La versione inglese di questo testo è stata pubblicata da openDemocracy
È opinione molto diffusa che Alexis Tsipras abbia smentito chi lo considerava sconfitto, annunciando il ritorno alle urne il 20 settembre e chiedendo un nuovo mandato popolare. È un’opinione non solo affrettata ma soprattutto irrealistica, perché nella sostanza nulla cambierà in Grecia, tutto è già scritto nel Memorandum d’intesa che il Premier ha sottoscritto con le istituzioni europee il 12 luglio scorso: l’austerità che continua e si inasprisce, la svendita di gran parte del patrimonio ellenico a imprese in gran parte tedesche, il fallimento di una sinistra che si illudeva di scardinare l’europeismo realmente esistente per fondarne un altro, non più germanocentrico e non più prigioniero del dogma neoliberista. Anche se il debito greco venisse ristrutturato – prima o poi lo sarà, dal momento che resta insostenibile – la strada è tracciata e non sono i greci ad averla decisa né a poterla cambiare. La constatazione di Stefano Fassina, ex vice ministro dell’economia uscito dal Pd italiano, è impietosa e appropriata: «Promettere un’interpretazione ‘sociale’ del Memorandum è propaganda. Quando ti sei impegnato a fare un avanzo primario di 3,5 punti percentuali e tagli pesanti già da quest’anno puoi dire addio al sostegno del reddito».[1]
Una via d’uscita differente era ed è possibile? Fuori dalle istituzioni europee era forse possibile, ma impraticabile: un Grexit gestito in maniera ordinata non è al momento consentito né dagli Stati forti dell’Unione né dalla Bce. Quanto alla proposta fatta a suo tempo da Yanis Varoufakis (rifiutare il memorandum, creando la liquidità necessaria a fronteggiare la chiusura delle banche tramite una provvisoria moneta parallela), sarebbe stata rigettata durante una riunione ristretta di gabinetto. Restano le riforme interne, che Tsipras vuol ottenere all’ombra del Memorandum: associando ad esempio il Parlamento europeo, “unico organo dell’Unione eletto dai cittadini” al Quartetto dei Creditori che ha preso il posto della Trojka (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo Monetario, Meccanismo europeo di stabilità). Difficile pensare che gli elettori greci si entusiasmino all’idea che il loro potere venga prima svuotato, poi trasferito a un Parlamento europeo dominato stabilmente da ben diverse coalizioni di forze. Il Premier dimissionario è certamente consapevole che il suo odierno orizzonte è quello di un fallimento: altrimenti non avrebbe ammesso di aver firmato “sotto ricatto” il Memorandum.
Da qui bisogna partire, se non si vuole restare intrappolati nell’illusione o nel grido di rabbia. Da questo scacco, che mantiene per intero la sua negatività e che vede sconfitti tutti: Syriza, la nuova sinistra impersonata da Unione popolare, Yanis Varoufakis, Tsipras stesso. Nelle circostanze attuali il futuro degli uni come degli altri è la Sottomissione. Sottomissione a un’Europa ormai dichiaratamente darwinista, che premia potenti e prepotenti. Che estende smisuratamente il regno della Necessità, riducendo al minimo e anzi sbriciolando le poche isole riservate al regno della Libertà.
Già George Papandreou, l’ex Premier socialista che negoziò i primi piani di aggiustamento con l’Unione, aveva constatato che l’Europa non univa più ma era lotta per la vita e la morte, sopravvivenza tra chi fa soffrire e chi soffre. Fu lui a raccontare il principale messaggio che Angela Merkel volle trasmettergli personalmente, quando furono negoziati i primi prestiti nel 2010: “Es muss weh tun!” – “Deve far male!”.
