L’Ue vuole la tregua ma non la pace

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2025

Se si vuol capire almeno un poco come gli Stati e le istituzioni d’Europa siano arrivati dopo anni di guerra in Ucraina a questo punto – un’incapacità totale di far politica; una ripugnanza diffusa verso chiunque imbocchi la via diplomatica; un’incaponita postura bellica che sfalda già ora lo Stato sociale; un senso storico completamente smarrito – occorre esaminare due eventi rivelatori delle ultime settimane.

Il primo ha per protagonista Trump, che dopo aver discusso al telefono con Putin il 16 ottobre, ha bocciato l’idea di mandare in Ucraina i micidiali missili Tomahawk, che possono colpire la Russia fino agli Urali, sono in grado di trasportare testate nucleari, e vanno manovrati solo con l’assistenza del Paese egemone nella Nato. Arrivato alla Casa Bianca per ottenere i missili, il 17 ottobre, Zelensky s’è sentito dire, anzi urlare: “Se Putin vuole, ti distrugge”. Trump ha escluso ogni escalation, in vista dell’imminente suo incontro con Putin. Ma Zelensky si è inalberato e ha chiesto aiuto agli Stati europei detti “volonterosi”. I quali sono accorsi e hanno subito silurato il vertice Trump-Putin, per ora rinviato. Obiettivo dei Volenterosi è un cessate il fuoco lungo la linea del fronte, e solo in seguito una trattativa sul futuro ucraino e sulle garanzie di sicurezza per Kiev.

Fin dal vertice con Trump in Alaska, tuttavia, Putin chiede che prima del cessate il fuoco si accettino le garanzie di sicurezza russe oltre che ucraine e cioè: neutralità e non adesione di Kiev alla Nato, riduzione degli armamenti sproporzionati in Ucraina, impegno scritto del Patto Atlantico a non espandersi mai più verso l’Est. Mosca lo chiede da decenni, non da oggi.

Non è da escludere che Trump si stufi di tentare accordi con Putin e lasci che Zelensky e Volenterosi europei se la cavino da soli, e siano loro e non gli Stati Uniti ad apparire i perdenti in questa storia (anche se ora Zelensky, terrorizzato dal possibile tracollo delle ultime difese in Donetsk, pare virare verso un tardivo e disperato congelamento del conflitto). Già da tempo il presidente giudica non vincolante per Washington l’articolo 5 del Patto atlantico. Lettura niente affatto scorretta: l’articolo proclama in effetti che se un Paese è attaccato tutti lo sosterranno, ma precisa che ogni Stato, “individualmente e di concerto con le altre parti, intraprenderà l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.

Sia Zelensky che i Volonterosi Ue hanno inoltre mal digerito il fatto che il vertice Trump-Putin sarebbe avvenuto in Ungheria, lo Stato che nell’Unione e nei principali giornali occidentali è trattato come un paria, da non toccare nemmeno con la punta delle dita.

Il secondo evento rivelatore, ancora più significativo perché inatteso, sono le parole che Angela Merkel ha pronunciato il 3 ottobre sul mortifero garbuglio ucraino. Anche qui, come nel caso di Trump, colpisce l’interlocutore prescelto dall’ex Cancelliera: il canale youtube Partizàn, ungherese, e l’influente giornalista Márton Gulyás, anch’egli ungherese. Budapest denuncia da tempo l’assenza di una seria diplomazia europea, critica i pacchetti di sanzioni (è in discussione il diciannovesimo), e si oppone all’uso degli averi russi sequestrati nelle banche occidentali. Si oppongono anche Banca centrale europea e Fondo monetario.

La cosa cruciale che l’ex Cancelliera ha detto, sull’Ucraina, è che la guerra avrebbe potuto essere scongiurata, se l’Europa avesse accettato quello che lei propose nel giugno 2021, otto mesi prima dell’ingresso dell’esercito russo in Ucraina. Si trattava di prender atto del fallimento degli accordi di Minsk (Kiev non ha mai concesso l’autonomia promessa ai russofoni del Donbass, neanche linguistica) e di costruire con Mosca un “nuovo format”: una struttura che permettesse ai governi europei di “parlare direttamente con Putin in nome dell’Unione”, per negoziare la fine della guerra iniziata nel 2014 da Kiev contro i separatisti russofoni e russofili del Donbass. Solo così poteva esser scongiurata l’escalation più temuta: l’entrata in guerra di Mosca, avvenuta nel febbraio 2022, e l’annessione del Donbass e di altre province.

