La nonna di Biden e il secolo di ferro

di martedì, Marzo 29, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 marzo 2022

Questa volta il divario tra gli interessi europei e statunitensi è netto. In un comizio a Varsavia, sabato, Biden ha definito Putin un “macellaio” – in precedenza l’aveva chiamato killer, dittatore sanguinario, criminale di guerra– per poi decretare: “Per l’amor di Dio, non può restare al potere!”.

Il ministro degli Esteri Blinken ha subito corretto, lo staff della Casa Bianca ha tentato una goffa retromarcia, Macron nelle vesti di Presidente di turno dell’UE si è dissociato, ma le parole presidenziali restano e palesano l’obiettivo Usa in Ucraina: un “cambio di regime” a Mosca, lo spodestamento di Putin. È la strategia del caos che Washington adotta da quando fantastica di aver stravinto la guerra fredda, di poter violare i patti del 1990 con Gorbaciov, di dominare il mondo con destabilizzazioni belliche regolarmente sconfitte: in ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. È la prima volta che la Casa Bianca punta al regime change di una potenza atomica (6.000 testate). I tabù della dissuasione nucleare crollano, l’impensabile che fondava la deterrenza (la cosiddetta distruzione mutua assicurata) diventa pensabile. Non è un caso che l’escalation di Biden sia avvenuta in Polonia, che vorrebbe un intervento Nato per difendere l’Ucraina dall’invasore russo. Se per settimane Zelensky ha insistito nel chiedere la no-fly zone senza badare al diniego Nato e Ue, è perché alcuni Paesi – Varsavia in primis – lo spingevano in tal senso, contando sulla Casa Bianca. Sin da quando è atterrato in Europa Biden si è comportato da padrone (incoraggiato dall’Ue che non s’è vergognata di invitarlo al Consiglio europeo) ma appena giunto in Polonia ha perso le staffe. Rivolgendosi all’ottantaduesima Divisione Aerea dell’esercito Usa, non ha parlato di vie d’uscita dal conflitto, non ha avviluppato in una retorica di pace l’aumento delle spese militari. Queste dissimulazioni sono affidate agli europei mentre Biden no, non dissimula, parla della propria nazione come “principio organizzativo attorno al quale si muove il resto del mondo – ossia del mondo libero”. Evoca l’icona della “nazione indispensabile” raffigurata nel 1998 da Madeleine Albright, ministro degli Esteri di Clinton e principale artefice dell’estensione Nato (“Non abbiamo bisogno che la Russia dia il suo accordo all’allargamento”, disse a chi obiettava).

Biden è intriso di teologia politica: il “mondo libero” è votato a intervenire contro il Male. La guerra va oltre Kiev, ha una giusta causa ed è lotta “fra libertà e autocrazia, fra democrazia e oligarchi”: Putin non ha in mente l’Ucraina ma vuol demolire la democrazia. A conclusione dell’appello ai paracadutisti ricorda il nonno, che l’incitava a “mantenere la fede”. Ma soprattutto la nonna, che rincarava: “No, diffondila!” (spread it).

Che importa se nel frattempo il pensiero della Chiesa cattolica non è più quello di Tommaso d’Aquino. Se ha abbandonato, da Giovanni XXIII in poi, l’idea di guerra giusta. Papa Francesco denuncia la follia del riarmo occidentale, e di una guerra per procura scatenata colpevolmente da Putin senza negoziati in vista fra grandi potenze (Usa, Russia, Cina), ma Biden non se ne cura. D’altronde ha ammesso che Washington arma l’Ucraina da anni (2 miliardi di dollari, di cui 1 miliardo nelle ultime settimane).

Noam Chomsky ricorda che il culmine fu raggiunto il 1º settembre 2021, poco prima dell’aggressione russa, quando fu firmata la Dichiarazione Congiunta sulla Partnership Strategica Usa-Ucraina. Il documento annunciava l’apertura delle porte Nato all’Ucraina, e riforniva Kiev di armi oltre che di un “programma di robusto addestramento ed esercitazione per sostenere lo statuto ucraino di partnership rafforzata” (NATO Enhanced Opportunities Partnership, preludio dell’adesione, concesso anche alla Georgia). Alla Dichiarazione Congiunta fece seguito una vasta esercitazione Nato in terra ucraina (“Rapid Trident”) che partì dalla base di Yavoriv presso Leopoli, e cui partecipò anche l’Italia. La Dichiarazione Congiunta rappresenta il culmine di un’espansione Nato a Est cominciata dal giorno in cui Clinton violò l’impegno di Bush padre di non espandere la Nato. Una violazione contestata aspramente da diplomatici di primo piano come Henry Kissinger, George Kennan, Jack Matlock (ex ambasciatore Usa a Mosca), William Burns (attuale capo della Cia).

Le guerre di religione tra Bene e Male hanno una natura dualistica e conducono immancabilmente alla morte: l’Europa lo sa meglio del Nord America, perché i suoi popoli le hanno vissute nel ’500-600 (15 milioni di morti) e le conclusero quando capirono che la pace era possibile a una sola condizione: che non vi fosse la vittoria di una fede sull’altra, e che il potere politico non si diffondesse come fosse una fede. Oggi traversiamo un simile “secolo di ferro”, e Biden che vuol atterrare Putin profittando delle sue dissennatezze belliche lancia segnali anche alla Cina, a Taiwan, ai pochi alleati che gli restano nell’estremo oriente. L’India di Modi sta cautamente distanziandosi e nel resto del pianeta – Asia, Africa, paesi arabi, America latina – si moltiplicano gli avversari delle sanzioni e del riarmo, che promettono fame e prezzi energetici proibitivi. Biden assieme a gran parte dell’Europa non sembra aver imparato nulla della storia, né quella antica né quella recentissima.

