Il memorandum italo-libico e la politica di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 febbraio 2020

Alla vigilia del rinnovo del memorandum italo-libico sul contrasto alla migrazione irregolare, stipulato nel febbraio 2017 dal governo Gentiloni, Dunja Mijatovic era stata molto chiara: “Chiedo al governo italiano di sospendere l’attività di cooperazione con la Guardia costiera libica per quanto riguarda il respingimento in Libia delle persone intercettate in mare”, aveva detto venerdì scorso il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa. Ricordando che il memorandum era destinato a essere automaticamente riconfermato il 2 febbraio, il Commissario deplorava che le autorità italiane non avessero usato questi mesi per “cancellare l’accordo o, come minimo, modificarne i termini”. Modifiche che il ministro Lamorgese aveva garantito, il 6 novembre, ma di cui non risulta esserci traccia il giorno dopo l’automatico rinnovo.

“Il memorandum rimarrà in vigore nella sua formulazione originaria fino a quando non saranno concordati gli interventi migliorativi”: così la Farnesina ha messo nel cassetto i propositi del ministro dell’Interno come se mai fossero esistiti.

Dunja Mijatovic aveva anche fatto capire che le parole e le buone intenzioni sull’evacuazione dei centri di detenzione non sarebbero bastati. Il memorandum andava sospeso, assieme al sostegno offerto alle Guardie costiere, “fino a quando la Libia e le Guardie costiere non saranno in grado di dare concrete garanzie sul rispetto dei diritti umani”. Queste le condizioni minime: migranti e richiedenti asilo devono essere liberati dai campi in cui si trovano (un diplomatico tedesco li definì Lager di morte, anni fa); il ricorso ai corridoi umanitari deve divenire politica dell’Ue e non solo dell’Italia; e nel Mediterraneo va assicurata una presenza sufficiente di navi dedicate alla Ricerca e Soccorso: “Questa tragedia è già durata troppo tempo, e i Paesi europei ne sono responsabili”. Già nel settembre 2017, il predecessore di Mijatovic –Nils Muižnieks – aveva aspramente criticato il ministro Minniti su questi temi.

Sia pure con toni meno forti, il Capo della missione in Libia dell’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati), Jean-Paul Cavalieri, si era espresso in modo non dissimile, l’8 gennaio in un’audizione alla Commissione esteri della Camera. Aveva detto che alcuni progressi esistono, anche se le evacuazioni dei Lager e il reinsediamento in Paesi sicuri degli evacuati restano minimi, ma comunque aveva ribadito una cosa essenziale, che l’Onu va ripetendo dal dicembre 2016: “La Libia non è da considerarsi un porto sicuro di sbarco per i migranti” (“place of safety”, nel linguaggio del diritto internazionale).

Sia il commissario del Consiglio d’Europa sia il capo missione Unhcr hanno puntato il dito su un’evidenza: la violenza della guerra ha enormemente aggravato la situazione nei campi di detenzione, e minacciato la sicurezza di migranti e rifugiati che si aggirano, senza alcuna protezione, nelle città libiche (a tutt’oggi gli sfollati a causa della guerra sono oltre 300.000). È dunque pertinente quanto affermato sull’«Espresso» da Francesca Mannocchi: delle promesse fatte da Lamorgese (riconferma del memorandum, ma negoziando modifiche sostanziali) non sembra esser restato nulla, a parte dichiarazioni vuote. Dichiarazioni che si sono ripetute negli ultimi anni, a Roma come a Bruxelles, anche se da più di tre anni l’Onu ritiene la Libia porto non sicuro.

Che l’Italia non sia l’unica responsabile del disastro è messo in evidenza, come abbiamo visto, sia da Mijatovic che da Cavalieri. Un aspetto non minore della tragedia è infatti la volontà di impotenza mostrata dall’Unione europea a fronte di una guerra che si sta trasformando in un sanguinoso regolamento dei conti geo-politico, che vede al-Sarraj appoggiato da Turchia e Qatar, e Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia e Francia. Il 19 gennaio, un vertice mondiale a Berlino ha tentato senza successo di fermare l’escalation bellica: i partecipanti si sono impegnati a non interferire nel conflitto e a “rispettare in pieno l’embargo sulle armi” stabilito nel 2011 dall’Onu. Erano vane parole anche quelle, e le interferenze continuano così come le forniture di armi o mercenari. La Libia è un paese ricco di petrolio e gas naturale: questo il vero oggetto di contesa nel Grande Gioco nel Mediterraneo orientale. In particolare, è l’oggetto di contesa nel conflitto politico-diplomatico che vede contrapporsi i governi di Francia e Italia.