***
Tale è l’esperimento stupefacente che si sta tentando nell’Unione europea, con ogni mezzo e non solo nei rapporti con Atene ma in tutte le direzioni: il ritorno forzato allo stato di natura, e ai riti sacrificali che l’accompagnano. La guerra di tutti contro tutti, la paura, il sospetto permanente che qualcuno – nemico esterno o interno – stia lì dietro l’angolo per farci fuori o profittare della nostra dimagrita prosperità: ecco in cosa si riassume la crisi, e c’è da chiedersi se non sia deliberatamente alimentata e prolungata. Ci sono Paesi, come la Germania, che negli ultimi cinque anni hanno guadagnato somme ingenti grazie all’attrattiva esercitata dai propri titoli di Stato: uno studio dell’Istituto Leibniz per la ricerca economica di Halle – IWH – ha annunciato il 10 agosto che la semibancarotta greca ha permesso allo Stato tedesco di incassare 100 miliardi di euro dal 2010.[2]
Altro disastro: l’aumento di immigrati che continua a essere non affrontato, lasciato marcire. Anch’esso è trattato come una calamità naturale o una piaga bellica che deve avere il suo corso quale che sia il numero di vittime. La maggior parte dei migranti sono richiedenti asilo in fuga da guerre e caos che gli Occidentali hanno il più delle volte fomentato, ma la legge di causa-effetto è troppo complicata per le pigre menti europee. Più facile sbarazzarsi delle proprie responsabilità scaricandole su un capro espiatorio, inventando una nuova figura-spauracchio per eccellenza. La figura è oggi quella dello scroccone, del mangiapane a tradimento: del potenziale parassita interno o esterno, greco o migrante che sia.
In questo particolare stato di natura il libero mercato è tutto e i provvedimenti adottati in Europa per preservarlo assurgono anch’essi a leggi naturali, inconfutabili e inviolabili quasi fossero divine. Il predominio dei mercati sulla politica è all’origine della crisi iniziata nel 2007-2008, e tuttavia la spoliticizzazione dell’economia-mondo cresce indisturbata nell’ottusa convinzione che il veleno possa tramutarsi in rimedio. Nel Mediterraneo dove annegano i richiedenti asilo come nei paesi più colpiti dalla crisi del debito, il ritorno allo stato di natura ci mette dinnanzi a un’umanità simile a quella descritta da Hobbes: la vita del singolo, dominata dalla paura dell’altro, incapace di associarsi per far fronte alle difficoltà, si fa “solitaria, povera, misantropica, brutale, e breve”.[3] In condizioni simili o si profilano rivoluzioni, o appare all’orizzonte il potere-Leviatano, cui l’uomo consegna la propria libertà illudendosi di essere protetto.
È significativo che Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo, abbia parlato proprio di pericolo rivoluzionario, commentando il fallito tentativo di resistenza greca a un’ennesima cura di austerità: il pericolo consistendo nell’estendersi nell’Unione di un’”impazienza che smettendo di essere uno stato d’animo individuale apre la strada alle rivoluzioni”, nel radicarsi di “un’illusione, pericolosamente comune alle destre e sinistre estreme, che sia possibile costruire alternative al presente modello economico dell’Unione”; nella furia iconoclasta con cui vengono “messi da parte valori europei tradizionali come la frugalità e i principi liberali di mercato”. Il tentativo di resistenza è stato sconfitto, e la catastrofe umanitaria greca viene ridotta a una delle tante forme che può assumere il “valore della frugalità”.
Tutto questo è venuto alla luce nella notte del 12 luglio: notte di retribuzione e vendetta, già scritta in seguito alle legislative greche del 25 gennaio dai creditori che hanno poi negoziato con Atene un nuovo pacchetto di aiuti. La maggioranza dei greci aveva detto no ad altre misure di austerità, nel referendum del 5 luglio, e tanto più umiliante è stato l’accordo firmato da Tsipras. La sequela è penitenziale, ragion per cui dopo le tappe di dolore son venute le promesse salvifiche: è stato necessario l’introito sacrificale, perché nei piani alti dell’Unione si ricominciasse a parlare di migliore governance dell’eurozona, di risorse comunitarie in aumento, perfino di Federazione. Proprio perché iscritto in questa sequela, tuttavia, il rafforzamento delle istituzioni proposto dal ministro del Tesoro Schäuble assume un senso preciso, e tutt’altro che promettente. Le nuove istituzioni cui si pensa servono a spoliticizzare ancora più l’Unione, ad aggirare una volta per tutte l’impazienza rivoluzionaria denunciata da Tusk. L’impazienza di Syriza è stata vinta con il consenso di Tsipras, che non ha saputo e forse voluto evitare la scissione dell’ala sinistra alla vigilia delle elezioni di settembre.