Ignoranza e mancanza di memoria recente sono forse i dati più significativi della politica atlantica di fronte a un’aggressione russa certamente spropositata, ma che poteva essere evitata e potrebbe ora essere affrontata con altro spirito, di difesa del popolo ucraino e di negoziati su alcuni punti precisi: non solo la neutralità (scritta stavolta nero su bianco, non promessa come ai tempi di Gorbaciov) ma anche la rinuncia al riarmo in Est Europa, alle guerre di regime change. Se questo secolo è di ferro come nel ’500-600, urge un trattato di Vestfalia: un ordine che riconosca gli Stati a prescindere dalle fedi che pretendono di diffondere con le armi.

Quanto all’Unione europea, non è tramite il riarmo che troverà pace, ma proponendo tregue che non siano percepite come sconfitte epocali né a Kiev né a Mosca e riconoscendo che i propri interessi non coincidono con quelli statunitensi. La Russia è una superpotenza atomica, ci è geograficamente e culturalmente vicina. La guerra di Putin in terre ucraine l’allontana dall’Europa e rischia di renderla molto dipendente da Pechino. È con questi dati di fatto che ci troviamo a dover fare i conti.

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L’atlantismo di Draghi impotente in Ucraina

di mercoledì, Febbraio 23, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2022

Salvo ripensamenti più o meno notturni (è una specialità di Enrico Letta, quando prima approvò poi rifiutò la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale) sembrerebbe che il “campo largo” potrebbe sostituire l’alleanza prospettata a suo tempo fra Democratici e Movimento 5 Stelle di Conte. Essendo largo, il campo includerebbe Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva e micro-centristi vari. Resterebbero fuori 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che Renzi e Calenda giudicano equivalenti. Negli anni ’70 l’Italia fu chiamata alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della Nato.

Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica – morto il Pci – è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni. Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per conto proprio.

Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass (Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia, dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero; Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2 – un disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla  pistola ha già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica. Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse, invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di importante”.

Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”.

Non pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi, scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine (compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”).

Su questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990.

Se così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa (Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est. Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014 Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ’90 l’Occidente non dubitava che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare.

Le larghe intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte – definito sull’«Espresso» “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di afflato politico”– a rispondere che “creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere senza la reale prospettiva di un governo che serva davvero a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi dirigenti, nel suo partito.

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L’oscena resa dei conti ai danni dell’antimafia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 settembre 2021

La parola d’ordine è aspettare le motivazioni, cosa che in Italia dura almeno tre mesi. Un buon motivo per risparmiarsi, nell’immediato, la lettura dei due fogli che contengono il dispositivo della sentenza d’appello sulle trattative Stato-mafia, pronunciata il 23 settembre. Se solo venisse letta, da chi oggi ha l’impressione di prendersi una bella rivincita politico-giornalistica e dichiara morto quel che ha denunciato per anni – il cosiddetto teorema della trattativa Stato-mafia, la “gran mattana”, la “parte molto rumorosa del giornalismo” – si capirebbe subito che per i giudici la trattativa c’è stata, tra mafia e pezzi dello Stato. E che il fatto non solo sussiste (la “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” che caratterizzò la trattativa), ma è giudicato criminale, visto che gli interlocutori mafiosi del negoziato vedono confermate le condanne in primo grado: 27 anni di carcere per Leoluca Bagarella invece di 28; 12 anni per Antonino Cinà, il “postino” che prese in consegna i messaggi del Ros a Vito Ciancimino, li portò a Riina e ne ricevette il papello perché i contraenti statali venissero a conoscenza delle condizioni poste dalla mafia per fermare le stragi in corso. Stragi che non si fermarono, anzi si moltiplicarono, anche se oggi non manca chi definisce utile la trattativa.

Se fosse una serie tv o un film, questa cronistoria dominata dalla lotta alla mafia e dalla sua trasformazione in malavita dedita a lucrare sui disastri economici italiani si concluderebbe con scene inquietanti, ominose: non l’Italia liberata dalla mafia e uno Stato integralmente innocente, ma un Paese che conserva qualcosa di veramente marcio, dove colletti bianchi e politica colludono non invisibilmente con la mafia, specie in questi tempi di pandemia.

La Corte d’appello ne trae conclusioni abbastanza sconcertanti, almeno per ora: non rifiuta il legame nefasto fra trattativa e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, ma condanna solo i mafiosi. Coloro che erano all’altro lato del tavolo negoziale – tre ufficiali del Ros – sono assolti perché il fatto criminoso c’è e tuttavia per loro (solo per loro) “non costituisce reato”.

Ma quel che colpisce ancor più della sentenza è l’indecenza della resa dei conti – minacciosa, soddisfatta, saccente – che avviene sui giornali. Nel mirino: tutti coloro che da decenni denunciano le collusioni fra mafia e pezzi dello Stato, nei processi, nei libri o nei giornali. Avrebbero indagato e denunciato per costruire carriere o fondare giornali e partiti. Sono i cattivi demiurghi dell’ossessione mafiosa: i 5Stelle, Marco Travaglio e altri non meno nefandi. S’abbatte sul loro capo la mannaia: è finito il “teorema” sulle collusioni mafia-pezzi dello Stato, finito il “pensiero unico fatto di niente” (Enrico Deaglio su «Domani»). Finita – sulla scia della sentenza – la narrazione capziosa e distruttiva dell’ascesa di Berlusconi, coadiuvato dalla collusione fra il suo luogotenente Marcello Dell’Utri e mafiosi come Stefano Bontade, Totò Riina, Bernardo Provenzano, e poi scendendo per li rami con postini come Cinà e Mangano. Fa impressione vedere come Dell’Utri esca immacolato dal processo Stato-mafia (“non ha commesso il fatto”) e come cada nel dimenticatoio, per gran parte dei commentatori, la sentenza definitiva che inchiodando sia lui sia indirettamente Berlusconi ha condannato in via definitiva Dell’Utri a sette anni di carcere, nel 2014, per concorso esterno in associazione mafiosa e intermediazione fra mafia e Berlusconi. Fa impressione il silenzio sulle azioni malavitose che proseguirono nonostante la trattativa. Per motivi ancora opachi (forse legati alla successione di Mattarella) si diffonde l’opinione, anzi la notizia che, grazie ai governi berlusconiani, la mafia fu sconfitta (Enrico Deaglio).