Se il governo italiano ha dunque responsabilità di primo piano per quanto riguarda il flusso dei migranti e il memorandum, altrettanto può dirsi della Francia di Macron. Il divario tra parole e fatti, nel caso francese, è solo più subdolo. Basti ascoltare quanto detto da Macron in occasione della visita in Francia del Premier greco, il 29 gennaio: con parole pesanti ha accusato Erdogan per violazione dell’embargo sulle armi, ma non ha fatto il minimo accenno ai mercenari pro-Haftar del Ciad e del Sudan, ai missili francesi trovati in un quartier generale di Haftar presso Tripoli, e alla violazione dell’embargo da parte di chi – come lui – fiancheggia il generale: Emirati e Giordania, già indicati da un gruppo di esperti Onu, nello scorso dicembre, come fiancheggiatori principali di Tobruk. “La Francia sta dando prova di una grande miopia”, avevano concluso gli esperti.

In questo Grande Gioco non ci sono innocenti, e lo stesso si può dire per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori e la mancanza di politiche di Ricerca e Soccorso nelle acque del Mediterraneo. Divisa com’è, l’Unione fa finta di agire. E se si parla dell’Italia con più severità, è solo perché la Francia di Macron è una potenza, nell’Unione europea, più eguale di quasi tutte altre.

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Il sesto scenario di Jean-Claude Juncker

Bruxelles, 27 settembre 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Riunione del Gruppo GUE/NGL.

Punto in Agenda:
Dibattito Strutturato “The White Paper of the European Commission: Five scenarios, no solution!”

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di coordinatore per il Gruppo GUE/NGL della Commissione Affari Costituzionali (AFCO) e di relatore ombra delle Risoluzioni del Parlamento Europeo “sul miglioramento del funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona” e “sulle evoluzioni e gli adeguamenti possibili dell’attuale struttura istituzionale dell’Unione europea”.

Penso che questa volta dovremo partire non dal Libro Bianco della Commissione e dai suoi 5 “scenari”, ma dal Sesto Scenario che Juncker ha illustrato a Strasburgo nell’ultima plenaria. Il tono infatti cambia, se paragonato a quello del White Paper o al Rapporto dei 5 Presidenti. Di quest’ultimo si è persa traccia ma i suoi contenuti sopravvivono nei tre rapporti parlamentari magnificati nel Sesto Scenario (rapporti Verhofstadt, Bresso-Brok, Berès-Böge).

Mi concentro dunque sul tono, che sottende la prognosi trionfalistica e autocompiaciuta dello stato dell’Unione. Abbondano le frasi vittoriose: “Il vento è cambiato”, “Abbiamo il vento in poppa”, “Abbiamo scelto l’unità”, “È tornato il bel tempo”, “Ogni giorno che passa facciamo progressi”.

È importante capire su quali fatti possa mai basarsi simile prognosi, visto che stride con la realtà in modo così palese. Stride con la rovina delle politiche migratorie, con il naufragio dell’allargamento a Est, con la nuova società degli esclusi e precari che è il salatissimo prezzo della timida ripresa economica, e con una crisi dello Stato di diritto che colpisce quasi tutti i Paesi membri. Il linguaggio della Commissione somiglia in modo straordinario a quello di Pangloss nel Candide di Voltaire: Lisbona è distrutta dal terremoto del 1755, ma Pangloss non rinuncia alla sua visione teleologica: “Tutto va bene nel migliore dei mondi possibili”. Anche per Juncker, tutto avviene in vista di una finalità prestabilita da ottimizzare: la salvaguardia dei poteri forti dell’Unione e la loro impermeabilità alle vicissitudini democratiche nei Paesi membri.

I fatti su cui poggia questo trionfalismo sono due: la migrazione e l’economia. Cito per prima la migrazione perché è qui che lo iato tra parole e realtà è più spettacolare. Nel discorso di Juncker viene infatti presentato come successo quello che è il misfatto supremo dell’Unione: la diminuzione drastica dei flussi migratori verso l’Europa grazie a quella che viene chiamata esternalizzazione ed è pura espulsione; i patti stretti prima con la Turchia poi con una serie di Paesi africani, perché rifugiati e migranti restino intrappolati nelle terre da cui fuggono. L’accordo con la Libia è particolarmente rovinoso perché stretto con un Paese che non ha firmato la Convenzione di Ginevra e che si trova alla mercé di milizie e governi fantoccio.