Se non si va alle radici della ferita che è stata inflitta alla democrazia e ai diritti dei cittadini, se non si riconosce che questa ferita ha rotto in maniera fatale il legame tra unificazione europea e sua legittimità popolare, se si continua ad affermare che le regole finanziarie dell’eurozona sono sacrosante e che non c’è manifestazione di sovranità popolare né articolo delle Costituzioni che possano metterle in discussione, allora fortificare le istituzioni comunitarie e anche fondarne di nuove ha un solo significato: serve non a cambiare l’Europa facendola uscire dallo stato di natura in cui si trova e a ritrovare le ragioni per cui vale la pena stare insieme con una comune moneta sfidando l’egemonia del dollaro, ma a rinsaldare i poteri oligarchici che l’hanno ridotta in queste condizioni. Nata per mettere fine a secolari guerre fratricide, l’Europa avrebbe oggi bisogno di un nuovo collante che dia senso alla propria unificazione, e questo collante non può che essere la giustizia, dunque la lotta alla disuguaglianza e all’esclusione. Precisamente questo collante viene meno, ed è il motivo per cui l’unificazione barcolla.
Perfino dare più poteri al Parlamento europeo, cosa in teoria buona, rischia di tramutarsi in una trappola. Quello che oggi è in gioco è la sovranità, cioè chi ha diritto di decidere sul giusto e l’ingiusto, su pace e guerra. E non parliamo qui della sovranità degli Stati-nazione, la cui assolutezza già è scomparsa da tempo, ma di quella dei popoli, dei loro Parlamenti, delle loro Costituzioni, sopravvissuta al declino dei vecchi Stati sovrani. Depotenziare questa seconda sovranità, senza che esista ancora una benché minima sovranità popolare sovranazionale, equivale a identificare oltre ogni limite il destino delle nazioni con quello delle democrazie, trascinando ambedue nella rovina e vietando alla democrazia ogni aspirazione cosmopolita e diversificata.
Invece di moltiplicare i poteri, come avviene quando nascono le Federazioni, si eliminano vecchi poteri e diritti e solo per finta se ne creano di nuovi. L’articolo della Costituzione italiana è chiaro, in proposito: le limitazioni di sovranità vengono accettate alla sola condizione che esse siano “necessarie a un ordinamento (internazionale o sovranazionale) che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, e non in altri casi. Anche l’articolo 23 della Costituzione tedesca (il cosiddetto Europa-Artikel, introdotto nel 1992 dopo la riunificazione) accetta deleghe di sovranità a condizione che i principi sociali, democratici e giuridici applicati in Europa non siano inferiori, qualitativamente e quantitativamente, a quelli garantiti dalla Legge Fondamentale tedesca.
Non va in questa direzione chi parla oggi di ulteriori deleghe di sovranità senza valutare a fondo i rischi di impoverimento sociale e di prosciugamento delle democrazie che le deleghe possono comportare. La nuova Europa voluta da una parte del governo tedesco e appoggiata per il momento da una maggioranza di governi (Francia e Italia comprese) sembra avere in mente altro: legittimare l’usurpazione delle sovranità popolari e le regole finanziarie che l’hanno facilitata. Può darsi che i piccoli e misantropi re d’Europa creeranno la Federazione ambita da oltre mezzo secolo da molti democratici, una Federazione più ristretta, con o senza Grexit. Ma saranno re che hanno usurpato il trono, desacralizzando il corpo del popolo sovano, spogliato anche quando va alle urne dei propri poteri, delle volontà che esprime in elezioni o referendum, dei diritti costituzionali garantiti alle minoranze.
Al suo posto si consolida l’insediamento di un’élite senza legami reali (dunque: senza responsabilità) con le procedure classiche della democrazia elettiva. Di fatto è un’élite che regna da quando la Comunità europea ha deciso di essere solo un mercato, una zona di libero scambio competitivo. Da quando ha scelto di essere un’Unione senza ambizioni politiche, pronta a sacrificare il modello sociale inclusivo difeso nel dopoguerra (il Welfare), priva di qualsivoglia progetto di politica estera autonoma, nel Mediterraneo come nei rapporti con il proprio Est e la Russia. La stessa difesa comune europea, di per sé più che necessaria, andrebbe al fallimento come l’euro se venisse edificata senza responsabilità verso un comune governo e una comune politica scelti dagli elettori.