C’è un punto tuttavia in cui l’indecenza stinge nell’osceno. La resa dei conti precipita nella polvere magistrati o giornalisti che hanno un peso e un seguito. È abbattuta perfino la statua di Nino Di Matteo, con gesto trionfale, nonostante le parole intercettate di Riina che ne commissionava l’assassinio. Ma stranamente, le esecuzioni risparmiano le tante associazioni di cittadini nate sull’onda delle stragi. Una mano colpisce e l’altra resta sospesa in aria, perché non si sporchi troppo. Questo è osceno nella resa dei conti. Di fatto sono punite anche le associazioni ma cum juicio, la lotta è tra potentati politici e mediatici e ha scopi solo politico-mediatici. Di qui il silenzio sui tanti movimenti che combattono le collusioni tra mafia, colletti bianchi, pezzi dello Stato: dall’associazione “Scorte civiche” nata nel 2014 su iniziativa di Salvatore Borsellino alle sue Agende Rosse al movimento “Addiopizzo”. Sono associazioni che indagano non su teoremi, ma su fatti che feriscono ancora i cittadini e la parte migliore, non contaminata, del loro Stato.

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Due trappole per il M5S

di domenica, Febbraio 14, 2021 0 , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 febbraio 2021

Pur capendo le ragioni del No, e nutrendo parecchi dubbi sul governo Draghi (qualcosa di davvero inedito: un commissariamento promosso da tutti i partiti tranne FdI) sono convinta che per il M5S non esistesse altra scelta se non il Sì. Non perché l’operazione Draghi, predisposta da Renzi ben prima di silurare Conte, sia salvifica (è una spaventosa tabula rasa). Ma perché il No estrometterebbe dal governo il M5S con zero possibilità di intervento e zero possibilità di garantire una qualche continuità dell’esperienza Conte: il quale non è affatto fallimentare come sentenziano in coro i commentatori, specie per quanto riguarda il Covid e le vaccinazioni organizzate da Arcuri. Non solo: star fuori implicherebbe la fine dell’alleanza con Pd e LeU, e la prevedibile defenestrazione di Zingaretti (altro desiderio di Renzi). Si trattava di scegliere fra due trappole impaurenti, dove il Sì è meno nocivo del No (o dell’astensione).

Impegni, non promesse: il “contratto” di Conte

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 18 settembre 2020

Parlando agli studenti dell’Istituto Battaglia di Norcia, e a pochi giorni dalle elezioni regionali e dal referendum, Conte ha usato un linguaggio piuttosto inusuale per un capo di governo, specie se il governo in questione è attaccato da più parti. In primo luogo ha detto che alla parola “pro messa” preferisce la parola impegno, e già questo è un piccolo strappo che rende diverso il suo linguaggio. Veramente inatteso è tuttavia quel che ha detto a proposito del cospicuo Fondo di aiuti e prestiti che verrà dall’Unione europea, detto Next Generation EU. Ben sapendo che non solo i poteri forti, ma anche le mafie sono desiderose di mettere il naso e le mani sul denaro che affluirà in Italia, Conte ha fatto capire che il suo destino e quello del suo governo dipendono oggi essenzialmente da questo: la buona gestione e la giusta destinazione dei Fondi. Sembra ovvio quello che ha spiegato agli studenti nel momento in cui li descritti come principali destinatari del Recovery Fund, ma non lo è affatto: “Se noi perderemo questa sfida, voi avrete il diritto di mandarci a casa”.

Conte si ritiene legittimo come presidente del Consiglio non solo perché ha i numeri in Parlamento, o l’appoggio di una coalizione di partiti. Non vuol dipendere dai loro appetiti, dalla guerra che si stanno facendo. Si ritiene legittimo se mostra di sapere ben gestire e ben usare i soldi della ricostruzione all’indomani di una pandemia che ha affrontato molto bene ma che non è finita. Il fallimento in questa gestione delicatissima equivarrà al fallimento del suo governo, e a quel punto i cittadini “avranno il diritto” di mandarlo a casa.

Il presidente del Consiglio è stato subito deriso da Carlo De Benedetti, che ha visto nel patto offerto a Norcia una sorta di previsione catastrofica, come se Conte avesse detto che prima “farà una frittata mandando a picco il paese”, poi eventualmente accetterà di andarsene. De Benedetti non ha capito quel che ha ascoltato – o meglio ha finto sordità – perché le parole di Norcia sono del tutto inattese e stupefacenti, per le classi dirigenti italiane e anche europee. Difficile immaginare una frase simile detta dagli attuali prìncipi che pretendono di governarci: i capi di governo tendono a rimanere in carica curando innanzitutto i rapporti con i potenti della politica, dell ’economia, dell’editoria. Non stringono un contratto dettagliato e di medio periodo con i cittadini (“me ne vado se non faccio bene questo o quell’altro lavoro specifico”).

Nella storia del dopoguerra, in Francia, un politico ebbe una visione analoga della propria legittimità, offrendo al paese lo stesso tipo di contratto. Era Mendès France, presidente del Consiglio a partire dal giugno 1954, radical-socialista in origine e poi socialista, e anche se governò poco tempo è diventato un mito nel suo Paese, al punto di esser soprannominato il De Gaulle di sinistra. È diventato un mito proprio per il patto prospettato nel suo discorso di investitura alla Camera. Il Paese aveva alle spalle la disfatta di Dien Bien Phu, e Mendès disse ai parlamentari che un regolamento pacifico del conflitto in Indocina sarebbe stato raggiunto entro quattro settimane: “Se entro tale data non si troverà alcuna soluzione soddisfacente, sarete liberati dal contratto che ci lega, e il mio governo rassegnerà le dimissioni al presidente della Repubblica”. La pace con l’Indocina fu raggiunta e così accadde per altri “contratti”, concernenti l’inizio della decolonizzazione in Tunisia e Marocco. Molto indipendente, troppo indipendente, Mendès evitava accuratamente – come Conte – la parola “promessa”. Simili contratti non sono più immaginabili nella repubblica presidenziale confezionata da De Gaulle (la Quinta Repubblica che blindò l’esecutivo, e che Mendès France avversava). Macron non sarebbe neppure lontanamente capace di un patto analogo, che in tempi di crisi inaugura una dialettica innovativa fra governanti e governati. Né, fuori della Francia, ne sarebbero capaci Angela Merkel o Boris Johnson.

