L’islamofobia e la laicità sfigurata

di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 6 novembre 2020

 

In principio i francesi li chiamavano arabi, appellativo che assume connotazioni peggiorative alla fine degli anni 70, producendo ingiurie come bicot o bougnoule. Poi gli arabi diventano islamici, o peggio islamo-fascisti se non prendono le debite distanze pubbliche dagli atti terroristici compiuti in nome di Allah.

Dopo l’11 settembre il secondo epiteto si diffonde. Il giornalista Thomas Deltombe critica nei primi anni 80 l’“islamizzazione degli sguardi”. Sono gli anni in cui si discute l’interdizione del velo indossato dalle donne musulmane negli spazi pubblici. Alcuni interpretano la proibizione come il divieto di nascondere il proprio volto ovunque, mentre la legge si applica solo nelle istituzioni pubbliche: “Il cittadino ha il diritto di credere o non credere, e può manifestare all’esterno tale credenza o non-credenza, nel rispetto dell’ordine pubblico”, così scrive Nicolas Cadène, membro dell’Osservatorio della Laicità, in un ottimo manuale uscito in ottobre con la prefazione di Jean-Louis Bianco, presidente dell’istituto governativo (En finir avec les idées fausses sur la laïcité – Farla finita con le idee false sulla laicità). Molti chiedono subito l’espulsione dall’Osservatorio dei due autori. Fortunatamente il Presidente Macron non cede.

Sulla rivista «Regard», Aude Lorriaux ricorda la definizione dell’ebraismo che Sartre diede nel 1944: “È l’antisemita che crea l’Ebreo”. Definizione riduttiva e giustamente controversa, che però fu adattata all’Islam dalla scrittrice Karim Miské nel 2004: “È l’islamofobo che crea il musulmano” (è discutibile anche questa variazione: l’islamofobo semmai “crea” l’Islam radicale).

Grosso modo è questa la storia che precede gli attentati delle ultime settimane, e le dispute su Islam e laicità ricominciate in Francia. Più ancora che in passato, gli argomenti islamofobi escono dai territori di estrema destra e diventano linguaggio non sempre esplicito ma dominante. Macron scongiura le derive, ma è pur sempre lui ad aver denunciato il “separatismo” che affligge la vasta comunità musulmana (4,7 milioni). A Nizza promette sostegno ai cristiani martoriati ma non ai musulmani che col terrorismo non hanno nulla a che fare.

Il ministro dell’Educazione Blanquer accusa di complicità con il terrorismo chiunque difenda nelle accademie l’“intersezionalità”, termine coniato dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali o religiose. Il ministro dell’Interno Darmanin ordina la chiusura della moschea di Pantin presso Parigi (aveva diffuso un video sulla vicenda Paty) e di due associazioni che lottano contro l’islamofobia, dichiarandosi nel frattempo “scioccato per la presenza nei supermercati di reparti halal e casher”. Nel mirino del ministro: i deputati “islamo-gauchisti” di France Insoumise, il partito di Mélenchon. La laicità viene sfigurata, trasformata in uno strumento di guerra anziché di convivenza con comunità gelose della loro autonomia, nel rispetto dell’ordine pubblico.

Tranne alcune eccezioni, anche in Italia lo sguardo si islamizza e la laicità è presentata come valore supremo, refrattario a compromessi (“Ogni compromesso è compromissione”, twitta Darmanin, mentre nel suo manuale Cadène afferma che la laicità “non è affatto un valore ma un metodo”). Alcuni scrivono che le religioni sono “categorie del passato”. Sono citati Cristianesimo e Islam (non l’Ebraismo, protetto da salutare tabù). L’eccezione ebraica rende ancora più offensiva la designazione di Cristianesimo e Islam come “categorie”. Chi ci dà il diritto di fissare la data di scadenza delle religioni, quasi fossero etichettabili cibi in scatola?

Un post di Carlo Rovelli, filosofo della scienza, accende la miccia in Italia due giorni dopo la feroce decapitazione del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine. Per spiegare cosa sia la libertà d’espressione, Paty aveva mostrato in classe una vignetta di «Charlie Hebdo» – la più brutta, quella che illustra il Profeta nudo, inginocchiato e col sedere scoperto. Non è ancora chiaro cosa abbia detto agli alunni musulmani: se veramente li abbia invitati a girare la testa o andarsene, qualora si sentissero offesi. Se così stanno le cose Paty resta vittima di un’efferatezza allo stato puro, ma la sua lezione di educazione civica non era ben fatta.

È quello che sostiene Rovelli, ragionando così: “Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello. Ma penso che offendere, e poi – dopo essersi resi conto che offendere ferisce delle persone –, continuare ancora a offendere non sia un comportamento né apprezzabile, né ragionevole. Dobbiamo vivere insieme su questo pianeta. Non possiamo farlo rispettandoci? Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto. E, diciamoci la verità: le avete viste? sono davvero offensive. Crediamo forse di essere più democratici, più paladini della libertà, offendendoci a vicenda? Offendendoci, non facciamo che alimentare la violenza, dividerci in gruppi in conflitto, mostrare il grugno duro ‘io non mi faccio spaventare da voi anche se mi uccidete!’, ‘io sono più duro di te’”.

Non solo alimentiamo la violenza. Alimentiamo quello che Macron vuol scongiurare: il separatismo di intere comunità. E questo in tempi di lockdown sanitari, quando la popolazione è chiamata a unirsi contro ogni secessionismo negatore del Covid. Quando è consigliabile facilitare i compromessi con tutte le comunità religiose, anche le fondamentaliste, se queste ultime rispettano la legge e l’ordine pubblico.

L’islamofobia più o meno latente si dichiara favorevole a una laicità che scambia per secolarismo o intiepidirsi delle religioni, e minimizza le virtù del compromesso. Il sociologo François Héran, uno dei massimi esperti di migrazione nel Collège de France, ricorda opportunamente come compromesso e compromissione non siano mai sinonimi. Cita il filosofo Paul Ricoeur: “Il compromesso non è un’idea debole, ma al contrario estremamente forte. Nel compromesso ognuno resta al suo posto, e nessuno è privato del proprio ordine di giustificazione”. La laicità francese è una grande conquista, ma rischia il fallimento quando se ne fa abuso.

Se nelle scuole si discutesse di libertà di espressione senza ripetutamente mostrare le vignette di «Charlie Hebdo», e si spiegasse quel che essa significa con le parole – evocando ad esempio la storia delle caricature politico-religiose in Francia come suggerito da Héran – avremmo fatto un importante passo avanti verso compromessi che non dividono le nazioni oltre misura.

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La fine delle grandi illusioni di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 30 ottobre 2020

Con molte settimane di ritardo, Macron ha finalmente annunciato mercoledì un secondo lockdown: era ora che lo facesse, considerato l’espandersi incontrollato del virus sin da luglio.