C’è chi obietta, non senza fondamento, che in un ordinamento comunitario la sovranità popolare greca non può valere più di quella tedesca, o olandese, o finlandese, o di qualsiasi altro Paese membro dell’Unione. Ma l’obiezione è zoppicante: nel caso specifico una volontà popolare è stata del tutto ignorata, una minoranza nel Consiglio europeo è stata brutalmente messa a tacere, e i principi della democrazia costituzionale ne escono malconci in tutta l’Unione. Il negoziato con il governo Tsipras è stato condotto per dimostrare che nessuna volontà popolare, quale che sia, può rinegoziare le regole finanziarie che a detta delle oligarchie oggi regnanti dovranno restare i principi fondanti dell’eurozona. Solo questi ultimi hanno sacralità e sovranità. La sovranità dell’elettore cittadino – quale che sia lo Stato cui appartiene – va ridotta, dimostrativamente, da corpo sacro a corpo naturale.
Se così stanno le cose, non deve stupire la doppiezza del ministro Schäuble: l’arrogante, esemplare punizione della Grecia diventa compatibile, dal suo punto di vista, con l’unione europea più stretta che rivendica e promette. Diventa addirittura una sua indispensabile premessa logica. È dal 1994 che Schäuble prospetta un’Europa ristretta al suo nocciolo duro – una Kerneuropa – con un ministro delle Finanze unico e un comune, più cospicuo bilancio federale.[4] Ma a condizione che le dottrine economiche e monetarie tedesche siano fatte proprie dai partner senza alcuna modifica, anche se questo comporterà crisi e sofferenze sociali dovute alle disparità fra centro e periferie dell’Unione. Non era stato Jean Monnet, uno dei padri fondatori, a dire che l’Europa cresceva, ogni volta, grazie alle crisi? Ebbene, la crisi greca produrrà – secondo il governo di Berlino– l’altra Europa tanto invocata lungo i decenni. Nella versione Schäuble, la crisi non apre a più solidarietà e democrazia: è la versione dolorista, castigatrice, inferiorizzante, della distruzione creativa che Schumpeter attribuisce alle innovazioni capitalistiche.
La sofferenza greca è stata utile – questo il ragionamento del governo tedesco, sostenuto da una maggioranza di Stati nell’Unione – e utile moralmente è stato colpire uno Stato per addestrarli tutti. Il male mefistofelico che si infligge o si subisce è ”parte di una forza che eternamente vuole il male, e eternamente crea il bene”. Molti europeisti tentennano. Sono a disagio per quanto è accaduto nella fatidica notte greca di Bruxelles, ma Schäuble li stupisce: che abbia capito il male che era stato fatto? che abbia imparato qualcosa?
C’è da dubitarne. E anche il piano Lamers-Schäuble degli anni ’90 va rivisto, alla luce dei due decenni successivi. Già allora era un piano che sanciva la natura esclusivamente economica dell’Unione. Oggi viene riproposto, senza alcuna ammissione degli errori commessi: a cominciare dall’allargamento ai Paesi dell’Est, dopo il crollo dell’Urss, compiuto senza avere chiaro in mente non solo il futuro equilibrio fra sovranità dei nuovi Stati membri e sovranità comunitaria, ma soprattutto i rapporti con la Russia. Anche sulla gestione della crisi greca, nessuna autocritica è in vista. Solo il Fondo monetario internazionale ha avuto qualche dubbio, pur continuando neghittosamente a raccomandare riforme strutturali di natura recessiva. Quanto agli altri due membri dell’ex trojka – Commissione e Banca centrale europea – l’autocompiacimento resta granitico.
Nessun sospetto sembra turbarli, nessuna confutazione è giudicata ricevibile. Al massimo prospettano – come il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, come il Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ai primi di luglio – aiuti umanitari per Atene. Un’offerta non meno mortificante del successivo accordo del 12 luglio sul nuovo pacchetto di austerità: ancora una volta, la Grecia piegata da discipline deflazionistiche è trattata come un Paese colpito da calamità bellica o naturale. L’Unione più stretta ventilata dopo l’accordo capestro ha per ora due scopi primari: scrivere nel marmo il dogma moralizzatore dell’austerità recessiva, eufemisticamente ribattezzata “frugalità”, e far fronte alla crisi democratica apertasi nell’Unione, soprattutto dopo il referendum greco del 5 luglio, con una costituzione materiale centralizzata, oligarchica, che sopravviva immutata a temute svolte democratiche negli Stati membri (oggi Grecia, domani forse Spagna o Irlanda). Essenziale è che tutti i governi e tutti gli elettori siano al corrente: “Deve far male!”