Il contratto fondato su precise azioni politiche e su chiare scadenze temporali, che il governante offre non già ai partiti ma direttamente ai cittadini o ai loro rappresentanti, è un esperimento democratico raro, tentato allora come oggi in situazioni eccezionali, dove sono in gioco la pace e la guerra, la vita le pandemie e la morte. Il momento Covid che viviamo è una di queste situazioni limite, che mettono alla prova la legittimità dei governi. Le situazioni limite possono generare dittature o democrature, repubbliche presidenziali, parlamenti esautorati o stati di eccezione. Possono anche aprire la strada al semplice, trasparente e impegnativo contratto che il presidente del Consiglio ha offerto martedì agli studenti di Norcia, e indirettamente ai loro rappresentanti in Parlamento.

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Il Conte cocciuto e i “disfattisti”

di mercoledì, Luglio 22, 2020 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 22 luglio 2020

Alla fine l’Europa dei Ventisette ha prodotto il Recovery Fund che aveva promesso, con vantaggi cospicui non solo per Italia e Spagna ma anche per se stessa, per quest’Unione che fatica a trovare il suo “momento Hamilton”: il momento in cui di fronte alle grandi crisi (più di 100.000 morti per Covid, una recessione che rimanda al crollo del ’29) scopre di doversi unire meglio, come avvenne in America del Nord nel 1790 quando i debiti della guerra di indipendenza vennero messi in comune.

Al successo hanno contribuito Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma ancor più ha pesato la cocciuta insistenza di Giuseppe Conte, che trascinando altri otto Paesi si è battuto per una svolta nella politica europea sin da marzo. Si è rivelata vincente anche la sua ritrosia nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che offre prestiti agevolati ma è pur sempre figlio di politiche vecchie, e di un Patto di stabilità solo provvisoriamente sospeso. La preferenza tattica data al Recovery Fund ha smosso il pigro status quo nell’Unione.

Tuttavia non si dimenticherà il subbuglio delle cinque giornate di Bruxelles, e l’Unione non esce affatto guarita da questo vertice che approva il Fondo ma non senza concessioni di rilievo ai cosiddetti “frugali”. I quali hanno provato a disfare il Recovery Fund e a ridurne le novità cambiando sia la sua ripartizione (la quota delle sovvenzioni resta ma è ridotta) sia la natura dei controlli che verranno esercitati via via che si attueranno i piani di ripresa finanziati dall’Unione. Non hanno acquisito un esplicito diritto di veto sulle progressive erogazioni di fondi, ma hanno ottenuto che l’opposizione di un singolo Stato potrà temporaneamente bloccarle.

Li chiamano Paesi frugali, aggettivo sicuramente da loro assai apprezzato ma che non corrisponde a nulla. I governanti in Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia: chiamiamoli più realisticamente, in questo frangente, i custodi del mondo di ieri, quello che sta naufragando; i fautori di una misantropica colpevolizzazione del debito; i cultori di un’austerità non solo fallita ma del tutto impresentabile in tempi di Covid e di ritorno dello Stato nell’economia. Chiamiamoli disfattisti, è aggettivo non univoco ma più pertinente. E chiamiamo l’Olanda, il cui governo ha guidato questo fronte, il Paese noto nel mondo per essere un paradiso fiscale che danneggia enormemente gli alleati. Basta già questo, specie in epoche di crisi, per inficiare la solidarietà fra europei. E bastano a inficiarla i famosi sconti, i rebates concessi in extremis ai disfattisti. Questi rimborsi parziali dei soldi versati all’Unione furono un’invenzione di Margaret Thatcher nel 1984 e sono un modo per stare nell’Ue con un piede dentro e uno fuori.

Anche qui Conte è stato cocciuto e lucido, nell’evidenziare le discrasie europee che permangono: i rebates “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery Plan realizza lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. È stato lucido anche quando ha accusato l’olandese Rutte di miopia: “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi […]. Tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente davanti a tutti i cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Naturalmente il disfattista ha il diritto di combattere il proprio Paese, se lo ritiene tirannico. Ma il disfattista di cui si parla qui vuole il degrado dell’Europa di cui c’è bisogno, e non smetterà di volerlo.

Il degrado è facilitato dal permanere, nelle decisioni più importanti, dell’unanimità: un solo Paese può alzare la bandiera del veto. È il motivo, tra l’altro, per cui da anni sono chiuse nei frigoriferi le riforme delle politiche di migrazione approvate dal Parlamento europeo: accordo di Dublino, rimpatri, reinsediamenti, qualifiche, accoglienza, ecc.

Il disfattista che gongola quando lo chiamano frugale è anche cieco. Gli è passato davanti un tifone – il Covid – e non se n’è accorto. In quel momento passeggiava nei giardinetti e proprio non l’ha visto, povero disgraziato. C’è un personaggio così nel Tifone di Conrad. Non avendolo visto e non vedendolo, Rutte ha chiesto quel che chiede da sempre: molto più potere agli Stati, molto meno alla Commissione che ha avuto la faccia tosta di proporre il Recovery Plan e che pensa di poter vegliare sulla sua attuazione, come chiesto dai non-disfattisti nella speranza che finiscano i rapporti di forza fra Stati cui l’Unione s’è ridotta.

