Novità inquietanti nell’era Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 marzo 2021

Da quando è insediato a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha agito in continuità con il governo Conte, soprattutto sulle chiusure anti-Covid, sul Reddito di cittadinanza, sulla linea intransigente tenuta nell’Unione europea, sulla riconferma di Roberto Speranza al ministero della Salute, e questo di certo va a suo merito.

Non sono mancati tuttavia i gesti di discontinuità – tanto invocati dalle destre, da Italia Viva, da gran parte dei commentatori– ma per ora non ce n’è uno che sia benfatto. Il primo gesto di discontinuità è la rarità del verbo, che i giornalisti mainstream giudicano un segno di fascinosa distinzione. Ventun giorni fa il discorso alle Camere, poi niente, poi lunedì un videomessaggio piuttosto compassato. Ecco infine un premier che parla “quando ha qualcosa di dire”, ecco la “legge del padre”, glossano commentatori e psicologi, annunciando che è finita l’epoca delle “conferenze a reti unificate” di Giuseppe Conte, finita la corsa alla visibilità che lusinga l’ego ma perbacco, mica è Politica! La pandemia si intensifica, scienziati e medici si rabbuiano, siamo vicini a un nuovo lockdown e Draghi lascia che siano i ministri o il Comitato tecnico-scientifico a esporsi in conferenze stampa con domande e risposte. Lui sta a Palazzo Chigi: incontaminato, ieratico. La rarità del verbo si addice a un presidente di Banca centrale, nazionale o europea (una parola in più e subito i mercati s’inebriano, come accadde per le tre celebri parole whatever it takes). Non si addice a un capo di governo, specie se non eletto.

È come se nella mente del Premier non si fosse accesa una lampadina, che gli permetta di vedere come vivono e muoiono le persone in tempi di recrudescenza pandemica. Gli italiani hanno apprezzato le frequenti parole di Conte e la sua empatia, man mano che il virus li piegava e piagava, e stupisce che i giornalisti – in teoria osservatori della realtà – continuino a parlare di sproloqui populisti a reti unificate. Angela Merkel parlava ai tedeschi ogni settimana, e settimanale è l’incontro con la stampa del Premier francese.

Discontinua è stata anche la rimozione di Domenico Arcuri. Draghi l’ha sostituito con il generale Figliuolo, senza uno straccio di spiegazione. Arcuri aveva cominciato ottimamente le vaccinazioni, rallentate solo perché i rifornimenti pattuiti sono stati bloccati. A chiederne lo scalpo erano Renzi, le destre, alcuni convulsi talk show e Draghi gliel’ha offerto sul piatto. Secondo Pier Luigi Bersani è così, alla cieca e senza motivi, che si abbattono i capri espiatori. Si può solo sperare che la militarizzazione della vaccinazione dia i frutti promessi.

Non meno problematico è il ricorso alla società McKinsey e a altre multinazionali di consulenza per la preparazione del Recovery Plan, rivelato il 5 marzo da Radio Popolare. È la privatizzazione del piano Marshall post-Covid, anche se il ministro del Tesoro Daniele Franco si è affrettato a specificare – in un comunicato e un’audizione parlamentare – che le decisioni su progetti di investimenti e riforme restano in mano al ministero, e che a McKinsey e agli altri consulenti esterni verrà affidato il “supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. La frase è illeggibile ma si capisce che il “supporto” è sostanzioso. Il compenso non è alto (non supera la soglia oltre la quale sono obbligatorie le gare) ma in cambio i consulenti accederanno a dati preziosi, anche se il ministro lo nega.

Una delle principali accuse di Renzi a Conte riguardava la task force che avrebbe potuto gestire il Recovery Fund. Draghi crea squadre di tecnici più vaste ancora, e in buona parte esternalizzate a soggetti privati non trasparenti. Alla militarizzazione si aggiunge dunque la privatizzazione, che Draghi sa imporre da trent’anni. “La parte più importante delle decisioni che riguardano la nostra vita è ormai collocata su una scala dimensionale sulla quale gli Stati non hanno più presa”, disse a suo tempo Gustavo Zagrebelsky. Per la prima volta traspare qualche malcontento, in Fratelli d’Italia e anche nel Pd, nel M5S e in LeU.

Per il momento è questo l’apparato Draghi. A co-decidere accanto a lui la cerchia di ministri tecnici, e di consiglieri di vecchio stampo neoliberista come Francesco Giavazzi (Conte aveva scelto Mariana Mazzucato, economista keynesiana di crescente prestigio). Al pari di Draghi, la prima cerchia è avara di parole. Tutto attorno, ma lontani: i ministri politici, gli unici che devono render conto agli elettori.