***
Naturalmente ci vorrebbe una Federazione, per rendere funzionante l’euro e non mortale la crisi di uno Stato membro: Paul Krugman spiega come Portorico, virtualmente in bancarotta come la Grecia, non stia crollando del tutto perché inserita in un’unione fiscale statunitense che garantisce agli Stati membri costretti a disciplinare le proprie finanze l’afflusso automatico di aiuti, quando mancano i soldi per finanziare la sicurezza sociale o l’assistenza medica.[5] L’assenza di una statualità europea forte – non identica agli Stati nazione bensì federale – è il proton pseudos aristotelico, l’errore originario da cui son discese tutte le successive scorrettezze logiche della moneta unica.
Nicholas Kaldor lo scrisse fin dal 1971, criticando quello che fu il primo tentativo di unione monetaria (il cosiddetto Piano Werner del 1970). L’unione economica e monetaria era a suo parere “irraggiungibile senza unione politica”, e presupponeva un’”integrazione fiscale” più che la semplice armonizzazione raccomandata dal Piano, oltre che un “governo della Comunità” e un Parlamento che prendesse su di sé “la responsabilità della maggior parte delle spese oggi assunte dai governi nazionali”, da finanziare “con tasse uniformemente prelevate nella Comunità”. Sembrerebbe quasi il piano Schäuble, se non fosse per l’obiettivo che l’ordinamento federale secondo Kaldor doveva prefiggersi: «In un sistema integrato di questo tipo, le aree prospere sovvenzionano automaticamente le aree più povere; e le aree che conoscono un declino delle proprie esportazioni ottengono immediato sostegno, versando al ministero centrale delle Finanze meno contributi e ricevendone di più [….] l’“incorporazione” di stabilizzatori fiscali garantirebbe che le aree in surplus assicurino automaticamente aiuti fiscali alle aree in deficit».[6] Ciascuna di queste condizioni verrebbe considerata eresia dal governo tedesco. La fallimentare via prescelta è di continuare a versare prestiti alla Grecia e ad aumentare un debito che da tempo tutti sanno essere insostenibile.
C’è un elemento, nella critica di Kaldor, che seppur non esplicitato è forse il più decisivo, e il più attuale. Tutti i piani fin qui concepiti dagli Stati dell’Unione (Piano Werner, Trattato di Maastricht e creazione della moneta unica, Piani più recenti di “governance economica” dell’eurozona, elaborati congiuntamente dai Presidenti della Commissione, del Consiglio europeo, dell’Eurogruppo, della Banca centrale) hanno in comune un vizio fondamentale. Sono incapaci di una visione storica realistica, e soffrono in misura crescente – man mano che ci si allontana dalla fine dell’ultima guerra europea – di una forma particolarmente insidiosa di illusione progressista. Della stessa illusione si nutre, tra l’altro, la trasformazione delle leggi economiche neoliberali (e degli effetti sociali che esse comportano) in leggi (ed effetti) “naturali”.
Perché l’euro, con tutti i difetti che soprattutto il Cancelliere Kohl conosceva bene, è stato celebrato con tanto cieco ottimismo, per così tanti anni? Come mai non ci si è preparati al peggio? Solo pochi hanno insistito sulle carenze dell’Unione: i più si dicevano convinti che spontaneamente, necessariamente, naturalmente, il difetto d’origine sarebbe stato corretto (allo stesso modo in cui una protuberanza su un sentiero si spiana a forza di camminarci sopra) e l’unione economico-monetaria avrebbe partorito l’unione politica di cui aveva bisogno. C’è tuttavia del marcio nel progressismo neo-liberale, e per questo tocca parlare di insidia. Come spesso accade, l’illusione politica può essere al tempo stesso un’impostura: chi s’illude, così come chi illude, non vuole in realtà gli Stati Uniti d’Europa cui rende omaggio, e sin dall’inizio aveva in mente precisamente questa moneta senza Stato, con lo squilibrio che crea a favore degli Stati e delle classi più potenti, che non a caso hanno profittato della crisi in vari modi.