In parte i disfattisti l’hanno purtroppo spuntata: il controllo dei vari piani di ripresa è nelle mani della Commissione, ma gli Stati nel Consiglio avranno l’ultima parola e un singolo Paese membro può interrompere le erogazioni per almeno tre mesi. Nei giorni scorsi Rutte è entrato nel dettaglio, ricordando quello che a suo parere l’Italia dovrebbe fare su pensioni e mercato del lavoro. Nessuna differenza, per lui, rispetto ai prestiti condizionati che hanno devastato la Grecia (anche per motivi politici: c’era un premier, Tsipras, cui bisognava dare una lezione).

A suo tempo, Conte disse che avrebbe negoziato, in Europa, avvalendosi della “forza del popolo”. Tsipras perse questa battaglia, ma l’Italia ha più peso e ha tentato il salto mortale. Nel dopo-lockdown, con l’esperienza di solitudine che hanno sperimentato i Paesi Ue, non sono più possibili ingerenze “alla greca”. L’ingerenza/punizione non è neppure più proponibile allo stesso modo di prima nei confronti dei Paesi di Visegrad, per quanto riguarda il legame tra fondi e rispetto dello Stato di diritto. Il Covid ha scosso certezze anche in questo campo.

Ultima cosa: è straordinario che la Germania, superando vecchi dogmi su sovvenzioni ed eurobond, abbia scelto l’alleanza con chi rifiuta che l’Unione abbia come unica ragion d’essere la protezione dei creditori (soprattutto bancari) dai debitori. Questa alleanza è la vera novità europea nei tempi di Covid, ma non possiamo essere sicuri che tale resterà nel dopo-Merkel.

Anche se volitiva, e più consapevole che in passato, la Germania ha faticato parecchio a imporsi. Era un egemone nascosto, ora esce dal nascondiglio ma non più egemone come prima. Ancor meno lo è la Francia, già diminuita dopo l’89 e l’allargamento a Est. È con questa realtà – la contusa egemonia tedesca, la Francia incapace di convincere durevolmente l’insieme dell’Unione, la risonanza dei disfattisti – che toccherà fare i conti.

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Covid-19, i poteri forti battono cassa

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 7 luglio 2020

Uno dei primi compiti dello Stato è di proteggere la salute dei propri cittadini. È scritto nell’articolo 32 della Costituzione e nessun interesse privato può limitare tale diritto fondamentale. Sembra una constatazione ovvia ma non lo è affatto.

Appellandosi a speciali corti arbitrali, le forze di mercato (grandi corporazioni, big pharma, fornitori di servizi idrici o elettrici, investitori stranieri) possono far causa agli Stati quando ritengono che i propri profitti – presenti e anche futuri – siano lesi dalle misure anti-Covid adottate dai governi.

È la trappola che minaccia gli Stati, nel momento in cui tentano di riequilibrare i rapporti con il libero mercato. Sull’onda del Covid, del necessario lockdown, dello sconquasso dei sistemi sanitari, le autorità pubbliche scoprono di esser state troppo dipendenti dal mercato globalizzato, tornano a essere cruciali, provano a dettare condizioni più stringenti alle imprese che chiedono prestiti o aiuti (è avvenuto sia pure parzialmente nel caso del prestito a FCA).

Ma le multinazionali non sono sempre disposte a perdere i vantaggi di cui hanno goduto in quasi mezzo secolo di neoliberismo e privatizzazioni. Non rinunceranno a reclamare risarcimenti per i guadagni che sono venuti meno o che verranno meno. Non si priveranno facilmente del ruolo fin qui svolto – il ruolo padronale di “poteri forti”– come dimostrato dall’atteggiamento sempre più stizzito dei nuovi vertici di Confindustria. Resisteranno finché potranno alla combinazione delle due norme costituzionali: l’articolo 32 sulla salute pubblica e l’articolo 41 che garantisce la libera impresa privata ma stabilisce che quest’ultima deve essere “indirizzata e coordinata a fini sociali” e “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Così il Covid può divenire fonte di guadagni miliardari in modo del tutto legale. La via è quella dei contenziosi tra le big corporation e gli Stati, cui vengono chieste compensazioni per i mancati profitti in occasione del lockdown e di varie misure governative per far fronte alla catastrofe sanitaria. I tribunali commerciali ad hoc che si occupano di questi contenziosi portano il nome di ISDS: investor-to-state dispute settlement, e proteggono le multinazionali da espropriazioni indirette o trattamenti discriminatori del paese di accoglienza. L’Unione europea e il suo Parlamento hanno abolito i passaggi più oscuri del regolamento ISDS e gli hanno dato un nuovo nome: ICS, Investment Court System. È intervenuta anche la Corte di giustizia europea, nel marzo 2018, giudicando il sistema ISDS incompatibile con il diritto europeo. Tra Stati europei il vecchio ISDS non vale più ma molte storture restano, nei trattati commerciali e di investimento con paesi esterni allo spazio dell’Unione.

Resta la possibilità per ogni grande azienda straniera di ricorrere contro gli Stati ed esigere compensazioni, se considera non protetti i propri diritti. Così è previsto in una serie di trattati commerciali e di investimento negoziati negli ultimi anni dall’Unione europea (che sul commercio ha competenza esclusiva) per facilitare gli investimenti stranieri. Ecco qualche esempio: l’Australia è stata citata in giudizio da Philip Morris per una scritta “Il fumo uccide”; Veolia ha citato in giudizio la città di Alessandria di Egitto per aver portato il salario minimo da 41 a 72 euro; Vatten Fall ha fatto appello contro la Germania per nuove normative ambientali contro le centrali atomiche.