Era ora che la lunga e ottusa illusione finisse, anche se di essa permangono alcuni inquietanti frammenti: come quando il presidente assicura che “tutti in Europa sono sorpresi dall’evoluzione del virus”, o che il primo confinamento “aveva abbattuto (stoppé) il Covid”. Il lockdown sarà alleviato –non chiudono servizi pubblici, imprese, scuole, nidi, residenze per anziani; le università tornano a insegnare online – ma il colpo è duro. Ancor più duro dopo l’attentato islamista che ha ucciso tre cittadini in una basilica a Nizza, a tredici giorni dalla decapitazione a Conflans. La Francia fronteggia la doppia sciagura lockdown-terrorismo nel pieno della propria impotenza.

Il lockdown durerà fino al 1° dicembre (“come minimo”: il traguardo è 5.000 positivi al giorno). Ogni quindici giorni ci sarà una revisione: alcune attività potranno riaprire se i contagi scenderanno. Lo scopo – in Francia come altrove – è “salvare il Natale” e la sua manna consumistica.

Il ritardo dell’intervento francese è messo in rilievo da molti esperti. Il Comitato scientifico aveva consigliato già in estate di aprire gli occhi, con misure più drastiche o nuovi lockdown, e si era trovato alle prese con un Eliseo stizzito, e con un fronte mediatico che ripeteva il mantra: “Nessun altro confinamento, visto che non lo vogliamo”. L’11 settembre il governo dava assicurazioni perentorie in tal senso.

Nei giorni precedenti l’Eliseo si era scontrato con il presidente del Comitato scientifico, Jean-François Delfraissy, che di fronte alla progressione esponenziale del virus giudicava ormai insufficienti mascherine obbligatorie e test migliorati. Il capo dello Stato lo richiamò all’ordine, spiegandogli che non spetta ai tecnici ma solo ai politici prendere decisioni. Jean Castex, nuovo premier, offrì dunque misure blande. Il periodo di isolamento dei casi positivi passò da 14 giorni a 7. I laboratori in affanno furono invitati a esaminare solo i sintomatici. Si diffuse la notizia di un vaccino imminente (ieri Macron ha detto che non arriverà prima dell’estate prossima).

In un primo tempo furono quindi sconfitti sia il Comitato scientifico sia il ministro della Salute Olivier Véran, che preferivano chiusure radicali di bar e ristoranti nelle città da mesi sotto flagello. Il 5 ottobre furono chiusi i bar, ma non i ristoranti. Poi venne il coprifuoco, ma era troppo tardi. A Parigi chiunque ha potuto constatare nelle ultime settimane come i bar, fungendo anche da ristoranti, restassero sovraffollati: all’aperto e dentro, e di giorno prima del coprifuoco serale.

Il ritardo ha assunto forme di diffuso negazionismo ed è costato migliaia di morti, una situazione ospedaliera allo stremo, il quasi azzeramento delle terapie intensive a Parigi o Marsiglia, dove il virus aveva fatto un ritorno distruttivo sin da luglio-agosto. Macron ha dovuto ammettere mercoledì che in assenza di una nuova stretta, i “morti supplementari saranno 400.000 entro qualche mese”.

Il Comitato scientifico e i virologi più avvertiti hanno fortunatamente ripreso il sopravvento, anche se moniti e critiche permangono: l’epidemiologa Catherine Hill, ad esempio, ha denunciato dopo il discorso di Macron l’incapacità, immutata, di controllare le catene di contagio, di tracciare i contatti dei positivi, di testare rapidamente sintomatici e asintomatici. Posizioni simili sono paragonabili, da noi, a quelle di Massimo Galli o al verdetto di Andrea Crisanti (“Siamo al punto di partenza, i sacrifici degli italiani sono stati resi inutili. Il tracciamento si è sbriciolato”).

È un conforto che i verdetti deprimenti siano infine ascoltati. Chi ha vissuto ultimamente in Francia, specie a Parigi, era quotidianamente sbigottito: bar pieni zeppi, strade sovraffollate, mascherine portate controvoglia, come se indossarle fosse una fissa di indisponenti ipocondriaci. Se non ci sono stati episodi spettacolari come quelli italiani (Salvini o Sgarbi che si strappano la maschera) è perché il rifiuto era diffuso capillarmente in Francia, tra giovani e non giovani che non sono mai stati bene informati o il più delle volte hanno disdegnato ogni informazione. Ci sono voluti più di sei mesi per ammettere che il virus non si propaga solo attraverso le famose goccioline – come ripetono ancora tanti esperti in Italia – ma attraverso goccioline che evaporando diventano aerosol, cioè l’aria che respiriamo. Ci sono voluti più di sei mesi perché le mascherine divenissero obbligatorie anche nei luoghi aperti.

Ieri Macron ha respinto con giusti argomenti la strategia dell’immunità collettiva, ma più volte ne ha subito le lusinghe. La fece propria quando indisse le elezioni municipali, per ricredersi due giorni dopo e decidere il lockdown, o in estate quando mostrò fastidio verso l’allarme degli scienziati. Occorre “cavalcare la tigre”, era la parola d’ordine. Bisogna “vivere col virus”, ripeteva l’Eliseo quando s’accorse (senza ammetterlo) che il primo confinamento non aveva “stoppato” alcunché. Per l’ennesima volta è ora costretto ad abbandonare la grande illusione dell’immunità collettiva constatando che il trittico anti-Covid (testare-tracciare-isolare) si è, come dice Crisanti, sbriciolato.

L’Eliseo adotta adesso l’inevitabile lockdown, ma elementi cruciali tuttora mancano: un’analisi dei macroscopici fallimenti post-confinamento e l’ammissione che la tigre non può essere “cavalcata”, a meno di non accettare centinaia di migliaia di morti entro poche settimane.

Non per ultima, manca la coscienza che in tempi di pandemia e terrorismo non è davvero il caso di lacerare il Paese, e che dopo gli attentati di Conflans e Nizza occorrono parole di sostegno ai cattolici, ma anche di conciliazione con la vastissima comunità musulmana. La denuncia del terrorismo islamista dovrà prima o poi combinarsi con una presa di distanza sistematica dall’islamofobia.

Tornando più particolarmente al Covid: ogni volta che Macron ha abbandonato la chimera dell’immunità collettiva le cose sono andate un po’ meglio in Francia. Ma anche ora, come all’uscita dal primo lockdown, è del tutto assente una chiara indicazione su quel che occorrerà fare o evitare di fare dopo il 1° dicembre, sugli errori da non ripetere, sulle grandi illusioni di cui bisognerà sbarazzarsi, specie nelle vacanze di Natale quando strade e negozi torneranno ad affollarsi.

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Il Conte cocciuto e i “disfattisti”

di mercoledì, Luglio 22, 2020 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 22 luglio 2020

Alla fine l’Europa dei Ventisette ha prodotto il Recovery Fund che aveva promesso, con vantaggi cospicui non solo per Italia e Spagna ma anche per se stessa, per quest’Unione che fatica a trovare il suo “momento Hamilton”: il momento in cui di fronte alle grandi crisi (più di 100.000 morti per Covid, una recessione che rimanda al crollo del ’29) scopre di doversi unire meglio, come avvenne in America del Nord nel 1790 quando i debiti della guerra di indipendenza vennero messi in comune.