McKinsey non cade immacolata dal cielo e ha un curriculum piuttosto sporco. Sul sito del «Fatto», Mauro del Corno ha spiegato la sua erosione progressiva: il coinvolgimento nel crac di Enron nel 2002, e più recentemente lo scandalo delle medicine oppioidi negli Stati Uniti. La dipendenza dal farmaco OxyContin ha provocato 450.000 morti in vent’anni, in America del nord, e a gennaio la multinazionale che assisteva la casa farmaceutica Purdue ha dovuto patteggiare una multa di quasi 600 milioni di dollari con 47 Stati americani. “Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli Stati più colpiti. McKinsey aveva addirittura consigliato a Purdue di aumentare vendite e dosaggio del farmaco per incrementare i guadagni, prodigando consigli su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del prodotto.

A ciò si aggiungano gli scandali in Sudafrica e i consigli forniti al principe saudita Mohammed bin Salman: un interlocutore appetitoso anche per Renzi, come sappiamo (Lo stesso Renzi che sabato era negli Emirati, dove risiedono società che hanno finanziato la sua Fondazione Open. Ha querelato i giornali che ne hanno dato notizia – «La Stampa» e «Tpi»– ritenendo evidentemente che la segretezza sia la brillante cifra dell’era Draghi).

Il ministro Franco assicura che il contratto con McKinsey era “già aperto”, ma omette l’essenziale: Conte discusse l’opzione, è vero, ma poi decise di non far entrare alcuna società di consulenza privata e straniera nella squadra del Recovery Plan. Neanche le società già attive nei ministeri.

In realtà Draghi rompe la continuità con Conte, su McKinsey, ma non con sé stesso. Anche quando organizzò le massicce privatizzazioni degli anni 90 si rivolse a società multinazionali di consulenza. Nel 2012 la Corte dei Conti criticò “l’eccessivo ruolo” attribuito ai consulenti esteri, ma pochi ne hanno memoria.

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La crisi “disfattista” nel caos del virus

di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 26 gennaio 2021

Può darsi che alla fine andremo a votare, perché Conte non sarà riuscito ad allargare la maggioranza dopo la defezione di Renzi. Si sta installando l’idea che sia Conte a dover riaprire a Italia Viva, e non i renziani che hanno teso l’agguato. Può darsi che vinceranno gli apparati e i poteri che non hanno mai sopportato il Presidente del Consiglio: troppo indipendente, troppo lontano dai palazzi, troppo attento ai pareri dei virologi. Nel dibattito al Senato l’opposizione è giunta sino a rivolgersi a Conte chiamandolo avvocato, quasi fosse un usurpatore. La crisi viene presentata come un ennesimo episodio della lunga storia italiana di governi precari: una storia di normale instabilità.

Così ragionando si dimentica il contesto in cui è avvenuta la rottura di Renzi: una pandemia che scuote il mondo e mette in ginocchio le sue economie. Un virus che non solo corre ma nelle sue mutazioni incattivisce con spaventosa velocità, rischiando l’inefficacia dei vaccini. Una campagna di vaccinazioni che in Italia è cominciata bene – siamo tra i primi nel continente – e d’un tratto viene paralizzata dai Big Pharma (Pfizer, AstraZeneca) che violano i contratti con l’Europa diminuendo le consegne pur di vendere magari le fiale ad altri, a prezzi più lucrosi (Arcuri e Conte hanno deciso di portare in tribunale Pfizer e AstraZeneca, e ora a Bruxelles Von der Leyen e Michel seguono l’esempio). E ancora, sullo sfondo: una tragica mancanza di terapie che curino definitivamente i malati gravi ed evitino il moltiplicarsi dei morti (in Inghilterra oltre mille al giorno). Terapie più che mai necessarie visto che ormai lo sappiamo: non si arriverà quest’anno all’immunità collettiva, la ricerca farmacologica va intensificata al massimo. Al momento si può solo sperare nel funzionamento dei confinamenti differenziati, tanto vilipesi ma che proteggono l’Italia più di altrove.

Ci si ricorderà di questo contesto il giorno in cui si faranno i conti, e si enumereranno i responsabili del disastro. Quel giorno i disfattisti pronti a spezzare la legislatura dovranno spiegare come mai hanno fatto di tutto per raggiungere un unico obiettivo: il caos. Il caos che sta di fronte al virus: inutile dire chi uscirà vittorioso da simile faccia a faccia. Forse non sarebbe inopportuno che Draghi – invocato da tanti – dica qualcosa in proposito.

Gli italiani in primis sono spaventati e si ostinano a non capire quel che succede. Un governo li ha guidati durante il primo lockdown e i confinamenti mirati, e del capo di governo hanno deciso di fidarsi, autodisciplinandosi con un impeto solidale e responsabile niente affatto scontato, anche se triste. “Non si caccia l’uomo più popolare per fare un favore a quello più impopolare”, è stato detto, e allo stupore di D’Alema Renzi risponde che la politica è una cosa seria, perbacco, mica è facebook! Al signor Renzi e soprattutto a Italia Viva mi piacerebbe chiedere: ”Ma sanno quel che stanno vivendo gli italiani, e si sono domandati perché Conte sia popolare e come lo sia divenuto, in questi tempi del tutto anomali, contrassegnati da sofferenza, solitudine, deprivazione e morte? Sanno l’enorme, mai vista violenza del Covid? Si chiedono cosa significhi mettere il caos e l’esclusiva volontà di nuocere davanti alla corsa di un virus incanaglito?”