La riforma introdotta in occasione dell’accordo commerciale con il Canada (Ceta) introduce per la prima volta il diritto a fare appello contro le decisioni dei tribunali privati, ma con grosse limitazioni. Il tribunale d’appello potrà solo contestare l’interpretazione della legge, non cercare ulteriori prove o ascoltare nuovi testimoni o esperti. La giurisprudenza sarà inoltre vincolante per i casi legati all’accordo con il Canada, ma potrà essere contraddetta da centinaia di tribunali ISDS legati a altri trattati di investimento conclusi dagli Stati europei. Sono numerosi gli studi legali che assistono gli investitori stranieri in casi di risarcimenti. L’agenzia più quotata in Italia è la ArbLit. Il 26 marzo scorso, in pieno lockdown e mentre aumentavano i morti di Covid, l’agenzia pubblicò un articolo in cui si prospettavano attivazioni di cause risarcitorie “in conseguenza delle misure affrettate e mal coordinate” adottate dal governo Conte.

Negli Stati Uniti è attivo lo studio Shearman & Sterling, che in un recente rapporto sugli effetti economico-industriali della pandemia si dice “pronto a consigliare Stati e investitori in relazione a misure adottate dai governi nel contesto della pandemia Covid-19”. Tra le misure sotto accusa: sospensione dei pagamenti delle spese elettriche, controllo degli Stati sulla sanità privata per proteggere la salute pubblica (Spagna e Irlanda), produzione nazionale di ventilatori e equipaggiamenti medici (mascherine, guanti).

Un altro studio legale (Quinn Emanuel) sostiene che ampie compensazioni son dovute nei casi i cui gli investitori si sono sentiti espropriati in seguito a misure anti-Covid. Eguali domande di compensazioni possono essere fatte da parte di aziende costrette e produrre materiale medico. L’accusa potrebbe essere di “espropriazione indiretta e illegale”.

Ancora più grave, le aziende multinazionali potrebbero citare in giudizio gli Stati per i mancati pagamenti dei servizi idrici (lavarsi le mani di continuo è un indispensabile dispositivo anti-Covid), o per non aver prevenuto disordini sociali.

Per ora non sono ancora state attivate cause, e non tutti gli studi legali ricorrono alle parole minatorie di ArbLit. Shearman & Sterling è più prudente, e ammette che gli Stati hanno il “dovere e il diritto di proteggere la salute pubblica e la loro economia”. Gli studi legali si preparano ad affilare le armi, ma sanno che qualcosa sta cambiando: non sono più solo le destre estreme (i cosiddetti populisti) ma anche Macron e Angela Merkel a promettere la riconquista della perduta sovranità e indipendenza, nazionale ed europea. Non manterranno magari le promesse, ma è con questo nuovo linguaggio che si rivolgono ai cittadini cui hanno chiesto – e forse chiederanno ancora – i sacrifici del lockdown.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Appello dei giornalisti: “Liberate Assange”

Qui il testo originale dell’appello

Qui la lista dei firmatari

Julian Assange, fondatore ed editore di WikiLeaks, è attualmente detenuto nel carcere di alta sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato e poi processato negli Stati Uniti in base all’Espionage Act. Assange rischia una condanna a 175 anni di prigione per avere contribuito a rendere pubblici documenti militari statunitensi relativi alle guerre in Afghanistan e Iraq e una raccolta di cablogrammi del Dipartimento di Stato USA. I ‘War Diaries’ hanno provato che il governo statunitense ha ingannato l’opinione pubblica sulle proprie attività in Afghanistan e Iraq e lì vi ha commesso crimini di guerra. WikiLeaks ha collaborato con un grande numero di media in tutto il mondo, media che hanno pubblicato a loro volta i ‘War Diaries’ e i cablogrammi del Dipartimento di Stato americano. L’azione legale promossa contro Assange, dunque, rappresenta un precedente estremamente pericoloso per giornalisti, per i mezzi di informazione e per la libertà di stampa.

Noi, giornalisti e associazioni giornalistiche di tutto il mondo, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la sorte di Assange, per la sua detenzione e le pesantissime accuse di spionaggio che gli vengono mosse.

Il suo caso è centrale per la difesa del principio della libertà di espressione. Se il governo statunitense può perseguire Assange per avere pubblicato documenti segreti, in futuro i governi potranno perseguire ogni giornalista: si tratta di un precedente pericoloso per la libertà di stampa a livello planetario. Inoltre, l’accusa di spionaggio contro chi pubblichi documenti forniti da whistleblower è una prima assoluta che dovrebbe inquietare ogni giornalista e ogni editore.

In una democrazia, i giornalisti devono poter rivelare crimini di guerra e casi di tortura senza il rischio di finire in prigione. Questo è il ruolo dei mass media in una democrazia. L’utilizzo da parte di governi contro giornalisti e editori di leggi che perseguono lo spionaggio, li privano del loro più importante argomento di difesa – l’avere agito nel pubblico interesse – un argomento non previsto dalle leggi contro lo spionaggio.

Prima di essere imprigionato nel carcere di Belmarsh, Assange ha trascorso oltre un anno agli arresti domiciliari e sette anni all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove gli era stato riconosciuto l’asilo politico. In questo tempo, sono stati violati i suoi più essenziali diritti: basti pensare che è stato spiato durante conversazioni confidenziali con i suoi legali da organizzazioni alle dirette dipendenze dei servizi USA. I giornalisti che, in questi anni, si sono recati a visitarlo sono stati sottoposti a una sorveglianza invasiva. Assange ha subito restrizioni nell’accesso all’assistenza legale e alle cure mediche, è stato privato dell’esercizio fisico e dell’esposizione alla luce del sole. Nell’aprile del 2019, il governo Moreno ha permesso alla polizia britannica di entrare nell’ambasciata per arrestarlo. Da allora, Assange è detenuto in regime di isolamento per 23 ore al giorno e, secondo la testimonianza di chi lo ha potuto incontrare, è “fortemente sedato”. Le sue condizioni fisiche e psichiche nel tempo sono nettamente peggiorate.

Già nel 2015 il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite (GLDA) ha stabilito che Assange era detenuto e privato della liberta in modo arbitrario, ha chiesto che fosse liberato e gli fosse versato un risarcimento. Nel maggio del 2019 il GLDA ha ribadito le sue preoccupazioni e la richiesta che Assange sia rimesso in libertà. Riteniamo i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Ecuador e Svezia responsabili delle violazioni dei diritti umani di cui Julian Assange è vittima.