Al successo hanno contribuito Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma ancor più ha pesato la cocciuta insistenza di Giuseppe Conte, che trascinando altri otto Paesi si è battuto per una svolta nella politica europea sin da marzo. Si è rivelata vincente anche la sua ritrosia nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che offre prestiti agevolati ma è pur sempre figlio di politiche vecchie, e di un Patto di stabilità solo provvisoriamente sospeso. La preferenza tattica data al Recovery Fund ha smosso il pigro status quo nell’Unione.

Tuttavia non si dimenticherà il subbuglio delle cinque giornate di Bruxelles, e l’Unione non esce affatto guarita da questo vertice che approva il Fondo ma non senza concessioni di rilievo ai cosiddetti “frugali”. I quali hanno provato a disfare il Recovery Fund e a ridurne le novità cambiando sia la sua ripartizione (la quota delle sovvenzioni resta ma è ridotta) sia la natura dei controlli che verranno esercitati via via che si attueranno i piani di ripresa finanziati dall’Unione. Non hanno acquisito un esplicito diritto di veto sulle progressive erogazioni di fondi, ma hanno ottenuto che l’opposizione di un singolo Stato potrà temporaneamente bloccarle.

Li chiamano Paesi frugali, aggettivo sicuramente da loro assai apprezzato ma che non corrisponde a nulla. I governanti in Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia: chiamiamoli più realisticamente, in questo frangente, i custodi del mondo di ieri, quello che sta naufragando; i fautori di una misantropica colpevolizzazione del debito; i cultori di un’austerità non solo fallita ma del tutto impresentabile in tempi di Covid e di ritorno dello Stato nell’economia. Chiamiamoli disfattisti, è aggettivo non univoco ma più pertinente. E chiamiamo l’Olanda, il cui governo ha guidato questo fronte, il Paese noto nel mondo per essere un paradiso fiscale che danneggia enormemente gli alleati. Basta già questo, specie in epoche di crisi, per inficiare la solidarietà fra europei. E bastano a inficiarla i famosi sconti, i rebates concessi in extremis ai disfattisti. Questi rimborsi parziali dei soldi versati all’Unione furono un’invenzione di Margaret Thatcher nel 1984 e sono un modo per stare nell’Ue con un piede dentro e uno fuori.

Anche qui Conte è stato cocciuto e lucido, nell’evidenziare le discrasie europee che permangono: i rebates “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery Plan realizza lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. È stato lucido anche quando ha accusato l’olandese Rutte di miopia: “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi […]. Tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente davanti a tutti i cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Naturalmente il disfattista ha il diritto di combattere il proprio Paese, se lo ritiene tirannico. Ma il disfattista di cui si parla qui vuole il degrado dell’Europa di cui c’è bisogno, e non smetterà di volerlo.

Il degrado è facilitato dal permanere, nelle decisioni più importanti, dell’unanimità: un solo Paese può alzare la bandiera del veto. È il motivo, tra l’altro, per cui da anni sono chiuse nei frigoriferi le riforme delle politiche di migrazione approvate dal Parlamento europeo: accordo di Dublino, rimpatri, reinsediamenti, qualifiche, accoglienza, ecc.

Il disfattista che gongola quando lo chiamano frugale è anche cieco. Gli è passato davanti un tifone – il Covid – e non se n’è accorto. In quel momento passeggiava nei giardinetti e proprio non l’ha visto, povero disgraziato. C’è un personaggio così nel Tifone di Conrad. Non avendolo visto e non vedendolo, Rutte ha chiesto quel che chiede da sempre: molto più potere agli Stati, molto meno alla Commissione che ha avuto la faccia tosta di proporre il Recovery Plan e che pensa di poter vegliare sulla sua attuazione, come chiesto dai non-disfattisti nella speranza che finiscano i rapporti di forza fra Stati cui l’Unione s’è ridotta.

In parte i disfattisti l’hanno purtroppo spuntata: il controllo dei vari piani di ripresa è nelle mani della Commissione, ma gli Stati nel Consiglio avranno l’ultima parola e un singolo Paese membro può interrompere le erogazioni per almeno tre mesi. Nei giorni scorsi Rutte è entrato nel dettaglio, ricordando quello che a suo parere l’Italia dovrebbe fare su pensioni e mercato del lavoro. Nessuna differenza, per lui, rispetto ai prestiti condizionati che hanno devastato la Grecia (anche per motivi politici: c’era un premier, Tsipras, cui bisognava dare una lezione).

A suo tempo, Conte disse che avrebbe negoziato, in Europa, avvalendosi della “forza del popolo”. Tsipras perse questa battaglia, ma l’Italia ha più peso e ha tentato il salto mortale. Nel dopo-lockdown, con l’esperienza di solitudine che hanno sperimentato i Paesi Ue, non sono più possibili ingerenze “alla greca”. L’ingerenza/punizione non è neppure più proponibile allo stesso modo di prima nei confronti dei Paesi di Visegrad, per quanto riguarda il legame tra fondi e rispetto dello Stato di diritto. Il Covid ha scosso certezze anche in questo campo.

Ultima cosa: è straordinario che la Germania, superando vecchi dogmi su sovvenzioni ed eurobond, abbia scelto l’alleanza con chi rifiuta che l’Unione abbia come unica ragion d’essere la protezione dei creditori (soprattutto bancari) dai debitori. Questa alleanza è la vera novità europea nei tempi di Covid, ma non possiamo essere sicuri che tale resterà nel dopo-Merkel.

Anche se volitiva, e più consapevole che in passato, la Germania ha faticato parecchio a imporsi. Era un egemone nascosto, ora esce dal nascondiglio ma non più egemone come prima. Ancor meno lo è la Francia, già diminuita dopo l’89 e l’allargamento a Est. È con questa realtà – la contusa egemonia tedesca, la Francia incapace di convincere durevolmente l’insieme dell’Unione, la risonanza dei disfattisti – che toccherà fare i conti.

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Mes, usciamo dai sensi di colpa e ricordiamo Atene. Come fa Conte

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 21 aprile 2020

Quel che più sconcerta, nelle discussioni italiane sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), è lo sconcerto di molti commentatori, confortati dall’appoggio che ricevono da buona parte del Partito democratico. Possibile che Conte sia così sprovveduto o ideologico – si chiedono costoro – da respingere l’offerta di aiuti senza condizioni? Il governo Conte deve essersi ammattito, se insiste nel giudicare “inadeguata” l’assistenza del Mes e se pensa di poter ottenere quel che Germania e Olanda non concederanno, e tanto meno a noi peccatori: una messa in comune del debito nell’eurozona, attraverso l’emissione di eurobond. Ammattito due volte: perché resiste a qualcosa che può solo avvantaggiarci, e perché non si è accorto come il Mes sia mutato rispetto ai tempi in cui l’Unione, rappresentata nella Trojka da Commissione e Banca centrale, e affiancata dal Fondo Monetario, aiutò la Grecia a distruggere il proprio Stato sociale.

Chi accusa Conte di riaccendere lo scontro fra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno dà evidentemente per scontato che Mes sia sinonimo di buona Unione, e non-Mes sia sinonimo di non-Europa e sovranismo.