È qui che Kaldor, pur essendo favorevole all’unione monetaria e con preveggenza che oggi appare tragica, smonta ogni sorta di illusione, vera o falsa che sia, e la sottopone alla più realistica delle critiche: «Verrà il giorno in cui le nazioni d’Europa saranno pronte a fondere le proprie identità nazionali e a creare una nuova nazione europea: gli Stati Uniti d’Europa. […] Questo implicherà la creazione di una piena unione economica e monetaria. Ma è un’idea pericolosa pensare che l’unione economica e monetaria possa precedere un’unione politica: che agirà – e qui Kaldor cita Pierre Werner – come un ‘lievito capace di far nascere l’unione politica di cui comunque non potrà fare a meno nel lungo periodo’. Perché se la creazione di un’unione monetaria e di un controllo della Comunità sui bilanci nazionali genererà pressioni che conducono al crollo dell’intero sistema, tale creazione non promuoverà ma impedirà lo sviluppo di un’unione politica».[7]
Tutelare i padroni di teorie economiche assurte a dogmi, ridurre drasticamente la parte della legge positiva e del diritto nel rapporto tra Legge e Natura, tra Nòmos e Physis, cullare infine popoli sempre più recalcitranti nell’illusione-impostura di una storia ancora una volta provvidenziale: ecco la nuova utopia europea, che si finge in continuità con i progetti unitari postbellici degenerando però in distopia. Tornano alla memoria vecchie e recentissime invenzioni letterarie: dal Crystal Palace dell’Esposizione universale di Londra descritto dall’uomo del sottosuolo di Dostoevskij (dove si redigeranno “nuovi rapporti economici, bell’e pronti e anch’essi computati con matematica esattezza, sicché in un attimo spariranno tutti i problemi possibili, appunto perché se ne avranno tutte le possibili soluzioni”), al mondo unificato nel “Noi” obbligatorio di Evgenij Zamjàtin, per giungere all’estensione del dominio della lotta voluta e programmata dal capitalismo neoliberista in Michel Houellebecq.
Nell’odierna distopia dell’Unione europea, il mondo non è tanto quello postnazionale auspicato da Jürgen Habermas e Ulrich Beck. È piuttosto quello della postdemocrazia illustrata da Colin Crouch: “Puoi sempre votare, ma non hai scelta”. Il popolo greco andrà a votare per la terza volta in un anno, ma senza costrutto. Un unico ministero del Tesoro controllerà tutte le politiche economiche dei Paesi membri, ma svuotando ancor più i Parlamenti nazionali e le Costituzioni, allo scopo di rendere il potere sovranazionale immune dai rischi di elezioni o referendum nazionali. Saranno probabilmente attribuiti più poteri nominali a un Parlamento europeo che non ha la storia dei Parlamenti nazionali, né il loro peso, né soprattutto la possibilità di entrare in dialettica con un governo censurabile dalle urne. Schäuble stesso rivela la propria ambiguità: reclama una maggiore condivisione di sovranità fra Stati membri, e al tempo stesso attacca i “poteri eccessivi” che la Commissione di Bruxelles si è arrogata nel corso dei negoziati sul debito ellenico. Secondo il ministro tedesco, Juncker avrebbe travalicato i compiti riservati alla Commissione: partecipando da protagonista ai negoziati, decidendo autonomamente di intrattenere contatti con Alexis Tsipras, svolgendo insomma funzioni che spetterebbero esclusivamente all’Eurogruppo.
Un Eurogruppo che riassume le non poche storture dell’Unione, non possedendo alcuna legittimazione. Varoufakis, ex ministro del Tesoro greco, ha recentemente ricordato i comportamenti e le funzioni dell’organismo difesi da Schäuble contro le presunte incursioni di Juncker. L’Eurogruppo negozia come organo intergovernativo, e tra le altre cose è chiamato ad applicare un trattato – il Fiscal Compact – che non figura nei trattati europei. Dopo essere stato escluso da un incontro dell’Eurogruppo, che aveva in seguito emesso un comunicato senza il consenso della Grecia, Varoufakis chiese un parere ai servizi legali dell’Unione, i quali risposero che “l’Eurogruppo nei trattati non esiste”. Non tiene verbali delle proprie riunioni e non risponde a nessuno: né al Parlamento europeo, né ai Parlamenti nazionali, né alla Commissione.[8] È un organo fuori da ogni legge. Simboleggia l’Europa decostituzionalizzata e deparlamentarizzata che si è imposta in questi anni, usando il caso greco come animale da laboratorio.
Questa l’Europa che si vuole consolidare, fingendo che così si andrà, trasportati dal vento del Progresso, verso gli Stati Uniti d’Europa. È un inganno. Non a caso il secondo rapporto dei 5 presidenti del 22 giugno scorso (Commissione, Consiglio Europeo, Bce, Eurogruppo, cui s’è aggiunto inopinatamente il Presidente del Parlamento Martin Schulz, depotenziando la funzione di controllo che gli eurodeputati potrebbero esercitare dall’esterno con il rifiuto di farsi cooptare dall’esecutivo) parla sì di unione politica, da predisporre a partire dal 2025: ma come coronamento di un’unione ancora più stretta e vincolante in campo economico, non come sua preliminare condizione.