Tuttavia il duello Renzi-Conte non spiega tutto. Dietro Renzi ci sono l’opposizione, la stragrande maggioranza dei giornali, i notiziari TV, alcuni talk (tra i più esagitati Non è l’Arena). È un coro quasi unanime che narra di un Presidente del consiglio incapace, responsabile di 85.000 morti. Che va a caccia di voltagabbana nei quali, cieco com’è, cerca sostegni contro Covid, recessione e povertà. E che li cerca tramando tenebrosamente con servizi segreti, vescovi, arcivescovi (parola del direttore de «La Stampa»). Che spreca soldi comprando inutili banchi a rotelle. Che non ha il coraggio di sconfessare i ministri più odiati dai disfattisti: non tanto Lucia Azzolina quanto il ministro della giustizia Bonafede. Perfino l’America di Biden è perversamente usata contro Conte, reo di inesistenti complicità con Trump (ogni leader europeo ha dovuto trattare con Trump, e la vittoria di Biden oggi osannato non cicatrizza lo sconquasso americano).

Prima che Conte annunciasse le dimissioni, era prevista una sessione parlamentare scabrosissima. Nessuno aveva letto la relazione preparata da Bonafede in risposta ai solleciti di Bruxelles per il Recovery Fund, e già i disfattisti avevano chiesto la testa del giustizialista che aveva osato bloccare la prescrizione.

Infine c’è l’accusa di appoggiarsi a tecnici e virologi. Appena Conte nomina un consiglio scientifico o un commissario speciale spuntano politici e poteri che si sentono esautorati. Sono gli stessi politici che esecrano task force indipendenti per gestire il Recovery Fund, come raccomandato dall’UE per evitare sprechi e tangenti. L’inaudito malloppo risveglia inconfessati appetiti che il caos può sfamare.

I disfattisti usano malamente la parola di Mattarella: “costruttori”. Pensano che il caos sarà di qualche aiuto e creerà – come spesso accade – un nuovo ordine che noi mortali non possiamo ancora decifrare. Ma non sarà così. Quello cui assisteremo, se dovesse aprirsi una lunga campagna elettorale, è un marasma sanitario di proporzioni incalcolabili. Già oggi, dopo mesi di attacchi logoranti a Conte e a ministri capaci ed esigenti come Speranza, Azzolina, Bonafede, Gualtieri, la situazione vacilla: a causa delle vaccinazioni sospese da Big Pharma o degli attacchi al Commissario Arcuri. Perfino i tecnici si fanno un po’ meno veritieri davanti a uno scenario certo migliorato ma pur sempre altalenante, infido. Non dicono che il virus può minacciare ristoranti o teatri ma anche le scuole. In genere, che si tratti di ristoranti, teatri, scuole, andrebbe detto chiaramente che le regole potrebbero cambiare a fronte dell’alta circolazione del virus. Le scuole sono sicuramente più importanti dei ristoranti, ma il problema è che abbiamo a che fare con un virus e con future/eventuali varianti efficientissime, che potrebbero far salire il famoso indice R a 3.

Alcune timidezze del Cts favoriscono i disfattisti, che chiamiamo così perché nel momento peggiore disfano non tanto il governo Conte, quanto la fiducia degli italiani nelle proprie istituzioni e le responsabilità che ogni cittadino si è assunto accettando di chiudersi in casa, smettere contatti e amicizie, dilatare – per proteggerli – la solitudine degli anziani.

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Il Sud dell’Europa deve diffidare delle trappole Ue

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 22 ottobre 2020

Dice Gentiloni, Commissario europeo per gli affari economici, che la discussione sui prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) “è un duello italo-italiano, dal quale cerco di stare lontano”. Farebbe invece bene ad avvicinarsi un po’ perché il duello, se proprio vogliamo scegliere questa fuorviante definizione, non è affatto italo-italiano ma inter-europeo.

Lo spiega correttamente Enrico Letta su «El País»: perché il Sud Europa cessi di diffidare del Mes occorre che il Meccanismo muti radicalmente. Deve cambiare il nome che porta, le condizioni che impone, e sostituire con la solidarietà comunitaria il dominio intergovernativo che esercita.

Quel che è accaduto nei giorni scorsi è infatti molto significativo, e vede coinvolti nella ridiscussione del Mes ben tre Paesi del Fronte Sud: Italia, Spagna e Portogallo. Un giorno potrebbe aggiungersi Parigi, se il Fronte si rafforzerà.