Nulla di più lontano dalla realtà, se si perde un po’ di tempo a leggere i comunicati europei, a usare le parole con un minimo di precisione, e a osservare quel che accade fuori casa. Vero è che le condizioni per accedere agli aiuti del Mes diminuiscono – lo shock Coronavirus non è stavolta asimmetrico ma colpisce simmetricamente tutti gli Stati – ma non per questo scompaiono. Il Report approvato dall’eurogruppo in vista del vertice Ue di giovedì prossimo parla di “condizioni standard per tutti”, definite in anticipo dagli organi del Mes, e di aiuti temporanei legati solo alle spese sanitarie. La formula è vaga sull’accesso ai prestiti ma si fa più concreta sul dopo-Covid (quando verrà alla luce l’aumento del debito cui si è sobbarcato il paese richiedente). Finita l’emergenza, quest’ultimo dovrà “restare fedele all’impegno di rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con il quadro di coordinamento economico-fiscale e di sorveglianza dell’Unione”. Niente di nuovo in Occidente, dopo il Covid-19.

L’assistenza “senza condizioni” del Mes non è peraltro prevista dai Trattati dell’Unione, così come modificati il 25 marzo 2011 da una decisione del Consiglio europeo (quando al governo c’era Berlusconi, ha opportunamente ricordato Conte). Fu allora che l’articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione venne corredato di un’aggiunta rilevante: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un Meccanismo di stabilità […]. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria […] sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Anche se giovedì si giungesse a un’intesa sul Mes che soddisfi l’Italia, i paesi contrari agli eurobond potranno sempre – in un secondo momento – appellarsi a quest’articolo.

Un altro punto a favore della scommessa di Conte: la sua intransigenza sul Mes ha dato forza ai paesi che chiedono un’Unione attrezzata per il disastro economico scatenato dal Covid. Disastro non paragonabile a nessun altro disastro recente o non recente. Che i meccanismi europei nella loro totalità vadano reinventati è opinione che si sta diffondendo, non solo a Sud: la lettera di nove governi in favore degli eurobond, diramata il 25 marzo, è firmata anche da Belgio, Lussemburgo, Irlanda. Si diffonde, anche, la consapevolezza che tali meccanismi poggiano su dottrine neo-liberiste che lungo gli anni, in nome di uno Stato dimagrito, hanno divorato servizi pubblici, spesa sanitaria, ricerca, e affidato al mercato globalizzato la produzione di dispositivi sanitari di prima necessità (medicine, mascherine, ventilatori). “Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici” (Gaël Giraud, «La civiltà cattolica», Quaderno 4075, 2020, volume II).

Non stupisce dunque che il ricorso al Mes sia ormai inviso in molti paesi dell’Unione, e non è escluso che Spagna e Francia giocheranno al rialzo, giovedì, scommettendo come Conte sul massimo che potranno ottenere, nella speranza di ottenere almeno qualcosa di concreto. Il Premier spagnolo Pedro Sánchez ha appena proposto un Fondo di Ricostruzione (1,5 trilioni di euro, pari all’1% del Pil europeo) che sia agganciato al bilancio europeo e aiuti i paesi in difficoltà con trasferimenti di risorse (“grants”) anziché con prestiti destinati ad aumentare il loro debito pubblico. Di questo “debito perpetuo” si pagherebbero solo gli interessi.

In parallelo con la Spagna sembra muoversi anche Macron, in un’intervista al «Financial Times» del 16 aprile in cui afferma che l’Italia non va abbandonata e che “gli Stati membri non hanno altra scelta se non quella di istituire un fondo per la ripresa post Covid pari a 400 miliardi di euro”, capace di emettere debito comune, garantito congiuntamente e basato sui bisogni degli Stati anziché sulla grandezza delle loro economie. “Se non lo faremo i populisti vinceranno: in Italia, Spagna, forse in Francia”. “Sarebbe un errore storico ripetere che ‘i peccatori debbono pagare’, come si fece come nel primo dopoguerra”, conclude Macron, evocando il “fatale, colossale errore della Francia che in quegli anni reclamò riparazioni dalla Germania, scatenando reazioni populiste e il successivo disastro”.

Quell’errore non si ripeté nel 1945 ma può ripetersi oggi, con la Germania che oggi colpevolizza gli indebitati (in tedesco Schuld definisce sia il debito che la colpa) e con l’Olanda che si oppone agli eurobond continuando a profittare dei propri paradisi fiscali: un punto su cui insistono Sánchez e Conte, nell’intervista alla «Süddeutsche Zeitung» pubblicata ieri su questo giornale. Dopo il ’45 l’Europa fu ricostruita grazie al Piano Marshall, e al Welfare State predisposto durante la guerra da William Beveridge in Gran Bretagna. Anche allora si fece una scommessa temeraria, giocando al rialzo come promettono oggi Italia, Spagna o Francia.

Può darsi che il vertice di giovedì produca compromessi al ribasso (Macron è volubile). Può darsi che Conte, isolato, non usi il veto. Ma darsi per sconfitti sin da ora vuol dire interiorizzare l’equivalenza debito-colpa (“Chi siamo noi, per rifiutare 37 miliardi?”). Vuol dire non aver capito la natura dell’odierna minaccia, e far finta che il Covid sia una crisi come le altre, padroneggiabile con vecchi fallimentari dispositivi.

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Lasciar morire i nostri anziani?

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 23 marzo 2020

Chi ancora avesse dubbi sulle misure adottate dal governo – obbligo di auto-isolarsi, non uscire di casa neanche per passeggiate, evitare ogni contatto con persone esterne – farebbe bene a valutare la condizione in cui ci troviamo, in Italia e nei paesi europei: tracollo dei sistemi sanitari, mancanza acuta di posti letto e attrezzature per terapie intensive e ventilazione dei polmoni, carenza di infermieri, rianimatori, anestesisti.

È il risultato di anni di tagli alla sanità e di privatizzazioni. Gli anziani in prima linea farebbero bene a non muoversi di casa in alcuna circostanza, dai 70 e anche 65 anni in su. Per loro i tracolli e le mancanze hanno un significato evidente: non ci sono né letti a sufficienza né attrezzature per ospitarli. Non saranno nemmeno ammessi agli ospedali, se questi sono veramente “allo stremo” come si annuncia da settimane. Nel migliore dei casi, se affetti da difficoltà respiratorie verranno convogliati in ospizi medicalizzati. Nel peggiore e più frequente moriranno in casa: soli, senza medico che ti attacchi al ventilatore se ti manca l’aria, senza un parente che sia vicino.

In Francia questo viene ormai formalmente dichiarato, ammesso. La fase del cosiddetto “triage” – la selezione fra chi viene aiutato a sopravvivere e chi no, tra chi è ammesso in ospedale e chi ne è escluso, tra persone in grado di resistere per età o “storia medica” e anziani con una bassa aspettativa di vita – è ufficialmente cominciata in un numero crescente di ospedali. Il personale viene istruito in tal senso da rapporti ad hoc, che si richiamano all’esperienza italiana. Si dà per scontato che in Italia il “triage” sia ormai la norma, più che il rischio da evitare.