Il meccanismo concepito dalla Cancelliera (e da Macron, non ancora convertito al militarismo) somigliava molto al “telefono rosso” introdotto da Kennedy e Krusciov il 30 agosto 1963, dopo la crisi missilistica di Cuba. Lo scopo era sventare, grazie al filo diretto con Mosca, l’esplosione di un accidentale conflitto atomico. La proposta era ragionevole oltre che promettente, era stata già collaudata da Kennedy e avrebbe probabilmente evitato centinaia di migliaia di morti negli anni successivi. Ma nel Consiglio europeo del giugno 2021 fu respinta come l’avesse proposta il diavolo. Merkel è nota per l’estrema parsimonia verbale, ma nell’intervista è uscita allo scoperto: gli Stati che si opposero al format negoziale russo-europeo “furono soprattutto i tre Baltici e anche la Polonia, timorosa che mancasse all’Europa una politica verso la Russia”, politica che evidentemente Varsavia desiderava, e ancora desidera, meno cooperativa.

A differenza di molti colleghi nell’Unione, Merkel voleva che il meccanismo diplomatico fosse indipendente dalla Nato. Inoltre era convinta che l’assenza di colloqui diretti durante la pandemia Covid aveva danneggiato molto gravemente i rapporti con Mosca.

Merkel racconta infine come continuò a difendere i gasdotti NordStream, nonostante l’opposizione strenua di Zelensky e di Biden. Nel settembre 2022 i gasdotti che rifornivano Germania ed Europa di metano russo a buon prezzo furono distrutti da sabotatori ucraini col consenso di Washington, che può ora venderci gas liquefatto molto più costoso.

Accade così l’impensabile. Gli unici a prender atto che questa guerra poteva essere evitata, che non fu unprovoked ma provocata, che rischia di sfociare in scontro atomico se non finisce presto, sono Orbán il Reprobo, una Cancelliera in pensione, e un presidente Usa tutt’altro che pacifico, visto che medita guerre di regime change in Venezuela proprio mentre scommette su accordi con Mosca. Trump fa pensare al buffone di Kierkegaard che irrompe alla fine dei tempi in un teatro. Il buffone appare da dietro le quinte e urla per avvertire il pubblico che sta per dilagare un incendio: “Tutti pensano che è una farsa, dunque applaudono e ridono a crepapelle. È così, penso, che il mondo perirà”. (Sören Kierkegaard, Aut-Aut).

Uno dei più intelligenti e colti parlamentari europei, Michael von der Schulenburg (gruppo Sahra Wagenknecht, non iscritto) ha spiegato di recente in un saggio che la responsabilità maggiore ricade sulla Germania di Scholz e soprattutto di Merz. Ambedue accampano una memoria acuta delle colpe tedesche, e hanno fatto pagare ai palestinesi la propria espiazione per il genocidio degli ebrei. Ma la memoria svanisce del tutto quando ci si arma fino ai denti contro la Russia (27 milioni di morti per abbattere Hitler). Infatti Berlino sta preparando il Paese a una guerra con Mosca considerata imminente, si doterà dell’“esercito più potente d’Europa” (parola di Merz), e fa dire a Martin Jäger, direttore dei Servizi, che Mosca attaccherà gli europei della Nato “ben prima del 2029”, come ci si illudeva fino a ieri.

Né Merz né gli Stati europei né Zelensky temono di ridicolizzarsi: se di mattina dicono che la Russia ha fallito l’offensiva di primavera ed è prossima al collasso, ragion per cui conviene assestare il colpo finale coi Tomahawk, la sera diranno che Mosca è a tal punto minacciosa, efficace e agguerrita da poter invadere l’Europa intera, Italia compresa.


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L’irrealtà europea tra Kiev e Mosca

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 agosto 2025

In attesa del vertice trilaterale fra Trump, Putin e Zelensky, o di precedenti incontri bilaterali Mosca-Kiev come preferirebbe Putin, occorrerà distinguere con precisione quel che separa l’apparenza dalla realtà.

L’accordo di cui Trump ha discusso lunedì a Washington – con Zelensky, i capi di Stato o di governo di cinque paesi europei, la Nato, la presidente della Commissione Ue – sembrerebbe chiaro: cessione alla Russia di gran parte dei territori perduti da Kiev (Donbass soprattutto), compresa la Crimea annessa nel 2014 quando Washington organizzò lo spodestamento del presidente Yanukovich, giudicato troppo filo-russo; solide garanzie di sicurezza, con una presenza di soldati francesi e inglesi in quel che resta dell’Ucraina, con eventuale copertura aerea e satellitare Usa; “riarmo forte” dell’Ucraina; fine degli aiuti militari Usa ma acquisto di armi statunitensi destinate a Kiev da parte degli Stati europei, per un totale di ben 100 miliardi di dollari (le spese sociali saranno ancora più tagliate); impegno a difendere l’Ucraina in caso di attacchi, “sul modello articolo 5” della Nato (l’attacco a un Paese è un attacco contro tutti) ma senza adesione alla Nato.