In altre parole, stiamo assistendo a una nuova tappa nel negoziato tra Ue e Paesi membri sui fondi di ricostruzione. Non bisogna dimenticare che l’Unione ha una costituzione complicatissima, perché ibrida: in parte è federale (ha una moneta unica) in parte è fatta di Stati che custodiscono meticolosamente le proprie sovranità, agendo da soli o – da qualche tempo – in gruppi separati. Dopo l’accordo di luglio sul Recovery Fund hanno fatto sentire la propria voce due fronti distinti: i Frugali (Austria, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia) e il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia). I primi restano ostili agli aiuti a fondo perduto, pur avendoli approvati a luglio. I secondi chiedono che non vi siano, nell’uso dei fondi Ue, condizioni legate al rispetto dello Stato di diritto.

Adesso esce allo scoperto il Fronte mediterraneo, cioè i Paesi più colpiti dal Covid. Sono gli stessi che nel primo decennio del secolo hanno maggiormente sofferto l’austerità, costretti a tagliare spese sanitarie e Welfare con forbici spietate. Nel Fronte ritroveremmo sicuramente la Grecia, se ancora governasse la sinistra: la nazione fu devastata dai cosiddetti “aiuti” dell’Ue e del Fondo monetario.

Gentiloni deve dunque essersi accorto, se non dorme, di quel che sta succedendo in Sud Europa. Domenica, il premier spagnolo Pedro Sánchez, in sintonia con Roma e Lisbona, fa sapere a «El País» che del Fondo di Ricostruzione prenderà per ora solo gli aiuti a fondo perduto, escludendo in un primo tempo i prestiti (prenderà 72,700 miliardi invece di 140). La quota prestiti non è respinta ma semplicemente posposta, “visto che la Commissione europea permette che le richieste di prestiti siano presentate entro il luglio 2023: ricorreremo ai prestiti, se ne avremo bisogno, per il bilancio 2024-2026”.

I motivi che inducono Sánchez alla prudenza (non al duello) sono identici a quelli indicati nella stessa domenica da Conte: il problema centrale, nel caso Recovery Fund come per il Mes, sono le condizionalità che un giorno saranno comunque imposte a fronte di debiti eccessivi. Vero è che le condizioni capestro legate ai prestiti Mes (i parametri del Fiscal Compact) sono state sospese a causa del Covid, ma sospeso non significa abolito né rivisto. Sánchez teme l’ora in cui le condizioni saranno reintrodotte, per il Mes come per il Recovery Fund, e che lo siano “troppo presto”. Se non fa nemmeno accenno al Mes è perché in Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia il ricordo della troika resta traumatico (la Grecia doveva “ricevere una lezione” ed essere crushed – schiantata – dissero i leader europei al ministro del Tesoro Usa Geithner nel febbraio 2010). A questo si riferisce probabilmente Conte, quando sostiene che “i prestiti Mes, dovendo essere restituiti, andranno a incrementare il debito pubblico”, comportando per forza “aumenti delle tasse e tagli” al welfare.

Anche il secondo motivo che spinge Sánchez a diffidare dei prestiti è simile a quello segnalato da Conte: i prestiti (Mes o Recovery Fund) presentano vantaggi contenuti in termini di interessi.

Grazie agli acquisti della Banca Centrale europea, l’Italia può oggi emettere Btp decennali pagando tassi che sono al minimo storico. È quanto dice Sánchez: gli interessi sul debito pagati dai singoli Paesi sono discesi a tal punto che i prestiti dell’Unione europea non comportano vantaggi di rilievo.

In altre parole, sia Spagna che Italia e Portogallo temono l’accumularsi del debito, anche se i fondi Mes hanno come unica condizione d’accesso la loro destinazione alla sanità.

Definendo “demagogica” l’idea che i prestiti aumentino il debito, Italia Viva mente sapendo di mentire: è come se proclamasse che è demagogico sostenere che l’acqua è bagnata. Quanto a Zingaretti, sorprende il silenzio sui ragionamenti dei compagni socialisti in Spagna e Portogallo.

L’ultimo argomento usato da Conte è non meno cruciale, e condiviso in particolare da Paesi come Spagna e Portogallo che hanno subìto la troika. Il primo Paese che chiederà prestiti al Mes riceverà una sorta di stigma e verrà visto come insolvente, inaffidabile (lo puoi punire, “schiantare”). Non conviene dare quest’impressione proprio ora che gli interessi sulle emissioni di Btp sono così bassi.

Nelle stesse ore in cui si sono fatti sentire Conte e Sánchez, il premier portoghese António Costa ha espresso dubbi del tutto analoghi: la sua assoluta preferenza va agli aiuti a fondo perduto. Ai prestiti ricorrerà in un secondo momento “solo se strettamente necessario”.