***
Nelle presenti circostanze, meglio non delegare sovranità aggiuntive senza pensare e organizzare molto meticolosamente quello che si fa nell’eurozona. Senza ristabilire il primato assoluto della legge, dei diritti sanciti dalle singole Costituzioni e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Diritti oggi sistematicamente violati, aggirati o ignorati. Meglio non delegare spensieratamente sovranità a organi che sono non solo privi di legittimità democratica ma forse addirittura fuori legge. Meglio perfino non sacrificare il diritto di veto dei singoli Stati, anche se il liberum veto resta una maledizione per qualsiasi unione politica che voglia costituirsi. Il rischio è infatti di perdere su tutti e due i fronti. Sul piano nazionale vengono svuotati Parlamenti e Costituzioni, e “l’uomo solo al comando” è la soluzione che garantisce la governabilità, non solo in Italia: sembra quasi dettata da una direttiva di Bruxelles. Sul piano europeo viene aperto un vuoto di diritto e di democrazia: le elezioni passano ma non devono inficiare la governance europea, che sarà magari chiamata federale ma non per questo si libererà del sospetto di usurpazione. Che non avrà né la forza né la volontà per interloquire seriamente con la Banca centrale, e fare in modo che l’indipendenza di quest’ultima non diventi arbitrio. Che sarà incontrollata, resa immune dalle sorprese della democrazia, e aggrappata a regole economiche immobili: anche quando non funzionano, anche quando un numero sempre più vasto di cittadini ne chiedono altre.
Il 26 marzo scorso, Mario Draghi ha detto davanti al Parlamento italiano che fu un errore mettere al centro le regole economiche anziché le istituzioni, il giorno in cui fu introdotta la moneta unica. Ma il Presidente della BCE invoca le istituzioni perché le regole cessino di essere violate, e vengano immortalate: quelle stesse regole che hanno mostrato di violare diritti fondamentali. Che rinsaldano e perpetuano lo status quo nel preciso momento in cui dalla governance si dovrebbe passare a un autentico governo federale, in cui occorrerebbe dare risposte vere alle richieste disilluse dei popoli. Draghi giudica irrealistiche e velleitarie sia le vie d’uscita sovraniste (“Trincerarsi nuovamente dietro i confini nazionali non risolverebbe nessuno dei problemi”) , sia le alternative federaliste (“le visioni irrealistiche dell’integrazione europea non sono una risposta: non siamo un’unione in cui alcuni paesi pagano in modo permanente per altri. Sperarlo ha l’unico effetto di distrarci dalle nostre responsabilità e dalle sfide che incombono a livello nazionale”). In altre parole: vuol restar fermo lì dov’è. Monnet disse a suo tempo che le istituzioni sono necessarie perché durano più degli uomini e dei governi. Non disse che sono necessarie perché questa o quella dottrina economica si affermi e duri in eterno. Il monito di Kaldor andrebbe ricordato a chi oggi immagina una buona “governance” dell’eurozona senza scardinare, preliminarmente, il comunque instabile status quo. Il proton pseudos aristotelico, l’originaria menzogna da cui discende ogni sorta di deviazione mentale, si ripeterebbe senza fine.
[1] Stefano Fassina, intervista a «Il Manifesto», 21 agosto 2015. Cfr. anche intervista a «L’Unità», 22 agosto 2015.
[2] Studio dell’IWH, Istituto Leibniz per la ricerca economica di Halle, citato in Spiegel online, 10 agosto 2015.
[3] Thomas Hobbes, Leviatano, capitolo XIII.
[4] Wolfgang Schäuble-Karl Lamers, Überlegungen zur europäischen Politik, 1° settembre 1994.
[5] Paul Krugman, America’s Un-Greek Tragedies in Puerto Rico and Appalachia, «The New York Times», 3 agosto 2015.
[6] Nicholas Kaldor, «New Statesman», 12 marzo 1971, in: Further Essays on Applied Economics, New York 1978, p. 205. I corsivi sono miei.
[7] Ibid., p. 206.
[8] Yanis Varoufakis, intervista a «New Statesman», 13 luglio 2015. Articolo «Die Zeit», 19 luglio 2015.