamente osserva Chiara Saraceno). Ed è più che chiaro che la remissività ha “sfibrato e eroso” il Movimento, fino a secernere la defezione di Di Maio e il fascino del potere senza più popolo.
La grande stampa (scritta e parlata) soggiace allo stesso fascino, smette di essere il quarto potere. Ogni volta che un partito evoca obiettivi importanti per i propri elettori i giornalisti s’allarmano, dicono che senza Draghi avremo la troika. Ecco che i partiti si riprendono lo spazio! – lamentano in coro– ecco che “mettono bandierine”, “cavalcano ideologie” (come se l’ideologia non fosse un patrimonio di idee e progetti). E voluttuosamente sbeffeggiano Conte: “In un incontro con Draghi non ci si presenta con una lettera!” (con cosa ci si presenta? Inchinandosi come davanti all’oracolo di Delfi?).
Quali che siano le prossime mosse (uscita o non uscita dal governo) una cosa appare certa: con la sua lettera Conte inizia la campagna elettorale, offre un orizzonte non tanto alle cerchie governiste ma agli elettori che vorrebbe riconquistare. È un orizzonte che coincide spesso con quello della sinistra classica: l’appello a fermare la guerra smettendo l’invio di armi all’Ucraina; la lotta alla povertà “in un momento in cui aumentano le distanze tra il privilegio e il disagio, tra il lusso e l’indigenza”, l’ecologia, la guarigione infine della democrazia. Senza il demos non resta infatti che il cratos: il “dominio” di forze non elette che deliberatamente spingono verso il suffragio ristretto riservato alle zone urbane a traffico limitato (ZTL).
L’atteggiamento sulla guerra in Ucraina è fondamentale. Il punto – spiega Conte – non è stare o no nell’Ue e nella Nato: “È come si sta in queste sedi: con dignità e autonomia, consapevoli di essere una delle prime democrazie al mondo, oppure si svolge il ruolo di terminali passivi di decisioni assunte da altri? La nostra partecipazione a questi consessi si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geo-politica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. Anche questo passaggio colloca i 5 Stelle a sinistra.
Naturalmente l’alleanza con il Pd è essenziale, per diminuire la possibilità di una vittoria delle destre. Ma il Pd è ormai nucleo stabile del partito unico articolato, specie sulla guerra e la pace, e possiamo tranquillamente chiamarlo ex-sinistra, anche quando si finge antagonista combattendo per ius scholae e cannabis. Il M5S ha davanti a sé una strada impervia. Non può dire del Pd che è ex-sinistra. Non ha una classe dirigente preparata a lunghe e coerenti battaglie. Non ha elaborato sulla migrazione un’alternativa alla politica dei respingimenti confezionata successivamente da Minniti e Salvini. E ha un fondatore che non è padrone di sé nei rapporti telefonici con Draghi. Anche per questo Conte non telefona ma scrive lettere: a cospetto della Democrazia dei Signori le parole sono assassine e volano, ma scripta manent.
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