Un articolo apparso il 18 marzo su «Le Monde» rivela l’esistenza di un rapporto che prescrive la selezione dei malati. Si intitola “Definizione delle priorità (priorisation) nell’accesso alle cure critiche in un contesto di pandemia”, il 17 marzo è stato trasmesso alla Direzione generale della sanità da un gruppo di esperti convocato dal governo. Scopo del rapporto è aiutare i medici a operare le scelte che fatalmente occorrerà fare – che occorre fare sin d’ora – in caso di saturazione dei letti di rianimazione.

Il sito «Mediapart» ha condotto un’inchiesta non meno brutale, il 20 marzo. In alcuni ospedali, soprattutto a Perpignan nei Pirenei Orientali e nell’Est della Francia (in Alsazia e in particolare a Mulhouse e Colmar), esistono espliciti protocolli e tabelle schematiche, a uso di ospedali e medici, che mettono nero su bianco la necessità di operare le selezioni. «Mediapart» pubblica nelle grandi linee un “Piano Bianco” del 18 marzo scorso, messo a disposizione del servizio rianimazione del centro ospedaliero di Perpignan e del suo personale sanitario: se il numero dei malati critici oltrepassa le risorse disponibili (posti letto, attrezzature, medici, infermieri), la selezione s’impone.

Nel Piano Bianco vengono distinte quattro categorie di rischi di morte cui far fronte (o non far fronte): le “morti inevitabili”, a causa della severità della malattia o dell’età – Le “morti evitabili”, grazie a un miglioramento delle cure e dell’organizzazione – Le “morti inaccettabili”, di pazienti giovani senza concomitanti malattie gravi – e infine le “morti accettabili”, cioè i “pazienti anziani o poli-patologici” (con malattie concomitanti). La priorità va data ai pazienti il cui rischio di morte è giudicato “inaccettabile”.

Vero è che il Piano prevede la consegna a domicilio di ventilatori per chi è precluso dagli ospedali. Ma non si sa se le risorse siano sufficienti, man mano che aumenterà il numero di pazienti anziani in stato critico che restano a casa. È qui che scatta la trappola etico-sanitaria: a partire dal momento in cui la morte dell’anziano minacciato da asfissia è definita “accettabile”, tutto è permesso. Compreso il disinteresse sostanziale al suo stato e la sua esclusione dalle cure. L’etica finisce dove comincia il “principio di realtà”, che guida schemi e protocolli. Dice un infermiere in una città dell’Est: “Non lo si dice perché non si può, ma l’ordine tacito è di non ammettere più negli ospedali le persone oltre i 75 anni, di lasciarle nei ricoveri per anziani o a casa: cioè lasciarli morire”.

I medici fanno valere che una certa selezione veniva praticata anche prima del Coronavirus, negli ospedali e fuori dagli ospedali: a partire da una certa età la rianimazione non è frequente. Ma la soglia abbassata ufficialmente ai 70 anni è una novità. “È un battesimo d«el fuoco”, hanno detto i medici a «Mediapart».

La chiamano “priorisation”, ed essa viene applicata anche quando accade che un anziano sia intubato. Visto che le cure di rianimazione-ventilazione sono molto lunghe 14 giorni in media per paziente. “In Italia il primo paziente giovane è stato intubato per quattro settimane”, ricorda un medico in Alsazia), quando procedere al distacco dei tubi? A Mulhouse (Alsazia), il responsabile del servizio di aiuto medico urgente (la Samu, ovvero il numero telefonico 15, equivalente dei nostri numeri verdi di pubblica utilità) denuncia la saturazione della rianimazione in tutto il dipartimento e spiega: “Quando viene intubata una persona di 70 anni e quando quest’ultima occupa l’ultimo letto disponibile, viviamo nell’angoscia che un’ora dopo arrivi una persona di 50 anni in crisi respiratoria”.

La scelta della selezione viene presentata in Francia come medicina delle catastrofi, o di guerra. Come scelta razionale, anche se terribile, fra le esigenze dell’etica e “principio di realtà”. Probabilmente per questo Macron, quando con enorme e colpevole ritardo ha annunciato misure di auto-segregazione individuale, il 16 marzo, ha usato almeno cinque volte la parola guerra. Sapeva già quello che questa parola comporta: il sacrificio inevitabile di molte persone. Angela Merkel e il re di Spagna hanno evitato la parola guerra.

Per ora non esistono né cure risolutive del Covid-19 né vaccini. Test estesi sul piano nazionale non si possono fare per mancanza di tamponi. Non resta che la via dell’autodisciplina nel praticare l’autosegregazione. Chiunque non la osservi crea le condizioni d’un numero sempre maggiore di “morti accettabili”. Nicolas Van Grunderbeeck, rianimatore all’ospedale di Arras, riassume così il dilemma: “Dobbiamo rassicurare i pazienti senza occultare il fatto che esistono casi in cui dobbiamo selezionare”.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p. A.

“L’Ue ha dimostrato diritto di veto, ma si può resistere”

Intervista a Barbara Spinelli di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano» , 22 dicembre 2018

Barbara Spinelli, giornalista, è in rotta con le politiche dell’Unione: si è candidata alle Europee nel 2014 per cambiarle, nella lista Tsipras. Ma ora, a pochi mesi dalla fine di quest’esperienza (“un mandato basta”), vede pochi segnali di speranza: qualche politica sociale in Portogallo, la sinistra di Corbyn in Gran Bretagna, forse il governo Sanchez in Spagna.

Barbara Spinelli, il governo si è fatto dettare la manovra o la Commissione ha ceduto?

La Commissione ha confermato il potere di veto che sin dal governo Monti esercita sulle politiche decise dai governi. Abbiamo programmi ed elezioni nazionali, e poi c’è un secondo turno a Bruxelles. Ma l’Unione era partita con richieste più restrittive: voleva un deficit all’1,6 per cento del Pil e si opponeva alle politiche espansive e di solidarietà volute dal governo.

E poi c’è stata la Francia: il commissario Pierre Moscovici ha subito approvato l’annuncio di un deficit al 3,5% per rispondere alla rivolta dei Gilet gialli.

La Commissione non poteva applicare due standard diversi. Ma davanti ai Gilet gialli, Moscovici ha avuto una reazione politica, non tecnica.

E come se la spiega?

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione anomala sul codice di comportamento della Commissione: ha accettato che i commissari si candidino alle elezioni europee mantenendo la carica. Io ho votato contro. Ne abbiamo già parecchi: Pierre Moscovici, Frans Timmermans, forse Margrethe Vestager. Moscovici è in campagna elettorale in Francia: non ha smentito la sua possibile candidatura. Si è non poco screditato.

Si poteva approvare la manovra senza il via libera della Commissione?

La procedura di infrazione sarebbe stata molto punitiva per gli italiani. È un bene averla evitata, senza però eliminare dalla manovra le misure cruciali. Queste politiche europee hanno prodotto una miseria che non si vedeva dal dopoguerra.

Non abbiamo alleati in questa sfida alle regole. Solo i Gilet gialli.