Julian Assange ha dato un contributo straordinario al giornalismo, alla trasparenza e ha permesso di richiamare i governi alle loro responsabilità. È stato preso di mira e perseguitato per avere diffuso informazioni che non avrebbero mai dovuto essere celate all’opinione pubblica. Il suo lavoro gli è valso riconoscimenti come: Walkley Award per il più straordinario contributo al giornalismo nel 2011, premio Martha Gellhorn per il giornalismo, premio dell’Index on Censorship, New Media Award dell’Economist, Amnesty International e nel 2019 il premio Gavin MacFadyen. WikiLeaks è stata, inoltre, nominata per il Premio Mandela delle Nazioni Unite nel 2015 e sette volte per il Premio Nobel della Pace (2010-2015, 2019).

Le informazioni fornite da Assange sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini di guerra sono di importanza storica, al pari delle rivelazioni dei whistleblower Edward Snowden, Chelsea Manning e Reality Winner, che oggi sono in esilio o in prigione. Contro tutti loro sono state lanciate campagne diffamatorie che spesso si sono tradotte sui media in informazioni errate e in un’attenzione insufficiente alle difficili condizioni in cui si trovano. L’abuso sistematico dei diritti di Julian Assange negli ultimi nove anni è stato sottolineato dal Committee to Protect Journalists, dalla Federazione Internazionale dei giornalisti e dalle più importanti organizzazioni di difesa dei diritti umani. Eppure nei media c’è stata una pericolosa tendenza a considerare normale il modo in cui è stato trattato.

L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura Nils Melzer dopo avere indagato il caso ha scritto:

per finire mi sono reso conto che ero stato accecato dalla propaganda e che Assange è stato sistematicamente denigrato per distogliere l’attenzione dai crimini che ha denunciato. Una volta spogliato della sua umanità tramite l’isolamento, la diffamazione e la derisione, come si faceva con le streghe bruciate sui roghi, è stato facile privarlo dei suoi diritti più fondamentali senza suscitare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale. In questo modo, grazie alla nostra stessa compiacenza, si sta stabilendo un precedente che in futuro potrà e sarà applicato anche dinanzi a rivelazioni pubblicate dal Guardian, dal New York Times e da ABC News. (..) Mostrando un atteggiamento di compiacenza nel migliore dei casi, di complicità nel peggiore, Svezia, Ecuador, Regno Unito e Stati Uniti hanno creato un’atmosfera di impunità, incoraggiando calunnie e soprusi nei confronti di Julian Assange. In vent’anni di attività a contatto con vittime di guerra, violenza e persecuzione politica non ho mai visto un gruppo di Paesi democratici in combutta per deliberatamente isolare, demonizzare e violare i diritti di un singolo individuo così a lungo e con così poca considerazione per la dignità umana e lo Stato di diritto”.

Nel novembre del 2019, Melzer ha raccomandato di impedire l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti e di rimetterlo al più presto in libertà: “Continua a essere detenuto in condizioni opprimenti di isolamento e sorveglianza che non si giustificano per il suo stato di detenzione (…) La prolungata esposizione all’arbitrio e agli abusi potrebbe presto finire per costargli la vita”.

Nel 1898 lo scrittore francese Emile Zola scrisse la lettera aperta J’accuse…! (Io accuso) per denunciare l’ingiusta condanna all’ergastolo per spionaggio dell’ufficiale Alfred Dreyfus. La presa di posizione di Zola è entrata nella storia e ancora oggi simboleggia il dovere di battersi contro gli errori giudiziari e di mettere i potenti dinanzi alle loro responsabilità. Questo dovere vale ancora oggi, mentre Julian Assange è preso di mira dai governi e deve fare fronte a 17 capi di imputazionein base all’Espionage Act statunitense, una legge vecchia più di cento anni.

Come giornalisti e associazioni giornalistiche che credono nei diritti umani, nella libertà di informazione e nel diritto della pubblica opinione di conoscere la verità, chiediamo l’immediata liberazione di Julian Assange. Esortiamo i nostri governi, tutte le agenzie nazionali e internazionali e i nostri colleghi giornalisti a chiedere la fine della campagna scatenata contro di lui per avere rivelato dei crimini di guerra. Esortiamo i nostri colleghi giornalisti ad informare il pubblico in modo accurato sugli abusi dei diritti umani da lui subìti.

In questi frangenti decisivi, esortiamo tutti i giornalisti a prendere posizione in difesa di Julian Assange. Tempi pericolosi richiedono un giornalismo senza paura.

Vi è un altro capo di imputazione in base a un’altra legge, portando il totale a 18 capi di imputazione.

La reazione a catena del caso Assange

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 aprile 2019

 

L’arresto di Julian Assange, giovedì mattina nell’ambasciata dell’Ecuador dove era rifugiato da sette anni, è una notizia più che inquietante, se l’arresto sarà seguito da un’estradizione negli Stati Uniti. Sono in gioco diritti fondamentali dei giornalisti, concernenti il rapporto con le fonti delle loro indagini e in modo speciale con i whistleblower (informatori segreti).

Per quanto riguarda l’Unione europea, è messo in questione il progetto di direttiva concernente la protezione dei whistleblower e del loro anonimato, il cui scopo è – tra l’altro – quello di evitare la criminalizzazione dei giornalisti che si rifiutano di rivelare le proprie fonti. Il testo finale della direttiva – oggetto di un lungo negoziato tra Commissione, Parlamento e Consiglio – sarà votato nella plenaria di Strasburgo la settimana prossima. È sperabile che sarà salvato un punto cruciale difeso dal Parlamento: la possibilità, per l’informatore, di procedere alle sue rivelazioni facendo ricorso non solo a canali interni ma anche esterni.