Tutto questo conferma il delicato compito di Conte: trovare un accordo in Italia tra i partiti di governo, neutralizzando con argomenti forti le reticenze di Pd e Italia Viva, e lavorare al contempo a un’intesa nell’Ue, utilizzando al massimo le più che giustificate preoccupazioni dei Paesi che hanno vissuto prima la randellata dei piani di austerità, poi quella del Covid. Non sottovalutiamo le acrobazie che deve compiere Conte, nella duplice veste di presidente del Consiglio italiano e di co-governante nel non meno litigioso Consiglio europeo.

Non sottovalutiamo nemmeno l’incapacità dell’Unione di riconoscere i disastri di cui si è resa responsabile dopo la crisi del 2008. Qualche giorno fa, Vitor Gaspar, dirigente portoghese del Fondo monetario ed ex ministro delle Finanze, ha messo in guardia contro il ripetersi compulsivo di quei disastri, sostenendo sul «Financial Times» che i Paesi industrializzati “possono indebitarsi liberamente senza dover assoggettarsi a nuovi piani di austerità all’indomani della pandemia”. Manca per ora nell’Unione qualsiasi impegno in questo senso.

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Impegni, non promesse: il “contratto” di Conte

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 18 settembre 2020

Parlando agli studenti dell’Istituto Battaglia di Norcia, e a pochi giorni dalle elezioni regionali e dal referendum, Conte ha usato un linguaggio piuttosto inusuale per un capo di governo, specie se il governo in questione è attaccato da più parti. In primo luogo ha detto che alla parola “pro messa” preferisce la parola impegno, e già questo è un piccolo strappo che rende diverso il suo linguaggio. Veramente inatteso è tuttavia quel che ha detto a proposito del cospicuo Fondo di aiuti e prestiti che verrà dall’Unione europea, detto Next Generation EU. Ben sapendo che non solo i poteri forti, ma anche le mafie sono desiderose di mettere il naso e le mani sul denaro che affluirà in Italia, Conte ha fatto capire che il suo destino e quello del suo governo dipendono oggi essenzialmente da questo: la buona gestione e la giusta destinazione dei Fondi. Sembra ovvio quello che ha spiegato agli studenti nel momento in cui li descritti come principali destinatari del Recovery Fund, ma non lo è affatto: “Se noi perderemo questa sfida, voi avrete il diritto di mandarci a casa”.

Conte si ritiene legittimo come presidente del Consiglio non solo perché ha i numeri in Parlamento, o l’appoggio di una coalizione di partiti. Non vuol dipendere dai loro appetiti, dalla guerra che si stanno facendo. Si ritiene legittimo se mostra di sapere ben gestire e ben usare i soldi della ricostruzione all’indomani di una pandemia che ha affrontato molto bene ma che non è finita. Il fallimento in questa gestione delicatissima equivarrà al fallimento del suo governo, e a quel punto i cittadini “avranno il diritto” di mandarlo a casa.

Il presidente del Consiglio è stato subito deriso da Carlo De Benedetti, che ha visto nel patto offerto a Norcia una sorta di previsione catastrofica, come se Conte avesse detto che prima “farà una frittata mandando a picco il paese”, poi eventualmente accetterà di andarsene. De Benedetti non ha capito quel che ha ascoltato – o meglio ha finto sordità – perché le parole di Norcia sono del tutto inattese e stupefacenti, per le classi dirigenti italiane e anche europee. Difficile immaginare una frase simile detta dagli attuali prìncipi che pretendono di governarci: i capi di governo tendono a rimanere in carica curando innanzitutto i rapporti con i potenti della politica, dell ’economia, dell’editoria. Non stringono un contratto dettagliato e di medio periodo con i cittadini (“me ne vado se non faccio bene questo o quell’altro lavoro specifico”).

Nella storia del dopoguerra, in Francia, un politico ebbe una visione analoga della propria legittimità, offrendo al paese lo stesso tipo di contratto. Era Mendès France, presidente del Consiglio a partire dal giugno 1954, radical-socialista in origine e poi socialista, e anche se governò poco tempo è diventato un mito nel suo Paese, al punto di esser soprannominato il De Gaulle di sinistra. È diventato un mito proprio per il patto prospettato nel suo discorso di investitura alla Camera. Il Paese aveva alle spalle la disfatta di Dien Bien Phu, e Mendès disse ai parlamentari che un regolamento pacifico del conflitto in Indocina sarebbe stato raggiunto entro quattro settimane: “Se entro tale data non si troverà alcuna soluzione soddisfacente, sarete liberati dal contratto che ci lega, e il mio governo rassegnerà le dimissioni al presidente della Repubblica”. La pace con l’Indocina fu raggiunta e così accadde per altri “contratti”, concernenti l’inizio della decolonizzazione in Tunisia e Marocco. Molto indipendente, troppo indipendente, Mendès evitava accuratamente – come Conte – la parola “promessa”. Simili contratti non sono più immaginabili nella repubblica presidenziale confezionata da De Gaulle (la Quinta Repubblica che blindò l’esecutivo, e che Mendès France avversava). Macron non sarebbe neppure lontanamente capace di un patto analogo, che in tempi di crisi inaugura una dialettica innovativa fra governanti e governati. Né, fuori della Francia, ne sarebbero capaci Angela Merkel o Boris Johnson.