Tema preminente è stato la garanzia di sicurezza per l’Ucraina, com’è naturale. Ma neanche un cenno è stato fatto alle garanzie di sicurezza chieste da Mosca: garanzie non solo militari, ma concernenti i cittadini russi e russofoni, la cui lingua deve tornare a essere lingua ufficiale accanto a quella ucraina, secondo Putin. Mosca chiede anche la riabilitazione della Chiesa ortodossa canonica, illegalmente messa al bando da Zelensky nel 2024.

È su tutti questi punti che occorre distinguere fra apparenze, frasi pompose e realtà. In effetti Putin non sembra essere affatto favorevole allo spiegamento di soldati di paesi Nato e al simil-articolo 5. Lo ha ribadito martedì il ministro degli Esteri Lavrov, che accusa i leader europei di arroganza e di baby talk, “chiacchiere infantili”. In Alaska, Putin ha ammesso che “la sicurezza ucraina deve assolutamente essere garantita” (l’avverbio ‘assolutamente’ scompare nella traduzione inglese del discorso) ma non è andato oltre. Una posizione ufficiale russa sulla questione ancora non esiste. Intanto si parla della Cina come co-garante.

Alla fine dell’incontro di lunedì, Macron è apparso trionfante: l’Ucraina deve avere un esercito forte e gli europei dovranno addestrarlo e assistere Kiev “schierando propri soldati in Ucraina” per opporre alla Russia un “deterrente robusto”. Ma solo Londra si associa. Merz vorrebbe ma non può: Berlino ha già schierato soldati in Lituania, e per i socialdemocratici al governo l’invio di truppe in Ucraina è ancora una linea rossa. Troppo presto Trump ha aggiunto Berlino a Parigi e Londra. La stampa russa sottolinea il rifiuto italiano e cita compiaciuta la domanda di Meloni a Macron, prima dei colloqui a Washington: “Quante truppe occidentali dovrebbero essere schierate, visto che Mosca ha 1,3 milioni di soldati?”.

Gran parte dell’Europa – compreso il governo polacco, molto antirusso – non vuole schierare soldati, tanto più che secondo Macron non si tratterebbe solo di mantenimento della pace (peacekeeping), ma anche di combattere se i russi attaccano. A tutt’oggi, Mosca non accetta la presenza militare di Paesi Nato prospettata da Parigi: 200.000 soldati, aveva detto Zelensky a gennaio, cioè una guerra potenzialmente infinita. Né accetta il cessate il fuoco perché vuole “un accordo che affronti le radici del conflitto”. Nulla deve somigliare, per Putin, all’armistizio lungo il 38º parallelo che concluse la Guerra di Corea nel 1953 ma che ancor oggi non ha prodotto la pace. È uno dei tanti esempi storici che dovrebbero far riflettere gli europei: basti ricordare Cipro, paese membro Ue, che 51 anni dopo il cessate il fuoco resta in parte occupato dalla Turchia, paese membro Nato.

Merz e Macron sono stati gli unici, nell’incontro a Washington, a sostenere che l’accordo di pace è impossibile senza preventivo cessate il fuoco: cosa per l’appunto respinta da Putin e negli ultimi giorni anche da Trump. Significativa la defezione di Starmer, che dopo Anchorage ha subitamente cambiato idea, e capito che il cessate il fuoco rischia di congelare il fronte come in Corea. Questo significa che non esiste unità europea sul cessate il fuoco, nemmeno tra i cosiddetti Volonterosi.

Altra inconsistenza europea: subito dopo il vertice di Alaska, il 16 agosto, i Volonterosi (Italia compresa) avevano dichiarato che “Mosca non può opporre un veto al cammino ucraino verso l’Ue e la Nato”. Due giorni dopo, a Washington hanno completamente dimenticato la pomposa sfida lanciata a Putin e Trump. Di adesione alla Nato non hanno detto più nulla. Si sono genuflessi come sui dazi: ingoiando il 15% imposto da Trump, Ursula von der Leyen promise acquisti di gas naturale americano (il GNL costa il doppio del gas acquistato dalla Russia) e massicci investimenti e acquisti di armi dagli Stati Uniti. La presidente della Commissione Ue è giunta sino a suggerire, pochi mesi fa, di sostituire completamente il GNL russo con quello statunitense.

Per quanto riguarda la Nato, Putin non si accontenterà né di assicurazioni verbali né di protocolli confutabili. Non ha dimenticato come Mosca fu gabbata, quando l’Occidente promise a Gorbačëv, verbalmente e per iscritto, di non estendere la Nato “nemmeno di un pollice”, nel 1990 dopo la riunificazione tedesca. Il Cremlino vorrà una dichiarazione ufficiale della Nato, e se necessario la cancellazione di tutti gli emendamenti introdotti nel 2019 nella Costituzione ucraina, nei quali l’adesione della Nato è un impegno vincolante.