La Grecia non poté contare neppure sulle rivolte di piazza in altri Paesi. Juncker stesso ha ammesso che la dignità del popolo greco è stata calpestata dall’Unione. L’Italia ha potuto far tesoro di proteste ormai diffuse contro politiche che non producono crescita ma rivolta sociale, come i Gilet gialli o la Brexit che non è un capriccio nazionalista ma un voto popolare, anche se del tutto illusorio, contro l’austerità. Questa è un’Unione disgregata e l’Italia prova a fare qualcosa. Non entro nei dettagli della legge di Bilancio, ma a chi si scandalizza perché Di Maio vuole ‘abolire la povertà’, ricordo che Ernesto Rossi scrisse il libro Abolire la miseria, mentre lavorava al Manifesto di Ventotene.

Perché Macron, campione dell’europeismo, sta finendo così male?

L’europeismo è un guscio vuoto in cui puoi mettere quello che vuoi: il federalismo di Hayek per azzerare il peso dello Stato in economia o il Manifesto di Ventotene. Il prestigio di Macron è crollato in Francia ben prima che in Europa. Quel che difende è una dottrina economica confutata dagli studiosi sin dagli anni Settanta, secondo cui aiutare i ricchi sarebbe nell’interesse di tutti: il benessere “sgocciolerebbe” verso i non abbienti. La prima cosa che ha fatto è tagliare le tasse ai ricchi. E non ha funzionato.

La lezione dei Gilet gialli è che per cambiare politica economica serve la rivolta?

Solo politiche di bilancio più egualitarie possono prevenire insurrezioni. Dicono che il governo italiano è populista, ma il M5S è l’espressione parlamentare di quella protesta, il famoso ‘Vaffa’ equivale allo slogan dei Gilet: si autodefiniscono dégagiste, vogliono mandare ‘tutti fuori’. La democrazia rappresentativa come è fatta oggi non è in grado di fornire veri rappresentanti delle volontà popolari. Non a caso tutti questi movimenti chiedono strumenti di democrazia diretta.

E questa crisi della democrazia rappresentativa la preoccupa?

Sì. Ma è stato fatto di tutto per arrivare a questo esito. Oggi serve una riscrittura sociale delle regole, ma l’Unione punta i piedi. Draghi parla del pericolo del nazionalismo e del populismo e annuncia che ‘a piccoli passi si rientra nella storia’. Che vuol dire? Che il Fiscal compact, privo com’è di qualsiasi vincolo sociale, permette una felice uscita dalla storia, e di questo dovremmo esser grati?

Draghi ha spiegato anche che il mercato unico, l’euro, l’Unione sono legami che servono a prevenire nuovi disastri.

Ma quali legami? L’Europa si sta sfasciando, con l’Est che va da una parte, la Francia dall’altra, il Regno Unito fuori. Si discute di deficit eccessivo in vari Paesi, ma da anni il surplus commerciale in Germania supera il tetto consentito del 6 per cento, permettendole di drenare ricchezza dal resto dell’Unione, e nessuno dice niente.

Nella campagna elettorale per le Europee si parlerà di temi sociali o di migranti?

Spero che il punto forte sia il tema sociale da cui discende tutto il resto, inclusa la cosiddetta questione della migrazione. Sbagliava il ministro Minniti quando fece capire che sarebbe scoppiata una bomba sociale se non si fermavano gli arrivi e le operazioni di Ricerca e Salvataggio. È la bomba sociale che ha creato questa percezione del pericolo migranti.

Come giudica l’opposizione del Pd al governo?

Nefasta. Sventolano l’europeismo e poi s’indignano con chi vuol ricostruire l’Unione partendo dal sociale. E sul tema migranti sono gli ultimi a poter criticare: la politica di Minniti ha prodotto accordi con la Libia messi sotto accusa dal Consiglio d’Europa, dall’Onu. Salvini agisce in violazione delle leggi internazionali che vietano il respingimento di rifugiati, ma Minniti in questo lo ha preceduto.

Però ha funzionato: gli sbarchi sono calati.

Anche i campi di concentramento hanno funzionato. Gli sbarchi sono diminuiti e i morti in mare sono aumentati. Preferirei quasi che dicessero: ‘Li vogliamo morti in mare’. Almeno direbbero la verità.

© 2018 Il Fatto Quotidiano

Il sonno della solidarietà genera mostri

di mercoledì, Giugno 13, 2018 0 , , , , Permalink

Comunicato stampa

Strasburgo, 13 giugno 2018. Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo dedicata a “Emergenze umanitarie nel Mediterraneo e solidarietà all’interno dell’Unione europea, Dichiarazioni del Consiglio e della Commissione”.

Presenti al dibattito:

  • Monika Panayotova – Vice Ministro incaricato della presidenza bulgara del Consiglio dell’UE nel 2018
  • Dimitris Avramopoulos – Commissario europeo per la Migrazione, gli affari interni e la cittadinanza

Di seguito l’intervento:

«Dal 2012 l’Italia è stata condannata tre volte dalla Corte di Strasburgo, per respingimenti collettivi attuati da governi pro-establishment. Ricordiamocelo, evocando l’iniqua chiusura dei suoi porti alla nave Aquarius.

In Italia si discute sulle colpe di Malta. È comprensibile, ma Malta non aderisce purtroppo alle riforme delle convenzioni SAR e Solas relative ai salvataggi in mare, e considera di non avere gli obblighi di firmatari come l’Italia. Ancora: Macron accusa Roma di cinismo, ma cinicamente chiude i confini con l’Italia.

Teniamo conto di queste cose, nel criticare il governo Conte. Soprattutto, teniamo conto della paralisi negoziale su Dublino IV: il sonno della solidarietà genera mostri quasi ovunque nell’Unione.

Per questo appoggio la proposta di Verhofstadt: un ricorso del Parlamento ai sensi dell’articolo 265, per inazione del Consiglio (failure to act). Per questo approvo il no del governo italiano alle ultime proposte della presidenza bulgara sulla riforma di Dublino».

La solidarietà non è un crimine

Gli eurodeputati Barbara Spinelli, Marie-Christine Vergiat (GUE/NGL) e Pascal Durand (Verdi) hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

LA SOLIDARIETÀ NON È UN CRIMINE
DICHIARAZIONE DI
Barbara Spinelli, eurodeputata gruppo GUE/NGL
Marie-Christine Vergiat, eurodeputata gruppo GUE/NGL
Pascal Durand, eurodeputato gruppo Verdi/EFA

Bruxelles, 11 agosto 2017

Il recente moltiplicarsi di azioni penali in Italia e in Francia nei confronti di persone che mostrano solidarietà verso i rifugiati costituisce un allarmante tentativo di creare divisioni tra le Ong attive nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare (SAR) e di isolare i singoli cittadini europei preoccupati per la sicurezza degli esiliati forzati che affrontano viaggi pericolosi dall’Eritrea, dal Sudan, dalla Libia, dalla Siria, dall’Afghanistan e da molti altri paesi in crisi. Si tratta di persone che da anni rischiano quotidianamente la vita in viaggi per terra e per mare – in una sorta di selezione darwiniana – mentre l’Unione europea, dove solo una parte di essi arriva, chiude sempre di più le sue porte ed esternalizza le sue politiche di asilo. La grande maggioranza di migranti e rifugiati (80%) trova riparo nei paesi in via di sviluppo, per lo più africani. La straordinaria attività delle Ong nel Mediterraneo è dovuta all’assenza di operazioni pubbliche e proattive di ricerca e soccorso condotte dall’Unione e dai suoi Stati membri, dopo la dismissione di “Mare Nostrum”.