Il contratto fondato su precise azioni politiche e su chiare scadenze temporali, che il governante offre non già ai partiti ma direttamente ai cittadini o ai loro rappresentanti, è un esperimento democratico raro, tentato allora come oggi in situazioni eccezionali, dove sono in gioco la pace e la guerra, la vita le pandemie e la morte. Il momento Covid che viviamo è una di queste situazioni limite, che mettono alla prova la legittimità dei governi. Le situazioni limite possono generare dittature o democrature, repubbliche presidenziali, parlamenti esautorati o stati di eccezione. Possono anche aprire la strada al semplice, trasparente e impegnativo contratto che il presidente del Consiglio ha offerto martedì agli studenti di Norcia, e indirettamente ai loro rappresentanti in Parlamento.

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Il Conte cocciuto e i “disfattisti”

di mercoledì, Luglio 22, 2020 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 22 luglio 2020

Alla fine l’Europa dei Ventisette ha prodotto il Recovery Fund che aveva promesso, con vantaggi cospicui non solo per Italia e Spagna ma anche per se stessa, per quest’Unione che fatica a trovare il suo “momento Hamilton”: il momento in cui di fronte alle grandi crisi (più di 100.000 morti per Covid, una recessione che rimanda al crollo del ’29) scopre di doversi unire meglio, come avvenne in America del Nord nel 1790 quando i debiti della guerra di indipendenza vennero messi in comune.

Al successo hanno contribuito Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma ancor più ha pesato la cocciuta insistenza di Giuseppe Conte, che trascinando altri otto Paesi si è battuto per una svolta nella politica europea sin da marzo. Si è rivelata vincente anche la sua ritrosia nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che offre prestiti agevolati ma è pur sempre figlio di politiche vecchie, e di un Patto di stabilità solo provvisoriamente sospeso. La preferenza tattica data al Recovery Fund ha smosso il pigro status quo nell’Unione.

Tuttavia non si dimenticherà il subbuglio delle cinque giornate di Bruxelles, e l’Unione non esce affatto guarita da questo vertice che approva il Fondo ma non senza concessioni di rilievo ai cosiddetti “frugali”. I quali hanno provato a disfare il Recovery Fund e a ridurne le novità cambiando sia la sua ripartizione (la quota delle sovvenzioni resta ma è ridotta) sia la natura dei controlli che verranno esercitati via via che si attueranno i piani di ripresa finanziati dall’Unione. Non hanno acquisito un esplicito diritto di veto sulle progressive erogazioni di fondi, ma hanno ottenuto che l’opposizione di un singolo Stato potrà temporaneamente bloccarle.

Li chiamano Paesi frugali, aggettivo sicuramente da loro assai apprezzato ma che non corrisponde a nulla. I governanti in Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia: chiamiamoli più realisticamente, in questo frangente, i custodi del mondo di ieri, quello che sta naufragando; i fautori di una misantropica colpevolizzazione del debito; i cultori di un’austerità non solo fallita ma del tutto impresentabile in tempi di Covid e di ritorno dello Stato nell’economia. Chiamiamoli disfattisti, è aggettivo non univoco ma più pertinente. E chiamiamo l’Olanda, il cui governo ha guidato questo fronte, il Paese noto nel mondo per essere un paradiso fiscale che danneggia enormemente gli alleati. Basta già questo, specie in epoche di crisi, per inficiare la solidarietà fra europei. E bastano a inficiarla i famosi sconti, i rebates concessi in extremis ai disfattisti. Questi rimborsi parziali dei soldi versati all’Unione furono un’invenzione di Margaret Thatcher nel 1984 e sono un modo per stare nell’Ue con un piede dentro e uno fuori.

Anche qui Conte è stato cocciuto e lucido, nell’evidenziare le discrasie europee che permangono: i rebates “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery Plan realizza lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. È stato lucido anche quando ha accusato l’olandese Rutte di miopia: “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi […]. Tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente davanti a tutti i cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Naturalmente il disfattista ha il diritto di combattere il proprio Paese, se lo ritiene tirannico. Ma il disfattista di cui si parla qui vuole il degrado dell’Europa di cui c’è bisogno, e non smetterà di volerlo.

Il degrado è facilitato dal permanere, nelle decisioni più importanti, dell’unanimità: un solo Paese può alzare la bandiera del veto. È il motivo, tra l’altro, per cui da anni sono chiuse nei frigoriferi le riforme delle politiche di migrazione approvate dal Parlamento europeo: accordo di Dublino, rimpatri, reinsediamenti, qualifiche, accoglienza, ecc.