Infine i territori. Gli europei continuano a parlare di integrità territoriale, illudendosi che la Russia restituisca quel che ha annesso nel 2014 pacificamente (Crimea) e nel 2022 in guerra (le province di Donetsk e Lugansk che formano il Donbass. Secondo fonti inglesi potrebbero esserci concessioni su parti di Zaporižžja e Kherson). La situazione è impervia per Kiev, visto che la Costituzione le impedisce di cedere territori. È tecnicamente problematica anche per la Russia, che ha annesso quattro province, oltre alla Crimea, e le ha inserite nella propria Costituzione.

Singolare è l’impressione che si è avuta seguendo la conferenza del presidente Usa con Zelensky, alcuni europei, la Nato rappresentata da Rutte, la Commissione Ue. Trump è apparso questa volta più preparato del solito, più al corrente dei punti salienti della questione da risolvere e anche dei bisogni strategici di Mosca. Non era sempre sicuro di sé, tanto che ha telefonato a Putin nel mezzo dei colloqui.

Invece gli europei sono apparsi sicuri di sé e del tutto impreparati. Non solo perché non rappresentano una potenza globale e perché sono divisi. Ma perché in questa guerra non si sono mai preoccupati di capire qualcosa della Russia avviando colloqui diplomatici con Putin. Hanno solo pensato a insultarlo e sanzionarlo. Quando l’arroganza s’accoppia a ignoranza abissale i danni sono certi, e per forza si diventa vassalli di Washington.

Dal vassallaggio potranno uscire solo se ricominceranno a pensare la sicurezza europea come la Casa Comune che Gorbačëv propose fin dal 1988, prima che cadesse il Muro di Berlino, e di cui torna a parlare Putin quando chiede di “ristabilire un giusto equilibrio di sicurezza in Europa”. Della Casa Comune la Russia dovrà un giorno o l’altro far parte, visto che sarà nostro paese limitrofo per centinaia di generazioni a venire.

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Trump-Putin, l’accordo c’è anche se non si vede

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 17 agosto 2025

Dicono i media statunitensi, compresi quelli vicini a Trump, che il vertice con Putin in Alaska non ha prodotto il successo immaginato dalla Casa Bianca, anche se l’evento è stato spettacolare: era la prima volta che le due potenze nucleari si parlavano, dall’inizio della guerra per procura in Ucraina che Joe Biden e Boris Johnson vollero proseguisse anche quando Kiev accettò una bozza d’intesa con Mosca, poche settimane dopo l’invasione del febbraio 2022. In realtà l’accordo fra i due presidenti c’è, anche se entrambi non intendono per ora formalizzarlo. “Nessun accordo fino a quando l’accordo c’è”, riepiloga Trump. Adesso tocca a Zelensky prendere la decisione che metta fine alla guerra, o almeno produca una tregua duratura. Zelensky recalcitra, ma dovrà valutare prestissimo: Trump l’ha convocato a Washington fin da domani. E tocca decidere agli Stati europei, che per tutto questo tempo hanno boicottato i tentativi di Washington, senza mai provare vie diplomatiche alternative e limitandosi a insistere sugli aiuti militari a Kiev, sulle sanzioni a Mosca e sul proseguimento della guerra. I cosiddetti “europei volenterosi” si dicono convinti che entro un decennio Mosca aggredirà il resto del continente. Quanto agli ucraini, la maggioranza chiede “pace subito”: ma che importa, sono loro a morire, mica noi. Infine la decisione spetta alla Nato, che dovrà ammettere una disfatta monumentale. Se Kiev e i volenterosi capiranno che la palla è nel loro campo, e che la sconfitta è ingiusta ma ineludibile, l’accordo potrebbe culminare in un incontro fra Putin, Trump e Zelensky.

Tutto questo si deduce in maniera non subito decifrabile dalle dichiarazioni dei due leader dopo il vertice, e molto più chiaramente dall’intervista che Trump ha rilasciato a Sean Hannity di Fox News, dopo l’incontro. Putin aveva ammesso poco prima che “su tanti punti” c’era identità di vedute, e che “la sicurezza dell’Ucraina deve assolutamente essere garantita”, al pari di quella russa: “Ma speriamo che Kiev e le capitali europee non oppongano ostacoli e non tentino, con provocazioni o intrighi dietro le quinte, di silurare i progressi che si profilano”. Nell’intervista Trump non ha detto cose diverse: “Non dico in pubblico tutti i punti d’intesa con Putin perché l’Ucraina deve ancora dare il consenso. La conclusione della trattativa spetta ora a Zelensky. Gli europei devono essere un po’ coinvolti (‘a little bit’), ma tutto dipende da Zelensky. Per parte mia gli dirò: Concludi un accordo!”. Né durante il vertice né nell’intervista si è accennato ai territori annessi da Mosca e alle garanzie di sicurezza per Kiev. È il motivo per cui alcuni giudicano il vertice “vuoto”. Putin avrebbe soggiogato Trump ripetendo quanto sostiene (legittimamente, ma inascoltato) da decenni: “Occorre affrontare le radici della crisi, tener conto delle nostre preoccupazioni, stabilire un giusto equilibrio di sicurezza in Europa”. E occorrerà riabilitare la lingua russa in Ucraina.

