di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 marzo 2021
Da quando è insediato a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha agito in continuità con il governo Conte, soprattutto sulle chiusure anti-Covid, sul Reddito di cittadinanza, sulla linea intransigente tenuta nell’Unione europea, sulla riconferma di Roberto Speranza al ministero della Salute, e questo di certo va a suo merito.
Non sono mancati tuttavia i gesti di discontinuità – tanto invocati dalle destre, da Italia Viva, da gran parte dei commentatori– ma per ora non ce n’è uno che sia benfatto. Il primo gesto di discontinuità è la rarità del verbo, che i giornalisti mainstream giudicano un segno di fascinosa distinzione. Ventun giorni fa il discorso alle Camere, poi niente, poi lunedì un videomessaggio piuttosto compassato. Ecco infine un premier che parla “quando ha qualcosa di dire”, ecco la “legge del padre”, glossano commentatori e psicologi, annunciando che è finita l’epoca delle “conferenze a reti unificate” di Giuseppe Conte, finita la corsa alla visibilità che lusinga l’ego ma perbacco, mica è Politica! La pandemia si intensifica, scienziati e medici si rabbuiano, siamo vicini a un nuovo lockdown e Draghi lascia che siano i ministri o il Comitato tecnico-scientifico a esporsi in conferenze stampa con domande e risposte. Lui sta a Palazzo Chigi: incontaminato, ieratico. La rarità del verbo si addice a un presidente di Banca centrale, nazionale o europea (una parola in più e subito i mercati s’inebriano, come accadde per le tre celebri parole whatever it takes). Non si addice a un capo di governo, specie se non eletto.
È come se nella mente del Premier non si fosse accesa una lampadina, che gli permetta di vedere come vivono e muoiono le persone in tempi di recrudescenza pandemica. Gli italiani hanno apprezzato le frequenti parole di Conte e la sua empatia, man mano che il virus li piegava e piagava, e stupisce che i giornalisti – in teoria osservatori della realtà – continuino a parlare di sproloqui populisti a reti unificate. Angela Merkel parlava ai tedeschi ogni settimana, e settimanale è l’incontro con la stampa del Premier francese.
Discontinua è stata anche la rimozione di Domenico Arcuri. Draghi l’ha sostituito con il generale Figliuolo, senza uno straccio di spiegazione. Arcuri aveva cominciato ottimamente le vaccinazioni, rallentate solo perché i rifornimenti pattuiti sono stati bloccati. A chiederne lo scalpo erano Renzi, le destre, alcuni convulsi talk show e Draghi gliel’ha offerto sul piatto. Secondo Pier Luigi Bersani è così, alla cieca e senza motivi, che si abbattono i capri espiatori. Si può solo sperare che la militarizzazione della vaccinazione dia i frutti promessi.
Non meno problematico è il ricorso alla società McKinsey e a altre multinazionali di consulenza per la preparazione del Recovery Plan, rivelato il 5 marzo da Radio Popolare. È la privatizzazione del piano Marshall post-Covid, anche se il ministro del Tesoro Daniele Franco si è affrettato a specificare – in un comunicato e un’audizione parlamentare – che le decisioni su progetti di investimenti e riforme restano in mano al ministero, e che a McKinsey e agli altri consulenti esterni verrà affidato il “supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. La frase è illeggibile ma si capisce che il “supporto” è sostanzioso. Il compenso non è alto (non supera la soglia oltre la quale sono obbligatorie le gare) ma in cambio i consulenti accederanno a dati preziosi, anche se il ministro lo nega.
Una delle principali accuse di Renzi a Conte riguardava la task force che avrebbe potuto gestire il Recovery Fund. Draghi crea squadre di tecnici più vaste ancora, e in buona parte esternalizzate a soggetti privati non trasparenti. Alla militarizzazione si aggiunge dunque la privatizzazione, che Draghi sa imporre da trent’anni. “La parte più importante delle decisioni che riguardano la nostra vita è ormai collocata su una scala dimensionale sulla quale gli Stati non hanno più presa”, disse a suo tempo Gustavo Zagrebelsky. Per la prima volta traspare qualche malcontento, in Fratelli d’Italia e anche nel Pd, nel M5S e in LeU.
Per il momento è questo l’apparato Draghi. A co-decidere accanto a lui la cerchia di ministri tecnici, e di consiglieri di vecchio stampo neoliberista come Francesco Giavazzi (Conte aveva scelto Mariana Mazzucato, economista keynesiana di crescente prestigio). Al pari di Draghi, la prima cerchia è avara di parole. Tutto attorno, ma lontani: i ministri politici, gli unici che devono render conto agli elettori.
McKinsey non cade immacolata dal cielo e ha un curriculum piuttosto sporco. Sul sito del «Fatto», Mauro del Corno ha spiegato la sua erosione progressiva: il coinvolgimento nel crac di Enron nel 2002, e più recentemente lo scandalo delle medicine oppioidi negli Stati Uniti. La dipendenza dal farmaco OxyContin ha provocato 450.000 morti in vent’anni, in America del nord, e a gennaio la multinazionale che assisteva la casa farmaceutica Purdue ha dovuto patteggiare una multa di quasi 600 milioni di dollari con 47 Stati americani. “Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli Stati più colpiti. McKinsey aveva addirittura consigliato a Purdue di aumentare vendite e dosaggio del farmaco per incrementare i guadagni, prodigando consigli su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del prodotto.
A ciò si aggiungano gli scandali in Sudafrica e i consigli forniti al principe saudita Mohammed bin Salman: un interlocutore appetitoso anche per Renzi, come sappiamo (Lo stesso Renzi che sabato era negli Emirati, dove risiedono società che hanno finanziato la sua Fondazione Open. Ha querelato i giornali che ne hanno dato notizia – «La Stampa» e «Tpi»– ritenendo evidentemente che la segretezza sia la brillante cifra dell’era Draghi).
Il ministro Franco assicura che il contratto con McKinsey era “già aperto”, ma omette l’essenziale: Conte discusse l’opzione, è vero, ma poi decise di non far entrare alcuna società di consulenza privata e straniera nella squadra del Recovery Plan. Neanche le società già attive nei ministeri.
In realtà Draghi rompe la continuità con Conte, su McKinsey, ma non con sé stesso. Anche quando organizzò le massicce privatizzazioni degli anni 90 si rivolse a società multinazionali di consulenza. Nel 2012 la Corte dei Conti criticò “l’eccessivo ruolo” attribuito ai consulenti esteri, ma pochi ne hanno memoria.
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