Bruxelles, 15 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “e-democrazia nell’Unione europea: potenziale e sfide” (Relatore Ramón Jáuregui Atondo – S&D Spagna) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).
(Il dibattito in Commissione è avvenuto mercoledì mattina, prima dell’uccisione della deputata inglese Helen Jo Cox)
Punto in agenda: Esame del documento di lavoro aggiornato
Ringrazio il collega Atondo per l’eccellente lavoro che ha svolto sulla e-Democracy e sulle opportunità offerte, più generalmente, alla democrazia diretta. Lo ringrazio anche per aver incluso molti punti che avevamo presentato nella riunione dell’aprile scorso. Sinceramente mi dispiace che sia stato ridimensionato il preambolo, laddove richiamava con maggiore precisione le cause della disaffezione dei popoli e che personalmente non consideravo ideologico ma, come già dicevo nella nostra ultima discussione, una fotografia molto veritiera della realtà. La mia opinione è diversa, in proposito, da quella dell’onorevole Preda (PPE).
Proprio su questo punto inviterei il Relatore a essere ancora più esplicito e più allarmato. Siamo alla vigilia del referendum del Regno Unito sull’Unione europea e la maggior parte dei sondaggi ci segnala, da giorni, la possibile vittoria del Brexit. Penso che dobbiamo incorporare nella nostra relazione questa estrema espressione di una disaffezione cittadina che non tocca solo la Gran Bretagna e che tenderà a estendersi, con o senza Brexit, a numerosi Paesi membri. E’ la ragione per cui chiederei al relatore di salvare i ragionamenti del preambolo e di farli emergere lungo tutta risoluzione.
Comincio quindi dalla premessa. Nel documento di lavoro si parla della disillusione e indifferenza dei cittadini, dell’impressione diffusa che essi hanno “di non essere rappresentati dalla politica”, della loro tendenza al distacco e alla non partecipazione. Nella Relazione menzionerei a chiare lettere che siamo di fronte a un rigetto che colpisce il progetto europeo nella sua totalità, più ancora che le istituzioni politiche e la politica stessa in quanto tali. Un rigetto che non chiamerei indifferenza, ma collera e rifiuto. Dargli il nome di populismo equivale, secondo me, a bendarsi gli occhi.
Il rigetto ha una storia al tempo stesso sociale, economica, politica, avendo toccato l’acme ieri nei negoziati tra istituzioni europee e Grecia, oggi nella campagna referendaria sul Brexit. Le due esperienze sono più vicine di quanto si tende a pensare. Nel voto favorevole al Brexit c’è una forte anche se minoritaria corrente di pensiero democratico, cui non possiamo essere indifferenti. La questione della sovranità è posta con forza – non solo sovranità nazionale ma anche sovranità popolare – e il caso Grecia è citato da molti leader inglesi favorevoli all’uscita dall’Unione. Nella democrazia europea si è creato un divario tra “demos” e “kratos”, tra popolo e quella che viene chiamata governance, che è poi comando esercitato dall’alto, praticamente senza controlli. Questo mi sembra il punto dolente da far emergere nella risoluzione.
Passo ad alcune parti propositive, sempre avendo in mente questa premessa cruciale. All’insoddisfazione e alla collera dei cittadini, le istituzioni europee reagiscono come se non fossero interpellate. Per questo insisterei sulla formidabile inadeguatezza mostrata dalla Commissione in tanti suoi comportamenti e, in particolare, nella risposta data al Parlamento in merito alla Risoluzione sull’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). Cito un solo passaggio della risposta in questione: “La Commissione considera che a soli tre anni dalla sua entrata in vigore, sia ancora troppo presto per promuovere una revisione legislativa del regolamento”. Una frase che rivela la sordità della politica e delle istituzioni di fronte alle istanze avanzate dai cittadini attraverso strumenti di democrazia diretta. Quel che la Commissione dice nella sostanza è: “È ancora troppo presto per ascoltare la voce dei cittadini”, dunque per democratizzare l’Unione.
Ancora, entrando nel merito delle proposte e riferendomi al capitolo su “La possibile rotta da seguire”, mi limito per il momento – e in attesa di presentare miei emendamenti – a sottolineare un punto. Quando si dice che la tecnologia digitale potrebbe aiutare a “migliorare la governance nel processo decisionale”, consiglierei al Relatore di non fermarsi qui. Considerata la crisi e il deficit democratico dell’Unione, l’obiettivo non deve essere l’accresciuta efficacia della governance ma, in primo luogo, una partecipazione cittadina che non sia solo un enunciato performativo ma diventi realtà. Altro obiettivo da perseguire: una vera trasparenza delle decisioni comunitarie, che dia ai cittadini il senso di non essere aggirati e lasciati all’oscuro dalle istituzioni europee. E’ il motivo tra l’altro per cui, fin dal 20 aprile, ho insistito sul fatto che la e-Democracy deve essere un processo, non un’esperienza che si riduce al punto terminale rappresentato dal voto.
In conclusione, è la costruzione europea che deve a mio parere trasformarsi, e questa Relazione è una buona occasione per dirlo. Oggi, questa costruzione europea è percepita come un esercizio di potere top-down. Dovrà ripartire dalla sovranità cittadina e dai popoli, e inaugurare nuove pratiche bottom-up. Altrimenti il dramma vissuto ieri sul Grexit e oggi sul Brexit saranno l’inizio della fine del progetto europeo.