Occidente, democrazia zombi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 settembre 2024

Verrà il momento in cui andare a votare sarà un nonsenso, a meno di non abbellire l’evento con spettacoli gratuiti, a ogni seggio: concerti, fuochi d’artificio, varietà.

Già oggi nelle principali democrazie occidentali le elezioni sono puro spettacolo teatrale: sono elezioni zombi per una democrazia zombi, afferma lo storico Emmanuel Todd nel suo ultimo libro (La Défaite de l’Occident, La disfatta dell’Occidente).

Niente di quanto dicono e promettono i candidati è verosimile, essendo presto smentito. Anche il linguaggio che usano – stigmatizzazioni automatiche, formule in stile pubblicitario ripetute tante volte che paiono rivolgersi ai sordi – serve a dissimulare, nascondere, perpetuare il potere di élite dominanti che solo per finta si sottopongono al voto. Le élite sono al servizio delle lobby sulle questioni essenziali (pace e guerra, finanze, energia, clima) e le lobby aborrono lo scrutinio universale.

Nel vocabolario delle élite europee spiccano parole nebbiose e sconclusionate, utili a screditare il dissenso. L’accusa di sovranismo è la principale: chiunque reclami più indipendenza, nazionale o europea, commette peccato sovranista. Altro epiteto infamante: populista. La storia del populismo è lunga e complessa, ma è oggi usata per denigrare la sovranità popolare e svuotare il suffragio universale.

Gli episodi di democrazia zombi si moltiplicano negli ultimi tempi, annullando non tanto le alternanze politiche – i passaggi di governo da un campo all’altro – quanto la possibilità che le alternanze producano alternative. Il potere enorme e tutelare del gruppo centrale che governa malgrado le elezioni incorpora le sinistre centriste e non tollera alternative. Nel 2013 Mario Draghi incensò il “pilota automatico” che negli organi dell’Unione europea era indifferente alla sovranità popolare e alla dialettica destra-sinistra. Nel 1993 Clinton coniò il termine “democrazia di mercato”. Continuamente evocati, i Valori imbellettano l’erosione delle democrazie operata dall’ideologia neoconservatrice che resta ai comandi ed è legata alle grandi industrie dell’energia e degli armamenti.

Il caso statunitense va menzionato per primo, visto che si tratta della superpotenza da cui l’Europa vuole dipendere. Nella campagna contro Donald Trump, Kamala Harris pretende di rappresentare la sinistra in lotta contro l’estrema destra. E certamente Trump è totalmente imprevedibile, dunque pericoloso. Ma ecco che improvvisamente, a spalleggiare Harris, scendono in campo personaggi neoconservatori di destra ben più nefasti di Trump: tra questi campeggia Dick Cheney, già vicepresidente di Bush jr, che in realtà comandò e stravolse gli equilibri internazionali al posto del Presidente, e che è responsabile di 5 milioni di morti nelle guerre successive all’attentato dell’11 settembre, in Afghanistan e in Iraq oltre che in vari altri Paesi del globo.

È Cheney l’ideatore-organizzatore delle prigioni di Guantanamo, del Memorandum che legalizzava la tortura in Iraq e in Afghanistan, della sorveglianza di massa dei cittadini (Patriot Act), del ricorso della Cia al trasporto, alla detenzione illegale e alla tortura di prigionieri sospettati di terrorismo in undici Paesi europei tra cui l’Italia (Extraordinary Rendition). È lui che mise in pratica l’estensione dei poteri presidenziali, tramite la “teoria dell’esecutivo unitario”. Anche Alberto Gonzales, consigliere giuridico di G.W. Bush e responsabile del Memorandum sulla tortura, appoggia Kamala Harris.

Sia Cheney sia Gonzales sarebbero liberi di cambiare casacca, se la cambiassero. Non l’hanno cambiata e tuttavia Harris si è detta “onorata” dalla scelta di Cheney, nel duello televisivo con Trump, e ha fatto capire che continuerà a capeggiare il Partito Unico della Guerra che Biden ha guidato in questi anni: alimentando il conflitto Usa-Russia in Ucraina e sostenendo con armi e danaro la guerra di Israele su più fronti (genocidio a Gaza, ritenuto “plausibile” dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu; offensiva anti-Palestinese in Cisgiordania, mortiferi attacchi cibernetici in Libano e Siria, missili ieri su Beirut). Nel dibattito con Trump, Harris ha promesso di aiutare Israele contro i nemici esterni: cioè Iran, Hezbollah, Huthi dello Yemen. “Abbiamo le forze armate più letali del mondo”, ripete con fierezza. Sull’immigrazione proclama che anche lei erigerà muri al confine col Messico, più efficacemente di Trump.

