Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Riunione del Gruppo GUE/NGL. Bruxelles, 28 giugno 2017.
Punto in Agenda:
Dibattito Strutturato “Democracy in the EU”, promosso da Nikolaos Chountis e Barbara Spinelli
Prima di discutere il tema di questa conferenza, vorrei sottoporvi qualche riflessione su ambedue gli aspetti della questione: la democrazia dei governi nei loro rapporti con l’Unione, e la democrazia di quella che significativamente non è chiamata governo ma governance dell’Unione in quanto tale, con le sue istituzioni e le sue politiche sovranazionali. Di fatto siamo alle prese con un sistema politico ibrido, in parte nazionale in parte sovranazionale, e i due aspetti possono difficilmente essere disgiunti. Ma dal punto di vista del funzionamento democratico è utile esaminarli disgiuntamente, perché a entrambi i livelli la democrazia è oggi malata, e più o meno surrettiziamente messa in questione.
In genere le malattie connesse a quest’intrico di poteri sono affrontate ricorrendo al concetto della sussidiarietà, che dovrebbe fornire un equilibrio giusto, cioè democratico, tra quel che si fa a livello nazionale e quel che si decide attraverso le istituzioni o le politiche decise in comune, sul piano sovrannazionale. Ma dobbiamo riconoscere che man mano che la democrazia si esaurisce, il concetto di sussidiarietà si trasforma in pensiero magico, più che logico o razionale. Sappiamo che il pensiero diventa magico, in Freud, quando pretende di trasformarsi in realtà per il solo fatto di essere pensato.
Comincio con la democrazia nell’Unione. Se parlo di messa in questione surrettizia, è perché essa non è chiaramente esplicitata. Di regola, il vizio rende omaggio alle virtù democratiche. Nessuno, nella Commissione o nell’Eurogruppo o nel Consiglio europeo, si azzarderebbe a dire che le elezioni nazionali o i referendum sono una pietra di inciampo, se non di scandalo. La cosa viene però detta tra le righe, senza farsi molti scrupoli: regolarmente, a ogni tornata elettorale importante, la Commissione o il Presidente del Consiglio europeo o la Bce entrano nei giochi elettorali con prese di posizione a favore di questo o quel candidato a governare i Paesi membri. In genere sono candidati dello status quo, giudicati compatibili con le politiche non solo delle istituzioni ma anche dei mercati. Chi non è ritenuto compatibile viene denominato populista.
Gli interventi di questo tipo sono molti, ma ne vorrei citare uno che mi sembra emblematico, risalente ai primi anni della crisi del debito. Mi riferisco a quanto dichiarato da Mario Draghi in una conferenza stampa del 7 marzo 2013, subito dopo un’elezione legislativa in Italia che vide il consolidamento del Movimento Cinque Stelle. Il messaggio fu interpretato come un elogio della democrazia, imprevedibile per definizione: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Ma Draghi ha detto qualcosa di meno placido e di più contorto, sul voto italiano e le sorprese (brutte o belle dal suo punto di vista) che il suffragio universale può riservare ai mercati, specie nei paesi debitori. Ha dato una forma compiuta e istituzionale a quello che un altro banchiere centrale, l’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer, aveva detto fin dal 1998 a proposito della necessaria convivenza, e dell’opportuna equiparazione, tra i due plebisciti: il plebiscito delle urne e il “plebiscito permanente dei mercati internazionali”. Di questi mercati Draghi ha voluto farsi portavoce, spiegando il perché della loro impermeabilità ai verdetti elettorali. Dopo essersi inchinato alla democrazia ha aggiunto, quasi en passant, che l’austerità sarebbe continuata tale e quale, divinamente indifferente a quel che si agita nei bassi mondi. «Dovete considerare – così Draghi ha completato il suo ragionamento – che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico». Il Pilota Automatico è qualcosa di liscio e di impenetrabile, che comporta se necessario un’abdicazione delle democrazie. Nel discorso di Draghi, il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” prende infine il sopravvento sulle sovranità popolari. L’erosione delle costituzioni nei singoli Stati membri è frutto di questo nuovo rapporto di forze: nelle istituzioni europee come negli Stati membri, i poteri degli esecutivi tendono ad accentrarsi, divenendo preminenti. Non stupisce che Emmanuel Macron, eletto Presidente di una delle costituzioni più autocratiche dell’Unione, sia descritto dalle élite come un Messia.
Il primo marzo scorso in plenaria il Presidente Juncker ha detto una cosa simile, nel descrivere il White Paper sull’avvenire dell’Unione: “Il futuro dell’Europa non può divenire ostaggio dei cicli elettorali, delle politiche partitiche o delle vittorie di breve periodo”. Il che è come dire: l’Unione non può esser prigioniera di uno strumento paralizzante e potenzialmente devastante come il suffragio universale. Si è perfino avventurato in considerazioni storico-filosofiche: “L’Europa è sempre stata una scelta deliberata: una scelta che va difesa dagli attacchi di chi non vuol capire la Storia”. Una conclusione stupefacente, detta da un liberale. Che io sappia, il pensiero liberale classico non contempla questo genere di fideismo storico. Non dovrebbe esistere chi sta dentro e chi fuori dalla Storia, essendo la Storia qualcosa di completamente imprevedibile, che non marcia provvidenzialmente verso il migliore dei mondi possibili. Eppure sentiamo spesso i partiti della conservazione fare questa distinzione fra chi sta fuori e chi dentro la cosiddetta Storia: il pensiero dogmatico e ideologico ha ormai radici ben salde nei partiti che occupano le forze di centro del nostro emiciclo.