Invece è più che probabile che il problema dei territori sia stato affrontato, ma che i due abbiano deciso per prudenza diplomatica di non menzionarli prima dell’incontro Trump-Zelensky e dell’eventuale vertice fra Putin, Trump e Zelensky. Secondo una fonte presente ai colloqui di Anchorage, Putin vorrebbe tenere il Donbass (Doneck, Lugansk), ma accetterebbe il “congelamento” della linea del fronte nelle province, anch’esse annesse, di Kherson e Zaporizhzhya. Mosca non conferma.

Scrivono molti commentatori occidentali: è stato un trionfo per Putin, perché due giorni prima del vertice Trump aveva minacciato “conseguenze severe” in assenza di un accordo di tregua al vertice in Alaska, e adesso esalta le “relazioni fantastiche” tra Usa e Russia. Ha perfino apprezzato un “brillante consiglio” di Putin in tema di democrazia: “Le elezioni per email sono per forza disoneste. Il presidente Carter era dello stesso parere!”. Ma forse il Presidente Usa sta piano piano apprendendo l’arte dei silenzi diplomatici, e per questo non fornisce dettagli? In effetti ancora non sappiamo in cosa consista “lo scambio di territori” che ha prospettato giorni fa, e che riempie di paure Zelensky. Né chi garantirà la sicurezza dell’Ucraina, visto che Putin respinge lo schieramento di soldati di paesi Nato: un altro punto su cui Trump si dice “largamente d’accordo”, nell’intervista a Fox.

Probabilmente si è anche parlato di neutralità dell’Ucraina e della domanda principale di Mosca: la non adesione alla Nato, che Putin esige sotto forma di garanzia ufficiale, non verbale come ai tempi di Gorbacëv. È una delle questioni più spinose dei prossimi incontri al vertice, perché la Nato dovrà ammettere che questa guerra europea, da cui si aspettava lo smembramento della Federazione russa e la caduta di Putin, l’ha davvero perduta.

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La “diplomafia” di Trump: i dazi

di domenica, Luglio 20, 2025 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2025

Diplomafia: così viene chiamata dal giornale israeliano «Haaretz» l’offensiva globale che Donald Trump ha scatenato sui dazi.

A sorreggere la politica statunitense non ci sono ragionamenti commerciali, né economico-finanziari, e neanche geopolitici, contrariamente a quanto affermano alcuni esperti. La geo-politica presuppone una mente fredda, analitica, mentre quel che quotidianamente va in scena ai vertici degli Stati Uniti è uno spirito di vendetta ben conosciuto e praticato nel mondo dei gangster e dei mafiosi.

Contemporaneamente Trump è sempre più impelagato nelle losche vicende di Jeffrey Epstein, suscitando rancore in un elettorato cui aveva promesso la fine del connubio fra politica, affari, malavita e uso sessuale delle minorenni che lo Stato Profondo custodiva e copriva. Chi conosce la serie The Penguin avrà l’impressione di vedere Gotham City. Non è infranto solo il diritto internazionale e non sono esautorati solo gli organismi delle Nazioni Unite. Trump ostenta ammirazione per i Presidenti protezionisti ed espansionisti dell’Ottocento (William McKinley, James Polk, Andrew Jackson, famosi per la liquidazione dei nativi americani e per le annessioni delle Hawaii, della California, di parte del Messico). Ma essendo figlio del Novecento e delle sue guerre calde e fredde immagina che in quanto padrone della terra tutto gli sia permesso, e interferisce nei procedimenti giudiziari di Stati sovrani – amici e nemici– ergendosi a giudice supremo di un inesistente governo universale.

Gli esempi più clamorosi di questa soverchieria capricciosa e imperiale sono il Brasile e Israele. Nel primo caso si tratta di punire l’esecrato Presidente Lula; nel secondo di proteggere dai giudici Netanyahu, il servo che perversamente s’ingegna a asservire Washington, con l’aiuto inalterabile dei cristiani sionisti e delle lobby israeliane. Altri casi non meno gravi: il castigo tariffario promesso agli Stati che non rispettano le sanzioni contro Mosca e ai Paesi del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).