Siamo davanti a una neolingua (newspeak), dove il significato di ogni parola è rovesciato: l’Africa che trattiamo come nostra prigione su scala continentale viene descritta come “nobile continente, culla dell’umanità”; la morte dei migranti (non solo in mare ma sempre più nei deserti a Sud della Libia) diventa nostra salvezza, secondo il motto mors tua vita mea; i campi di detenzione libici vengono definiti inaccettabili quando in realtà li si è già accettati.

Lo stesso si dica dell’economia. La ripresa viene descritta come esito felice di riforme strutturali che non vengono rimesse in questione ma anzi esaltate, nonostante le società sconnesse che producono. Non si sa nemmeno se essa sia dovuta a tali riforme. I riferimenti all’Europa sociale sono vaniloquio. Il cittadino che Juncker predilige esplicitamente è il consumatore, non il produttore, il disoccupato, il precario. Si parla di una European Social Standards Union, senza prospettare parametri sociali vincolanti come lo sono quelli del deficit di bilancio. L’adesione dell’Unione alla Carta sociale del Consiglio d’Europa non è all’ordine del giorno.

È con questa visione che si procede ad alcune proposte istituzionali, che riassumo sommariamente:

1) In primo luogo, occorre rafforzare i poteri degli esecutivi: a livello nazionale e anche europeo. Va in questa direzione la proposta di Juncker di fondere in un’unica autorità funzioni normalmente separate (in primis quelle del Presidente della Commissione e del Presidente del Consiglio europeo).

2) Si propone la figura di un ministro UE dell’economia che unisca due cariche: quella di commissario e di presidente dell’eurogruppo. Anche qui, Commissione e Consiglio vengono fusi.

3) Si propongono al tempo stesso una difesa comune e voti a maggioranza qualificata sulla politica estera, nel Consiglio. Due punti voluti dalla Nato, senza che sia chiarita quale sia la politica estera europea.

4) Infine la democrazia: la Commissione approva l’idea quanto mai nebulosa di Macron di convocare “convenzioni democratiche” fin dall’inizio dell’anno prossimo, in vista delle elezioni europee.

Come ci inseriremo in questo processo come gruppo della sinistra radicale, chiedendo un’Europa diversa? Come reagire a una fusione di organi dell’Unione  che combinandosi con l’estensione del voto a maggioranza asservirà la Commissione agli Stati dominanti nel Consiglio? Non ho idee precise in proposito, ma so di certo che dovremo provare a smantellare  una per una, e con argomenti forti,  le menzogne e le tendenze non federali, ma oligarchiche, del Sesto Scenario.

Una lettera di Barbara Spinelli e Marie-Christine Vergiat chiede chiarimenti alle autorità italiane sul Memorandum di intesa con il Sudan

Barbara Spinelli e Marie-Christine Vergiat scrivono ai ministri italiani dell’Interno e degli Affari esteri: «Sia fatta luce sul rimpatrio forzato di 40 profughi sudanesi e sulla natura degli accordi, anche finanziari, tra Italia e Sudan»

Bruxelles, 26 ottobre 2016

Le eurodeputate Barbara Spinelli e Marie-Christine Vergiat hanno inviato una lettera sottoscritta da 23 parlamentari europei al ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano, al ministro degli Affari esteri Paolo Gentiloni, al capo della Polizia di Stato Franco Gabrielli – e per conoscenza all’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU e all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – a proposito del rimpatrio forzato di 40 cittadini sudanesi avvenuto lo scorso agosto.

«Tale espulsione di massa», scrivono, «ha portato alla luce l’esistenza di un Memorandum d’intesa con il Sudan sottoscritto il 3 agosto a Roma dal capo della polizia italiana Franco Gabrielli e dal suo omologo sudanese, generale Hashim Osman Al Hussein, alla presenza di funzionari del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari esteri. Un accordo tenuto a lungo segreto, mai discusso né ratificato dal Parlamento italiano, che prevede la collaborazione delle polizie dei rispettivi Paesi nella gestione delle migrazioni e delle frontiere».