A ciò si aggiunga una considerazione, concernente la democrazia dentro l’Unione. Alcuni Paesi sono con ogni evidenza più eguali degli altri: il Parlamento tedesco può bloccare le politiche europee, i Parlamenti di altri paesi no. La Corte costituzionale tedesca può determinare il corso delle politiche europee e fissarne i limiti dettati dalle democrazie nazionali, la Corte portoghese non può mettere in questione nemmeno due paragrafi del memorandum di austerità (sentenza del 5 aprile 2013). Alla Grecia viene chiesto dalla Commissione di adattare le leggi nazionali alle politiche di rimpatri forzati di migranti verso la Turchia (per fortuna il governo greco ha risposto negativamente a questa domanda, per il momento). Ad altri Stati più potenti non è possibile fare richieste del genere.
Il secondo punto è la mancanza di democrazia delle istituzioni, e come ho detto il tema non è disgiunto dal primo. L’offensiva contro il suffragio universale e le sovranità popolari ha per forza di cose ripercussioni sulle politiche decise dalle istituzioni. Per meglio renderle invulnerabili, per evitare che il futuro dell’Unione sia preso in ostaggio dalle pratiche del suffragio universale, occorre che tali politiche siano il meno possibile sorvegliate, trasparenti, controllate ed eventualmente refutate: dai Parlamenti, dai referendum nazionali, o anche dal Parlamento europeo. L’accordo obbligatorio del Parlamento europeo sui Trattati tra Unione e Paesi terzi è evitato addirittura con escamotage semantici (è il caso dell’accordo con la Turchia sulla migrazione, chiamato furbescamente “statement” e non equiparabile dunque a un trattato su cui Il Parlamento avrebbe legalmente l’ultima parola). Oppure è evitato negando il coinvolgimento diretto in tali trattati o statement delle istituzioni UE, e sottraendo queste ultime ai giudizi della Corte di giustizia, non abilitata a giudicare accordi bilaterali di rimpatri di migranti. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la conformità dei memorandum sull’austerità alle prescrizioni della Carta dei diritti fondamentali: anche qui si pratica l’escamotage, con la scusa che gli accordi sono stipulati tra il governo greco e i creditori, anche se questi ultimi si fanno rappresentare nei negoziati da istituzioni comuni europee come la Commissione e la Banca centrale europea, accanto al Fondo Monetario internazionale (a suo tempo la cosiddetta Troika).
Quanto alla Commissione, i suoi richiami alla democrazia e alla propria legittimità democratica sono costanti e poco credibili: tanto più costanti quanto meno credibili, si direbbe. La procedura dello Spitzenkandidat nelle elezioni del Parlamento non democratizza veramente l’istituzione, visto che il governo dell’Unione pretende di essere un governo tecnico e dunque senza mandato popolare, una volta passate le elezioni e le audizioni del Commissari. Basti ricordare la risposta che il Commissario al Commercio Cecilia Malmström diede nel 2015 a John Hilary, che l’interrogava sulle proteste popolari crescenti contro il TTIP: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo – I do not take my mandate from the European people“. La cosa è aggravata dall’emendamento che Juncker vuole imporre alle regole di condotta della Commissione, nelle elezioni del Parlamento europeo: i Commissari possono candidarsi senza dover uscire dalla Commissione. Se accettato, l’emendamento contribuirà a politicizzare la Commissione e a de-politicizzare al tempo stesso lo scrutinio europeo e il Parlamento stesso.
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L’unico ricorso è spesso solo giuridico: Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo. Tanto più significativa la sentenza emessa il 10 maggio scorso dalla Corte di giustizia a Lussemburgo su un’Iniziativa Cittadina – “Stop TTIP” – che la Commissione aveva giudicato irricevibile.
Per questi motivi sono contraria a una fuga dall’Europa verso le sovranità nazionali assolute. Può darsi che la storia andrà in questa direzione, ma al momento la struttura decisionale dell’Unione resta un ibrido, composto di elementi nazionali e sovranazionali. L’Altra Europa cui aspiriamo deve democratizzarsi su ambedue i livelli.
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Democracy in the Union and of the Union: necessity to distinguish the two levels of decision making, as the political structure of the Union is an hybrid and constitutional democracy is today threatened on both “governmental” levels.
Democracy in the Union:
what we are facing today is a double erosion: erosion of the constitutions in the Member States (centralisation and preeminence of the executives) and of the popular sovereignties (growing calling in question of the universal suffrage, as expressed in elections and referenda). Direct involvement in electoral competitions of the Commission and the ECB. The old dichotomy between the “plebiscite” of the national elections and the “permanent plebiscite of the international markets”, suggested as a viable formula in 1998 by Hans Tietmeyer, at the time President of the Bundesbank, has given way to the explicit preeminence of the second “plebiscite”: the constant plebiscite of the financial markets. (Examples).
Democracy of the Union:
what we are facing is a progressive shirking of responsibilities by the EU institutions. The increasing power of such institutions goes hand in hand with a deliberate loss of responsibility not only from a political point of view but also from a judicial one. Such power without responsibility is implemented through semantic and political escamotages and explains the growing disrespect – in EU policies – of the Charter of fundamental rights, the Convention of human rights, the Court of justice, the European Court of human rights. An evidence of such democratic retrogression is given by the way the Commission denies its involvement and accountability in the austerity memoranda or in the stipulations of international agreement like the EU-Turkey deal or the negotiations on TTIP or Ceta. (Examples).