Il disfattista che gongola quando lo chiamano frugale è anche cieco. Gli è passato davanti un tifone – il Covid – e non se n’è accorto. In quel momento passeggiava nei giardinetti e proprio non l’ha visto, povero disgraziato. C’è un personaggio così nel Tifone di Conrad. Non avendolo visto e non vedendolo, Rutte ha chiesto quel che chiede da sempre: molto più potere agli Stati, molto meno alla Commissione che ha avuto la faccia tosta di proporre il Recovery Plan e che pensa di poter vegliare sulla sua attuazione, come chiesto dai non-disfattisti nella speranza che finiscano i rapporti di forza fra Stati cui l’Unione s’è ridotta.

In parte i disfattisti l’hanno purtroppo spuntata: il controllo dei vari piani di ripresa è nelle mani della Commissione, ma gli Stati nel Consiglio avranno l’ultima parola e un singolo Paese membro può interrompere le erogazioni per almeno tre mesi. Nei giorni scorsi Rutte è entrato nel dettaglio, ricordando quello che a suo parere l’Italia dovrebbe fare su pensioni e mercato del lavoro. Nessuna differenza, per lui, rispetto ai prestiti condizionati che hanno devastato la Grecia (anche per motivi politici: c’era un premier, Tsipras, cui bisognava dare una lezione).

A suo tempo, Conte disse che avrebbe negoziato, in Europa, avvalendosi della “forza del popolo”. Tsipras perse questa battaglia, ma l’Italia ha più peso e ha tentato il salto mortale. Nel dopo-lockdown, con l’esperienza di solitudine che hanno sperimentato i Paesi Ue, non sono più possibili ingerenze “alla greca”. L’ingerenza/punizione non è neppure più proponibile allo stesso modo di prima nei confronti dei Paesi di Visegrad, per quanto riguarda il legame tra fondi e rispetto dello Stato di diritto. Il Covid ha scosso certezze anche in questo campo.

Ultima cosa: è straordinario che la Germania, superando vecchi dogmi su sovvenzioni ed eurobond, abbia scelto l’alleanza con chi rifiuta che l’Unione abbia come unica ragion d’essere la protezione dei creditori (soprattutto bancari) dai debitori. Questa alleanza è la vera novità europea nei tempi di Covid, ma non possiamo essere sicuri che tale resterà nel dopo-Merkel.

Anche se volitiva, e più consapevole che in passato, la Germania ha faticato parecchio a imporsi. Era un egemone nascosto, ora esce dal nascondiglio ma non più egemone come prima. Ancor meno lo è la Francia, già diminuita dopo l’89 e l’allargamento a Est. È con questa realtà – la contusa egemonia tedesca, la Francia incapace di convincere durevolmente l’insieme dell’Unione, la risonanza dei disfattisti – che toccherà fare i conti.

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Giustizia sociale per salvare l’Ue

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 26 maggio 2020

Fra non molto sapremo cosa succederà al Recovery Fund che Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno proposto il 18 maggio: 500 miliardi di euro per sostenere i Paesi più colpiti dal Covid-19, erogati sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti che aumenterebbero il debito e la dipendenza di Stati come l’Italia Sarebbe l’Unione a indebitarsi collettivamente sui mercati, accollandosi prestiti a lunga scadenza, rimborsabili sulla base delle quote di ripartizione previste nel bilancio europeo (i Paesi che più ne beneficerebbero non dovrebbero pagare di più). Grazie all’insistenza di Italia e Spagna la Merkel ha infine accettato il principio di un debito condiviso – fino a ieri un’eresia in Germania – ma basta un solo Paese membro per bloccare l’iniziativa: già ce ne sono quattro a opporsi (Austria, Olanda, Svezia, Danimarca) cui si aggiungeranno alcuni Paesi dell’Est.

Sicché il Recovery Fund vedrà forse la luce, ma ancora più smilzo (il fabbisogno indicato a suo tempo da Gentiloni era di 1.500 miliardi) e con una preminenza di prestiti condizionati.

Si dirà che questa è in fin dei conti l’Unione: un contratto revocabile, se c’è chi non si fida. Che le divergenze fra nord e sud non sono nuove, essendosi già manifestate sulla migrazione, quando Italia e Grecia furono lasciate sole a fronteggiarla e l’Unione rispose mettendo la politica d’asilo in mano a Turchia e Libia. Che toccherà adattarsi e accettare quel che offre la ditta (“col cappello in mano”) viste le rovinose condizioni in cui versano Paesi come l’Italia o la Spagna.