C’è poi il caso francese. A luglio si è votato per una nuova Camera e la sinistra unita nel Nuovo Fronte Popolare è arrivata prima, con un classico programma socialdemocratico: aumento del salario minimo, tassazione di extraprofitti, fiscalità che non favorisca i più ricchi, riforma più equa delle pensioni. Macron non ha accettato l’esito elettorale, pur sapendo che i propri deputati sarebbero dimezzati senza le desistenze al secondo turno delle sinistre. Risultato: l’Eliseo ha nominato Primo ministro Michel Barnier, esponente di uno dei partiti meno votati, i Repubblicani. Macronisti e Destra Repubblicana sono centrali nel nuovo governo, e la politica di ieri, respinta da tre quarti dei francesi, continua indisturbata. In mancanza di maggioranza, non potrà che patteggiare con l’estrema desta. Macron non è riuscito a dividere le sinistre, perché i socialisti restano per ora fedeli all’unità. Il suffragio universale per Macron è un non evento.

Terzo caso: i laburisti di Keir Starmer, che fra il 2018 e il 2020 ha emarginato la vera sinistra di Jeremy Corbyn, profittando delle campagne che lo bollavano come antisemita e forse aizzandole. Sull’immigrazione Starmer rinnega solo in apparenza i conservatori: gli immigrati che aspirano alla regolarizzazione non verranno trasferiti in Ruanda ma in Albania, quali che siano i costi e la legalità. Starmer si dice attratto dal “modello Meloni” e si è recato a Roma per omaggiarlo.

Ultimo caso degno di nota: quello del Parlamento europeo, che non ha potere né rappresentatività in politica estera, ma influisce su media e partiti nazionali. Giovedì ha approvato un’ennesima risoluzione che propugna l’uso di missili occidentali in Russia, dunque lo scontro diretto Nato-potenza atomica russa. Neanche una riga è dedicata ai negoziati. Hanno votato a favore i Popolari, i Liberali, i Verdi, i Socialisti e parte dei conservatori.

Per l’Italia si sono opposti 5 Stelle, Sinistra, Verdi e Lega. Solo due socialisti si sono astenuti, Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Piuttosto ridicoli gli eurodeputati Pd: prima hanno votato la cancellazione del paragrafo sull’uso dei missili in Russia, poi hanno approvato l’intera risoluzione con il paragrafo non eliminato. Nell’Europarlamento dominano i centristi del Pd. E i centristi, come diceva Mitterrand, “non sono né di sinistra né di sinistra”.

Il modo migliore di tradire l’elettore è convincerlo a scegliere il “male minore”. Sono considerati un male minore Kamala Harris, Macron, Starmer, perfino Meloni quando aderisce all’interventismo Neocon. Il male minore è talmente simile al male che meglio fingere che sia un bene e addirittura un Valore europeo.

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L’Europa si opponga alla neo-apartheid

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2020

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.

Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate.

A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.

Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.

Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania-Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.

Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia saudita.

Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.

In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.

Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).

Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.

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Le oligarchie e il suicidio delle vecchie sinistre

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 12 novembre 2016

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. Il loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.

Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Donald Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’establishment globalizzato, delle politiche che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle, e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. Hillary Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Allo stesso tempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana [dalle lotte della classe media], e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.

Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di ben 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders dello scorso marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Stati Uniti avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.

Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettorati. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a essere qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente” degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto JP Morgan è diventato lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby non solo nazionali ma transnazionali. Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico americano, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.

È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Mario Monti contro il Parlamento italiano e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora Presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegel e senza remore dichiarò: «Capisco che [i governi] debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles». Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro bilaterale a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto […] Siamo in una fase pericolosa […] In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.

Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.

Un’ultima considerazione sul movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’establishment, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Unione dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma comunque democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.

Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Žižek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”. Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede di incarnare la ragione e di essere più sveglia di tutti gli altri.