La ragione economica per cui Trump ha annunciato dazi del 50% contro Rio de Janeiro è introvabile. Da 17 anni il Brasile importa dagli Stati Uniti più di quello che esporta (il surplus americano ammonta a 7,4 miliardi di dollari nel 2024, un aumento del 33% rispetto al 2023). Unico motivo che spiega la ghigliottina del 50% è il procedimento giudiziario contro Jair Bolsonaro, detto anche Jair Messias Bolsonaro e accusato di tentato golpe militare dopo le elezioni del 2022 vinte da Lula. Il modello imitato dall’ex Presidente era l’assalto al Congresso Usa che Trump favorì il 6 gennaio 2021, molto più raffazzonato di quello brasiliano ma inteso, anch’esso, a rovesciare il risultato elettorale. Trump è chiaro, nella lettera sui dazi inviata il 9 luglio al Presidente brasiliano: il processo contro Bolsonaro è “una farsa”, e Lula “sta intraprendendo una caccia alla streghe che deve finire IMMEDIATAMENTE!”. Qualche giorno prima aveva scritto sulla sua piattaforma social che Bolsonaro “non è colpevole di nulla, tranne di aver combattuto per IL POPOLO!”. La risposta di Lula è stata immediata e drastica: “Il Brasile è una nazione sovrana con istituzioni indipendenti e non accetterà alcuna forma di tutela… Non si fa ricattare, e non prenderà mai ordini da un gringo”.

Pur non essendo legato ai dazi, il caso Israele è simile. Da cinque anni Netanyahu è sotto processo per corruzione, frode e violazione della fiducia. Lo sterminio a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania e le guerre in vari Paesi del Medio Oriente (Libano, Iran, Yemen, e sempre più apertamente Siria) puntano a un Grande Israele dominante nella regione, alla “soluzione finale” della questione palestinese, e simultaneamente a rallentare il processo. Anche in questo caso Trump non ha esitato a violare la sovranità di Israele e dei suoi poteri giudiziari. Sola differenza con il Brasile: Netanyahu non reagisce con l’audacia di Lula ma si felicita per le generose intromissioni del compare alla Casa Bianca, ringraziandolo e candidandolo addirittura al premio Nobel per la pace. Intervenendo sulla piattaforma Truth, Trump ha parlato ancora una volta, come nel caso brasiliano, di “caccia alle streghe” contro il compagno annessionista Netanyahu. Le accuse sono “basate sul nulla”, ha garantito al posto dei giudici, ed è giunto fino a minacciare “la sospensione degli aiuti militari se il processo non sarà annullato” (magari fosse vero). Il culmine della spudoratezza è stato toccato il 16 luglio dall’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, che ha visitato Netanyahu durante una sessione del processo a Tel Aviv. Huckabee è un esponente degli evangelicali che appoggiano tutte le guerre e gli stermini israeliani, e anch’egli ha chiesto pubblicamente che il processo sia “annullato”, aggiungendo che le udienze mettono in pericolo i negoziati sugli ostaggi detenuti da Hamas. L’ambasciatore si è presentato davanti alle telecamere, al processo, tenendo in mano un pupazzo di Bugs Bunny vestito da Superman. Trump aveva già sbandierato il pupazzo, a giugno, quando aveva denunciato la “caccia alle streghe” contro il Premier israeliano e aveva spiegato che il suo complice-amico era perseguitato per inezie, come per l’appunto il maxi-pupazzo chiesto dalla moglie Sara al produttore cinematografico statunitense Arnon Milchan: “Il processo contro Netanyahu è una dissennatezza inscenata da procuratori fuori controllo”.

Non per ultimi vanno annoverati i dazi minacciati da Trump come rappresaglia iraconda contro i governi che si azzardano a aggirare le sanzioni che colpiscono la Russia, e contro le iniziative del gruppo Brics specie per quanto concerne la centralità del dollaro: “Ogni Paese che si allineerà con le politiche antiamericane dei Brics sarà colpito da tariffe maggiorate del 10%”, ha tuonato il 6 luglio.

In apparenza questi comportamenti sembrano indicare una supremazia globale degli Stati Uniti, simile a quella pretesa dopo la fine dell’Urss. Ma non è così, e Trump sta in realtà gestendo il disfacimento dell’egemonia statunitense. Disfacimento teatrale, volubile, e mortifero: il padrone è divenuto padrino. Per questo Pechino e la rinata potenza russa non riescono a fidarsi della sua parola. È quello che gli Stati europei, abituati a servire da quasi un secolo, faticano a capire. Si riarmano contro Mosca scimmiottando il predominio militare statunitense durante la Guerra fredda. Nemmeno si sono allarmati o adombrati, quando Trump ha paragonato il bombardamento delle centrali nucleari iraniane alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, e ha ricordato come in ambedue i casi – Iran e Giappone – la guerra si fosse conclusa presto e bene. Solo Tokyo si è irritata. I principali media europei continuano a inveire ossessivamente contro sovranismi e populismi, senza accorgersi che il sovranismo di Lula da Silva è il solo linguaggio decente con cui i popoli indipendenti e gli elettori possono identificarsi e forse conciliarsi.

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Groenlandia, grande gioco nell’artico

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 aprile 2025

L’avvenire della Groenlandia e delle popolazioni Inuit che la abitano non sembra smuovere oltre misura l’Unione europea, nonostante l’importanza crescente che l’isola sta acquisendo a causa dei minerali preziosi, del petrolio, del gas naturale, che lo scioglimento dei ghiacci renderà estraibili. E nonostante il suo rapporto di dipendenza dalla Danimarca.