È grazie alla piattaforma WikiLeaks e a Julian Assange che l’opinione pubblica mondiale è venuta a conoscenza dei crimini di guerra commessi dalle forze armate Usa in Afghanistan e Iraq, oltre che delle torture inflitte ai detenuti di Abu Ghraib e Guantanamo. La verità sui crimini in Iraq e Afghanistan fu rivelata grazie a centinaia di migliaia di registrazioni fornite ad Assange da Chelsea Manning, ex analista militare dell’esercito statunitense divenuta whistleblower. Chelsea Manning fu arrestata nel 2010, e nella prigione subì torture. Fu liberata nel 2017 perché Obama giudicò sproporzionata la pena che le era stata inflitta (35 anni di carcere duro). Nel marzo scorso è stata di nuovo incarcerata, perché si era rifiutata di testimoniare contro WikiLeaks e Assange, giudicando inaccettabile un “grand jury” le cui procedure prevedono udienze non pubbliche.

Basta percorrere i principali capi di accusa formulati dalla Corte distrettuale statunitense, e pendenti su Assange, per capire che la libertà di stampa e la sua indipendenza dal potere politico sono gravemente minacciate. Secondo il giudizio di numerosi giuristi, interpellati in particolare dal sito Intercept, le seguenti accuse sono globalmente invalide:

1) L’accusa di “cospirazione contro lo Stato, legata al fatto che Assange incoraggiò Manning a fornire informazioni e registrazioni provenienti da dipartimenti e agenzie degli Stati Uniti”. L’accusa non regge, secondo i giuristi in questione, perché la funzione del giornalista consiste precisamente nell’incoraggiare le fonti a fornire informazioni di pubblico interesse sulle attività del proprio governo.

2) “È parte della cospirazione il fatto che Assange e Manning adottarono misure atte a occultare la figura di Manning come fonte della divulgazione a WikiLeaks di registrazioni riservate”. Proteggere l’anonimità delle fonti è un caposaldo del giornalismo investigativo, online o cartaceo che sia (fra qualche giorno tale protezione sarà obbligatoria, una volta recepita la direttiva Ue). Se l’anonimità non fosse garantita nessuna fonte segreta uscirebbe allo scoperto, i whistleblower sarebbero in pericolo e la stampa non sarebbe il “cane da guardia” che deve essere in democrazia.

3) “È parte della cospirazione che Assange e Manning fecero ricorso al servizio online Jabber – e a Dropbox – collaborando nell’acquisizione e disseminazione di registrazioni riservate”. Jabber e Dropbox sono strumenti indispensabili nelle comunicazioni fra giornalisti e whistleblower.

Una considerazione a parte va fatta sulle vicende giudiziarie in Svezia, che vedono Assange accusato di stupro. Anche la Svezia infatti chiede l’estradizione: l’accusa è stata nel frattempo archiviata, ma gli avvocati della presunta vittima hanno chiesto la riapertura del processo. L’estradizione in Svezia può avere la sua ragion d’essere, ma a una condizione: che sia del tutto separata dalle questioni poste dalla giustizia americana e legate alle attività investigative di WikiLeaks. La posizione del Partito laburista su questo punto è corretta: nulla da dire su eventuali processi in Svezia, come peraltro già accettato a suo tempo da Assange, ma a condizione che non implichino l’estradizione negli Stati Uniti per imputazioni non inerenti a qualsiasi altro caso giudiziario.

© 2019 Il Fatto Quotidiano

ICE, l’UE chiude le porte alla partecipazione cittadina

Strasburgo, 12 marzo 2019. Barbara Spinelli (Gue/Ngl) è intervenuta ieri nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo dedicata alla Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l’iniziativa dei cittadini europei (ICE).

Presenti al dibattito:

  • Alain Lamassoure, deputato PPE, in sostituzione del relatore György Schöpflin.
  • Andrus Ansip, Vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per il Mercato Unico Digitale.

Il nuovo regolamento è stato approvato con 535 voti a favore, 90 contrari e 41 astensioni.

I più importanti emendamenti presentati da Barbara Spinelli e dal gruppo Gue/Ngl chiedevano: la preservazione dei sistemi di raccolta individuale e la cancellazione della data fissata per la loro abolizione; un serio follow-up legislativo, nei limiti di quanto previsto dall’articolo 11 del Trattato dell’Unione; la possibilità per le Iniziative cittadine di chiedere la modifica di una proposta legislativa in corso.
La proposta di votare gli emendamenti all’accordo provvisorio, presentata in apertura del voto da Barbara Spinelli in nome del gruppo Gue/Ngl, è stata rigettata.

Di seguito l’intervento in Plenaria dell’11 marzo 2019:

Per quattro anni ci siamo occupati di uno strumento iscritto nei Trattati ma moribondo: l’Iniziativa cittadina (ICE). Lo sforzo di riesumarlo era l’occasione per dare una prima risposta alle sfide del momento: la vasta crisi della democrazia rappresentativa; l’offensiva dei poteri costituiti contro i corpi intermedi (sindacati, Ong); la domanda di democrazia diretta o partecipativa. Una domanda crescente – e rischiosa se ripetutamente inascoltata – come dimostrato dal Brexit e dal movimento Gilet gialli.

L’occasione è stata in parte persa, e i cittadini manifestano in questi giorni profondissima delusione. Vero è che l’ICE è tecnicamente migliorata, e il Parlamento potrà valutare le iniziative coronate da successo. Ma il potere di dar loro un seguito legislativo è monopolizzato dalla Commissione, e anche la raccolta firme è accentrata nelle sue mani. I sistemi individuali di raccolta, pure molto efficaci e previsti dal precedente regolamento, saranno aboliti. È un ennesimo schiaffo alle Ong.

È come se avessimo costruito uno smartphone più accessibile ma che bloccasse le chiamate: user-friendly, non citizen-friendly. L’Iniziativa cittadina non viene uccisa, fortunatamente. Ma resta in coma. I poteri costituiti dell’Unione si barricano, chiudendo le porte alla partecipazione cittadina nel preciso momento in cui glorificano l’inesistente dèmos europeo. Non è un segno di forza, ma di debolezza.