La solidarietà non deve essere considerata una violazione della legalità. Non è un crimine, ma un dovere umanitario.

Oggi la nostra preoccupazione si rivolge in particolar modo a due persone che operano in soccorso di migranti e richiedenti asilo, in Italia e in Francia. In entrambi i casi, la solidarietà da esse praticata verso persone in pericolo di vita è equiparata all’attività dei trafficanti di esseri umani. In entrambi i casi, siamo di fronte a leggi anacronistiche il cui fine è criminalizzare la cosiddetta immigrazione clandestina e chiunque possa essere sospettato di favorirla: parliamo della legge Bossi-Fini in Italia e del CESEDA (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile) in Francia, che prevede fino a cinque anni di carcere e una multa di 30.000 euro per i “passeurs” che facilitano o tentano di facilitare l’ingresso, l’accoglienza e la circolazione di migranti e rifugiati.

In Italia Mussie Zerai – un prete eritreo candidato al Premio Nobel per la pace per aver contribuito a salvare la vita di migliaia di migranti e rifugiati che attraversano il Mediterraneo – è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.[1] Lunedì 7 agosto, il Presidente dell’agenzia Habeshia si è visto notificare un avviso di garanzia dalla Procura di Trapani. Fuggito in giovane età dall’Eritrea, dopo la consacrazione a sacerdote, Padre Zerai è diventato un punto di riferimento per migranti e rifugiati in pericolo. Per lungo tempo, il suo numero di telefono è stato l’unico che molti potessero chiamare in caso di emergenza. Di tanto in tanto riceve richieste di aiuto tramite telefoni satellitari da parte di persone a rischio di naufragio a bordo di imbarcazioni malcerte. Ogni volta trasmette le coordinate delle imbarcazioni alla Guardia costiera italiana e, solo in seguito, a navi private impegnate in attività di ricerca e soccorso nella zona interessata.

Probabilmente è questo il motivo per cui il suo nome è finito nell’inchiesta sull’immigrazione illegale aperta dal Procuratore di Trapani, incentrata sul ruolo di alcune Ong nel soccorso in mare dei migranti. Il candidato al Premio Nobel per la pace rigetta ogni accusa di aver preso parte a scambi di informazioni clandestini. “Non ho mai fatto parte della presunta chat segreta”. “Le segnalazioni sono il frutto di richieste di aiuto che mi sono state indirizzate da imbarcazioni al di fuori delle acque territoriali libiche e comunque dopo ore di navigazione precaria e pericolosa”.

In Francia, martedì 8 agosto un agricoltore, Cédric Herrou, è stato condannato per aver aiutato i rifugiati ad attraversare il confine tra il suo paese e l’Italia. [2]  La Corte d’appello di Aix-en-Provence ha emesso una sentenza di condanna a quattro mesi di carcere, sospesa con la condizionale. Le autorità hanno detto che  nel corso dell’ultimo anno Herrou ha aiutato circa 200 migranti, ospitandone alcuni nella sua fattoria nella valle del Roya nelle Alpi, vicino al confine italiano. Una legge francese del 2012 accorda l’immunità penale  per coloro che aiutano i migranti “con azioni umanitarie e disinteressate” ma il procuratore ha ritenuto che Herrou stesse violando la legge. Herrou ha detto che “non ha rimpianti” e non smetterà di aiutare i migranti, ritenendolo un dovere di cittadinanza.

In un precedente processo che si è svolto a gennaio, Herrou disse: “Ho fatto salire sulla macchina ragazzi che cercavano di attraversare il confine per la dodicesima volta”. “La mia inazione e il mio silenzio mi avrebbero reso un complice. Non voglio essere un complice.”

Chiediamo all’Unione europea e ai suoi Stati membri di fermare la campagna diffamatoria condotta contro le Ong e contro quei cittadini che stanno attuando azioni umanitarie d’emergenza a favore di rifugiati e migranti. Chiediamo alla Commissione e agli Stati membri la piena osservanza, per la loro parte, della legislazione internazionale – Convenzione di Geneva, Legge del mare,Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea –  per quanto riguarda il principio di non-refoulement, la protezione dei bambini e dei minori non accompagnati  e l’obbligo di operazioni di ricerca e soccorso (Search and Rescue) delle persone in difficoltà o in imminente pericolo in mare.

[1] http://habeshia.blogspot.fr/2017/08/la-solidarieta-non-e-un-crimine.html

[2] http://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/article/2017/08/08/poursuivi-pour-aide-a-l-immigration-clandestine-cedric-herrou-attend-son-jugement-en-appel_5169880_1654200.html


SOLIDARITY IS NOT A CRIME

DECLARATION BY

Barbara Spinelli                         (MEP – group GUE-NGL)
Marie-Christine Vergiat               (MEP – group GUE-NGL)
Pascal Durand                            (MEP – group Greens/European Free Alliance)

Brussels, August 11, 2017

The recent proliferation of prosecutions in Italy and France towards people who showed solidarity with the refugees is a disturbing attempt to create division among NGOs active in Search and Rescue operations, and to isolate common European citizens who are concerned with the safety of the forced exiles who embarked in perilous journeys from Eritrea, Sudan, Libya, Syria, Afghanistan and many other distressed countries. Since years, they risk death on land and sea on a daily basis – in a sort of Darwinian selection – and the European Union, where only a part of them arrive, is closing more and more its doors and externalizing its asylum policies. The vast majority of migrants and refugees (80%) finds shelter in developing, mostly African countries. The extraordinary activity of NGOs in the Mediterranean is due to the absence of proactive public Search and Rescue operations carried out by the Union and its Member States, since the end of “Mare Nostrum”.

Solidarity must not be considered a law-breaking offense. It is not a crime, but a humanitarian obligation.

Today, we are particularly concerned about two persons who took action to rescue migrants and asylum-seekers, in Italy and France. In both cases, their solidarity towards people in mortal danger is equated with the activity perpetrated by smugglers. In both, we are confronted with anachronistic laws whose purpose is to criminalise the so-called clandestine immigration and whosoever could be suspected of favouring it: the Bossi-Fini law in Italy and, in France, the CESEDA (Code of the Entry and Residence of Foreigners and of the Right of Asylum), which charges up to five years of prison and a fine of € 30,000 for those “passeurs” who facilitate or attempt to facilitate the entry, reception and circulation of migrants and refugees.

In Italy, Mussie Zerai, an Eritrean priest who has been nominated for the Nobel Peace Prize for helping save the lives of thousands of migrants and refugees crossing the Mediterranean, is now under investigation on suspicion of abetting illegal immigration. [1] On Monday 7 of August the President of  the agency Habeisha received a notification of being under investigation from the Trapani public prosecutor’s office. Having fled Eritrea as a youngster, after his seminary Father Zerai became a reference point for migrants and refugees in distress. For a long time, his telephone number was the only one that many could call in case of emergency assistance. He would sometimes receive calls for help from people in distress calling from a satellite phone from their rickety vessels at sea. Each time, he transmitted the coordinates of the boats to the Italian coast guard and, afterwards, to private rescue ships known to be in the vicinity.