Trump vorrebbe accaparrarsi l’isola, la più grande del pianeta, pensando a quel che gli Stati Uniti potrebbero ricavarne: non solo terre rare e fonti energetiche ma anche la possibilità di una via di passaggio tra America e Asia, tale da rendere meno rilevante il Canale di Suez (viene in mente la bellissima serie televisiva The Terror, con la sua catastrofica navigazione coloniale nell’Artico).

Trump fantasticò l’annessione o acquisto già nel 2019, entrando in competizione con altre potenze, grandi e medie, mosse dagli stessi interessi: Russia, Cina, Canada. Un Grande Gioco geopolitico attorno all’Artico, che potrebbe anche degenerare in scontri violenti e ulteriori dissesti climatici. In Terrore, appunto.

Intanto l’Unione europea tace, incredula. Anche la grande stampa europea dedica poca attenzione al Grande Gioco Artico: si limita a dissennatamente trasecolare e sorprendersi, giudica assurdo il progetto di Trump. Non così Mosca, che da decenni pensa alla penetrazione dell’Artico. Il 27 marzo Putin si è soffermato sulla questione, parlando a Murmansk nel Foro Artico Internazionale e ricordando a chi non se ne fosse accorto che le ambizioni statunitensi hanno “radici storiche lontane”, che “vanno prese sul serio”, e che anche Mosca ha interessi da difendere nella regione.

Contrariamente a quello che affermano alcuni, Mosca non appoggia le mire statunitensi. Si limita a prenderne atto, nella qualità di potenza rivale ma non contraria a cooperare: “Purtroppo, anche la competizione geopolitica e la lotta per le posizioni in questa regione si stanno intensificando (…) È un grave errore considerare (gli interventi di Trump) come discorsi assurdi dell’amministrazione Usa. Niente di tutto questo. Washington aveva piani simili già nel 1860. Già allora, l’amministrazione valutava la possibilità di annettere Groenlandia e Islanda”.

Putin aggiunge che la guerra in Ucraina e l’aggressività della Nato impediscono una cooperazione internazionale sull’Artico che permetta lo sviluppo della Groenlandia senza fatalmente danneggiare il clima, già molto compromesso. Nel 2022 la Russia è stata esclusa dal Consiglio Artico creato nel 1996, pur essendo il paese più artico della terra e partner cruciale per le ricerche scientifiche e il monitoraggio dei fondali. Solo l’Islanda ha deciso, saggiamente, di proseguire i lavori di ricerca iniziati con Mosca.

Gli Stati europei sanno poco di quest’isola, che fa parte della Danimarca pur avendo ottenuto in due fasi, nel 1979 e nel 2009, un’autonomia molto estesa (politica estera e difesa restano nelle mani danesi). Ignorano il carattere indipendente e ribelle del suo popolo, per l’89 per cento composto di Inuit, e il legame che esso ha – come in Canada, nel Nord degli Stati Uniti, nel Nord Ovest della Russia – con la natura e con miti ancestrali.

La Groenlandia fu conquistata attorno al 1720 dalla Danimarca, e gli Inuit furono colonizzati, cristianizzati, assimilati, “modernizzati” con la forza. Per secoli Copenaghen ha occultato la violenza del proprio colonialismo, descrivendolo come specialmente mite, inclusivo. Da qualche anno tuttavia sta emergendo una verità più cupa. Crescono di conseguenza le spinte indipendentiste, nei vari partiti groenlandesi, e il desiderio di seguire l’esempio dell’Islanda, che nel 1944 votò l’indipendenza dalla Danimarca occupata dai nazisti. Anche la Groenlandia prese allora le distanze dall’Europa, e fu temporaneamente attratta da un’alleanza con gli Stati Uniti. L’indipendentismo di Nuuk, capitale dell’isola, cominciò a affiorare nel 1982, con un referendum che sancì la sua uscita dalla Comunità europea.

Proprio perché lungamente negata, la violenza degli ex colonizzatori si è protratta fino agli anni 70 del secolo scorso. Non solo è sempre esistita una diseguaglianza salariale, tra nativi e coloni danesi. Non solo le tre varianti della lingua inuit furono per molto tempo vietate, e le tradizioni religiose precristiane represse. Quel che pesa di più, nelle memorie groenlandesi, è stata la politica danese di riduzione forzata della natalità inuit, applicata fino a pochi decenni fa.

In particolare va ricordata la campagna sui contraccettivi, applicata su larga scala fra il 1966 e il 1970. Spirali intrauterine venivano inserite nelle donne in età fertile, molto spesso a loro insaputa e comunque senza chiedere il loro consenso: circa la metà delle donne groenlandesi fu sottoposta al trattamento. Lo scrittore Peter Harmsen evoca in un articolo per la Bbc l’accusa formulata lo scorso dicembre dal premier groenlandese Múte Egede: “Fu un palese genocidio, quello attuato dallo Stato danese”.