In cambio dell’erogazione di 1,8 miliardi di euro da parte del Fondo Fiduciario per l’Africa (EUTF), cui l’Italia contribuisce con 10 milioni di euro, «dittature come quella sudanese diventano partner dell’Unione nel processo di esternalizzazione del controllo delle frontiere, ricevendo finanziamenti che mescolano in maniera molto rischiosa gli aiuti allo sviluppo e misure probabilmente repressive contro i migranti».

La cosa è particolarmente preoccupante, affermano le eurodeputate, perché «secondo numerose fonti, tra i beneficiari dei Fondi europei per la gestione dei flussi migratori ci saranno le milizie Janjawid, note per la pulizia etnica attuata nel Darfur. Quel che si teme è che simili accordi, anche con il contributo di tali milizie, abbiano come scopo non dichiarato quello di impedire ai profughi eritrei, etiopi e sudanesi di raggiungere la Libia e attraversare il Mediterraneo». Non va dimenticato che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto contro il Presidente del Sudan Omar al-Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

I parlamentari europei co-firmatari della lettera ricordano che il mancato passaggio del Memorandum d’intesa alle Camere costituisce una violazione dell’art. 80 della Costituzione italiana e chiedono che «sia fatta luce sulla natura degli accordi, anche finanziari, con il Sudan. In questo ambito ricordiamo che il fondo fiduciario UE per l’Africa è in gran parte finanziato con fondi per lo sviluppo, e che questi ultimi non devono essere condizionati a politiche di controllo e dissuasione dei flussi migratori».

Si veda anche:

Sudan, l’accordo segreto con il governo italiano per il rimpatrio dei migranti, «La Repubblica», 26 ottobre 2016

 

Cos’ha imparato l’Europa dagli errori delle politiche passate?

Punto in Agenda: Exchange of views with Members of Parliament of Jordan, Lebanon, Libya, Morocco, Tunisia and Turkey in the presence of Roberta Metsola and Kashetu Kyenge co-rapporteurs on the strategic own-initiative report ”The situation in the Mediterranean and the need for a holistic approach to migration” (2015/2095(INI))

Key note speeches by

Federica Mogherini, Vice-President of the European Commission/High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy
Dimitris Avramopoulos, Commissioner for Migration, Home Affairs and Citizenship
António Guterres, United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR)

Bruxelles, 15 settembre 2015

Barbara Spinelli (Gue/Ngl) è intervenuta nella riunione congiunta delle commissioni Affari esteri (AFET) e Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE) che si è tenuta questa mattina nella sede del Parlamento europeo di Bruxelles sul Rispetto dei diritti umani nel contesto dei flussi migratori nel Mediterraneo, alla presenza della vicepresidente della Commissione europea e Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini, del commissario per la Migrazione, affari interni e cittadinanza dell’UE Dimitris Avramopoulos e dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) António Guterres

«Vorrei porre due domande all’Alto Rappresentante per la politica estera Mogherini riguardo all’operazione navale EUNAVFOR Med, considerando che ci troviamo alle soglie del passaggio alla fase due dell’operazione – quella che prevede lo smantellamento delle organizzazioni dei trafficanti tramite l’abbordaggio e l’affondamento in mare aperto dei barconi su cui viaggiano i profughi – e dunque più vicini alla fase tre, quella in cui l’operazione sarà condotta nelle acque territoriali libiche e nel territorio stesso della Libia.

Quello che vorrei chiedere è contenuto, grosso modo, nell’intervista rilasciata dal Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov il 13 settembre: intervista che ritengo di estrema importanza in virtù della decisione – favorevole o non favorevole all’iniziativa UE – che il governo russo prenderà nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Quale significato assume il concetto di lotta agli smuggler quando ci troviamo di fronte non a barconi, come sempre più spesso accade, ma a gommoni che il più delle volte non sono “governati” da nessuno? Gli smuggler cui si pretende di dare la caccia con questa operazione sono spesso molto lontano dai barconi. Quale dovrebbe essere esattamente il mandato dell’operazione EUNAVFOR Med quando, nell’ipotetica terza fase, saranno previste operazioni militari nelle acque e nei porti della Libia? Infine, e soprattutto: quali lezioni ha tratto l’Europa dagli errori delle politiche passate – come giustamente si è interrogato il rappresentante della Tunisia Karim Helali che ha parlato prima di me – errori che, non dimentichiamolo, hanno provocato e acuito l’esodo di questi anni?»