Si dirà tuttavia il falso, perché l’Unione non nacque per essere un contratto fra creditori e debitori, fra ricchi e impoveriti, fra vincitori e vinti. Nacque per evitare proprio questo rapporto di forze – la balance of power che regnò in Europa per secoli – e per scongiurare gli effetti della grande crisi del ’29: risentimento dei popoli, nazionalismi totalitari, guerra. La nostra Costituzione lo dice chiaramente, nell’articolo 11: la guerra è ripudiata, e le limitazioni di sovranità sono consentite alla sola condizione che assicurino “pace e giustizia fra le nazioni”. Oggi questa giustizia non c’è, la crisi economica derivata dal Covid viene equiparata da Draghi alle rovine della guerra, e l’Unione pur offrendo aiuti di vario genere tergiversa e agonizza.

Le parole usate in queste settimane occultano quest’agonia, essendo in genere false. Ne citeremo alcune.

Si annuncia ad esempio l’avvento di un piano Marshall, del tutto a sproposito. Gli aiuti all’Europa postbellica erano composti per oltre il 70% di donazioni, non di prestiti più o meno agevolati. Non meno sconcertante la seconda dimenticanza: il piano si inseriva in una strategia più vasta, che comprendeva il condono dei debiti europei, in prima linea tedeschi. La cancellazione dei debiti contratti dalla Germania fra il 1919 e il 1945 fu approvata nel 1953 nella conferenza di Londra. Tra coloro che rinunciarono alla riscossione c’era l’Italia, oltre a una ventina di altri paesi.

In qualche modo fu la vittoria di Lord Keynes, che fin dal primo dopoguerra aveva messo in guardia i vincitori del ’14-’18: le riparazioni chieste alla Germania avrebbero distrutto la giovane Repubblica di Weimar, ed equivalevano a uno strozzinaggio foriero di odio e guerre, come puntualmente avvenne con l’ascesa di Hitler. Con i suoi esitanti e lenti aiuti post-Covid, l’Unione sembra tornata non al secondo dopoguerra ma al primo.

Si parla di New Deal e Roosevelt, ma nulla di simile è in vista. Non una sistematica lotta alla povertà, non la solidarietà con le classi e le regioni più afflitte dal virus, non il superamento del dogma del laissez-faire, del mercato che aggiusta gli squilibri grazie alla non ingerenza e sottomissione degli Stati. Il Patto di stabilità è sospeso, non abolito. Poi ci sono imprese che addirittura chiedono allo Stato di garantire prestiti ingenti pur di poter versare agli azionisti i ricchi dividendi che hanno promesso (è il caso di Fiat-Chrysler, e ha fatto bene Andrea Orlando a indignarsene).

L’Unione è figlia del New Deal, del Piano Marshall, ma soprattutto del Welfare State: una protezione sociale universale concepita non dopo il riordino delle finanze nazionali ma nel mezzo della guerra, quando Churchill affidò a Lord Beveridge il compito di elaborare un piano che curasse alle radici il risentimento sociale sfociato nell’esperienza nazi-fascista. Beveridge è ricordato per il servizio sanitario pubblico e i sussidi ai disoccupati cui diede vita, e per la parallela militanza in favore di un’Europa unificata su queste basi.

Un’altra parola usata a casaccio è sovranismo, confuso con nazionalismo e antieuropeismo. Sovranità è l’indispensabile capacità di decidere presto nelle emergenze, e nell’Unione solo la Banca centrale la possiede, non senza difficoltà da quando la Corte costituzionale tedesca l’ha criticata con argomenti giuridicamente nefasti (il diritto europeo viene gravemente leso) ma non del tutto immotivati nella sostanza: la Bce – dice la sentenza del 5 maggio – non può avere come unico scopo i prezzi stabili, e dovrà meglio valutare gli effetti economico-sociali del proprio agire.

Alle prese con il Covid-19, l’Unione sembra aver perso forza centripeta, è lenta e tuttora fautrice di riforme strutturali che lungo i decenni hanno messo in ginocchio i nostri servizi sanitari. Quando New Orleans finì sott’acqua, nel 2005, Washington non disse che lo Stato della Louisiana doveva “far ordine in casa propria” prima di ricevere aiuti, come usa preconizzare l’Unione.

Gli unici che potrebbero muoversi sono i suoi cittadini, cui è stato affidato un ruolo determinante e assolutamente inedito durante il lockdown. Disciplinando se stessi, sono di fatto diventati i governanti della lotta al Covid. Lo spiega bene il filosofo Fabio Frosini, in un saggio pubblicato il 19 aprile nel sito Dinamopress, descrivendo la “mobilitazione totale della popolazione” generata da una pandemia gestita come guerra. Mobilitazioni simili possono generare ordini nuovi più giusti o disastri, a seconda. Dipenderà dagli Stati, dall’Unione, e dalla ridefinizione delle rispettive sovranità.

Il 10 aprile scorso, Giuseppe Conte annunciò che si sarebbe presentato al vertice europeo “con la dignità e la forza di un popolo”. Se l’Unione vuole riprendersi è da questa consapevolezza che potrà ripartire. Per citare ancora Keynes: dovrà abbandonare l’idea che la giustizia sociale sia un male, e l’ingiustizia una cosa utile per l’economia.

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