That is likely the reason his name ended up in a probe which Trapani prosecutors opened into illegal immigration, focusing on the roles allegedly played in migrant rescues by some NGOs. The candidate for the Nobel Prize rejects the accusation of having taken part in clandestine messaging. “I have never been part of the alleged secret chats”. “The reports are the result of requests for help from vessels in difficulty outside of the Libyan waters and in any case after hours of precarious and dangerous navigation”.

In France, on Tuesday 8 of August a farmer, Cédric Herrou, has been convicted of helping refugees to cross the border between his country and Italy. [2] The appeal court of Aix-en-Provence gave Mr Herrou a suspended four-month prison sentence. Authorities said Herrou assisted some 200 migrants over the past year, housing some in his farm in the Roya valley in the Alps, near the Italian border. A 2012 French law provides legal immunity to people helping migrants with “humanitarian and disinterested actions” but the prosecutor has argued Herrou was subverting the law. Herrou said that he “has no regrets” and will not stop helping migrants, calling it his citizen’s duty.

At an earlier trial in January, Herrou said: “I picked up kids who tried to cross the border 12 times”. “There were four deaths on the highway. My inaction and my silence would make me an accomplice. I do not want to be an accomplice.”

We ask the European Union and its Member States to stop the defamatory campaign conducted against NGOs and those citizens who are taking emergency humanitarian actions in favour of refugees and migrants. We ask the Commission and the Member States to be fully respectful, for their part, of the international law – Geneva Convention, Law of the Sea, Convention on the Rights of the Child, Charter of European Fundamental Rights –  as regards the principle of non-refoulement, the protection of children and non accompanied minors and the obligatory Search and Rescue of people in distress or imminent danger at sea.

[1] http://habeshia.blogspot.fr/2017/08/la-solidarieta-non-e-un-crimine.html

[2] http://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/article/2017/08/08/poursuivi-pour-aide-a-l-immigration-clandestine-cedric-herrou-attend-son-jugement-en-appel_5169880_1654200.html

Foreign fighters, burkini e Consiglio di Stato francese

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE). Bruxelles, 31 agosto 2016

Punto in agenda:

Lotta al terrorismo e recenti attacchi negli Stati membri

  • Scambio di opinioni con la Commissione europea, la presidenza del Consiglio e Gilles de Kerchove, coordinatore antiterrorismo dell’UE

Ringrazio la Commissione e il Consiglio per aver messo in evidenza il fatto che ci troviamo di fronte ad un mutamento dei modelli di radicalizzazione, riscontrabile negli attacchi terroristici che hanno colpito recentemente l’Europa.

Su questo punto vorrei porre alcune domande. Vivendo in Francia, ho avuto modo di leggere alcuni dati che ritengo estremamente interessanti, e che vorrei sottoporre alla vostra attenzione.

Prima di tutto vorrei chiedere quale sia stato il peso dei foreign fighters negli ultimi attentati terroristici, avendo riscontrato che il loro ruolo sta diminuendo, mentre va intensificandosi l’uso, da parte dell’ISIS, di cellule più o meno dormienti presenti nei Paesi europei, nonché di persone che possono genericamente esser definite “disturbate” ma le cui azioni non hanno legami evidenti e continuativi con la religione musulmana, anche se l’Isis tende a mettere il suo cappello sugli attentati, una volta compiuti, e ad appropriarsene. In Francia, l’ISIS ritiene ad esempio di non aver bisogno dell’intervento di foreign fighters provenienti dall’estero, nella convinzione che vi sia un numero sufficiente di terroristi già presenti sul territorio. (http://www.nytimes.com/2016/08/04/world/middleeast/isis-german-recruit-interview.html?_r=0)

La seconda domanda è legata alla difesa dello stato di diritto, una volta appurato che la radicalizzazione avviene dentro i Paesi dell’Unione. Citando ancora una volta la Francia, vorrei chiedere alla Commissione come intenda rispondere alla tendenza sempre più diffusa a stigmatizzare in simultanea migranti e Islam, e a mescolare le questioni di sicurezza con i principi dello Stato francese legati alla laicità. Mi riferisco in particolare al caso del “burkini”, definito dal capo di governo francese come un’offensiva ideologica dell’Islam radicale. Mi chiedo se la Commissione non abbia interesse valutare meglio la situazione in questo campo, coordinando le proprie azioni non solo con i governi e i responsabili dei Ministeri degli Interni, ma anche con i giudici delle corti nazionali. La recente sentenza del Consiglio di Stato francese sulla questione “burkini” è sicuramente di grande interesse perché mette in questione il divieto del “burkini” separando nettamente le questioni concrete legate alla sicurezza dai principi fissati nella legge francese sulla laicità del 1905.

Infine, pongo un’ultima domanda che, sebbene sia già stata fatta, considero di grande importanza. Come intende rispondere la Commissione alla richiesta, avanzata dai Governi di Francia e Germania, di abolire le modalità di cifratura (encryption) utilizzate da alcune applicazioni, quali ad esempio whatsapp e telegram, considerando che si tratta di tecniche volte a proteggere la privacy e, più in generale, le libertà individuali e di impresa? In particolare, vorrei sapere se la Commissione intenda dare un seguito positivo alla domanda franco-tedesca di un regolamento o di una direttiva europei in tal senso.

Sentenza del Consiglio di Stato francese sul divieto del burkini

 

I pericoli di una difesa dipendente dalla NATO

di martedì, Luglio 12, 2016 0 , , , , Permalink

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO). Bruxelles, 11 luglio 2016.

Punto in agenda:

Unione europea della difesa (Relatore per parere David McAllister – PPE, Germania)

  • Esame del progetto di parere
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Ringrazio il relatore per la presentazione di questo Parere. Avrei giusto due domande da porre.

La prima riguarda la cooperazione con la NATO. Mi domando se, specie nei rapporti con la Russia, non sia necessario stabilire una certa autonomia europea dalla NATO e dagli Stati Uniti, e dalle politiche di forte riarmo da essi promosse lungo il confine orientale dell’Unione. Sono cosciente del fatto che si tratta di un’opinione non condivisa dalla maggioranza degli europarlamentari, ma sicuramente è un’esigenza sentita da un certo numero di Stati Membri.

La seconda domanda concerne, più in generale, le prospettive della difesa comune. Si parla della possibilità di una “cooperazione rafforzata” tra gli Stati che la vogliono, ma ritengo difficile immaginare una difesa comune – anche in termini di cooperazione rafforzata – che non contempli la Francia, destinata a rimanere ormai l’unica potenza nucleare dell’Unione europea nel caso la Brexit andasse in porto. Il Presidente Hollande, nel corso del vertice NATO di Varsavia dei giorni scorsi, ha dichiarato in modo chiarissimo che il governo francese resta nettamente contrario a una difesa comune europea e favorevole, invece, alla preservazione di politiche nazionali, nel campo della difesa, molto ben definite. Chiedo se tali dichiarazioni troveranno un riscontro nel Parere in esame.