Altra ferita inferta da Copenaghen tra gli anni 50 e 70 del Novecento: il sequestro di circa 1600 bambini, sottratti alle madri e affidati a genitori adottivi danesi. “Forgiamo una nuova élite”, ci si vantava nei palazzi del potere. Ne parla in più romanzi lo scrittore francese Mo Malø. In alcuni casi le sottrazioni avvenivano senza il consenso delle madri biologiche. In altri, le madri non venivano informate del fatto che il legame con i figli sarebbe stato completamente tagliato. Solo da qualche anno la Danimarca comincia a fare i conti col proprio passato.

Questo non significa che la Groenlandia sia pronta a passare sotto il controllo degli Stati Uniti, che dispongono nell’isola di una potente base antimissili (Thule). L’85% della popolazione è contraria, solo il 6% è favorevole. “La Groenlandia non è in vendita”, ripetono i partiti politici. Ma soprattutto, gli isolani vorrebbero preservare lo Stato Sociale di cui godono grazie al rapporto difficile ma proficuo con la Danimarca, e alle cospicue sovvenzioni versate da Copenaghen: 520 milioni all’anno. Un buco che Usa, Russia e Cina prometterebbero di riempire con forti investimenti, ma che Nuuk guarda non senza diffidenza.

La Groenlandia non vorrebbe dipendere da nessuno, al momento. Si barcamena nel Grande Gioco dell’Artico. Ma una cosa è certa. Le sue popolazioni sono estremamente allarmate per il disastro climatico e lo scioglimento della calotta artica. Non vogliono che l’estrazione dei minerali preziosi e del petrolio intossichi la loro terra. Nel 2021, il governo ha bloccato l’estrazione di uranio e terre rare a Kvanefjeld, su pressione della popolazione. Nonostante le ferite inflitte dagli ex colonizzatori, gli europei potrebbero proteggerli dal dissesto naturale più efficacemente di Russia, Cina e Stati Uniti. Se solo smettessero la frenesia bellica e riavviassero la cooperazione artica con Mosca, Pechino e Washington, potrebbero divenire l’alleato meno infido della Groenlandia, perché più sensibile al collasso del pianeta.

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Chi usa Ventotene e chi ne abusa

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 22 marzo 2025

Mercoledì alla Camera Giorgia Meloni ha lanciato una bomba che più sporca non potrebbe essere, contro chi sabato scorso ha manifestato per l’Europa.

Ha citato alcuni passaggi del Manifesto di Ventotene in cui si afferma che lo Stato federale europeo sarà di natura socialista, e potrà nascere solo tramite una rivoluzione che aggiri (temporaneamente) le volontà nazionali. Ha trascurato il resto del Manifesto, dedicato alla natura democratica, economica, sociale che secondo i suoi autori (Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni) avrebbe dovuto avere la Federazione.

Meloni ha omesso il luogo in cui il Manifesto fu scritto: il confino a Ventotene dove il regime relegò circa 800 antifascisti (“Mussolini mandava la gente a far vacanza al confino”, Berlusconi 2003). Una parte dei confinati aveva già fatto anni di carcere: dieci nel caso di Spinelli. I padri fondatori di Fratelli d’Italia sono eredi di quel crimine. Meloni ripete che “è nata dopo”, negando che i neo-fascisti postbellici, con trame nere e golpe falliti, avessero qualcosa a che vedere col Ventennio. Perfino Helmut Kohl, che post-nazista non era, disse un giorno che era venuto al mondo dopo la guerra, ma subito dopo si corresse e ammise che tutti i “nati dopo” erano “corresponsabili” della storia nazista.

Almeno due elementi del discorso governativo andrebbero chiariti. Primo: il bellicismo solo parziale che Meloni può adottare in presenza dell’opposizione della Lega, e dunque l’uso che viene fatto di Ventotene come silenziatore dei dissidi e distrazione parlamentare (a conferma: il leghista Giorgetti ha sorriso contento, in aula). Secondo: le frasi rivoluzionarie estrapolate dal Manifesto, “spaventose” per la presidente del Consiglio.

Primo elemento: Meloni ha usato Ventotene per sgangherare ogni discussione seria sul Piano Riarmo che la presidente della Commissione Von der Leyen ha annunciato il 4 marzo (ieri ribattezzato Readiness 2030: cioè “Pronti alla guerra”). Elly Schlein cerca con lodevole fatica di contrastare la chiamata alle armi, cara ai capitribù del Pd (Gentiloni, Bonaccini, ecc), ma quel che suggerisce non è una linea politica alternativa. È un cambio di vocabolario, non di sostanza: meglio Difesa europea anziché 27 eserciti nazionali, dice, se ci si vuole “preparare alla guerra” come reclamato da Von der Leyen.

Sia Meloni sia Schlein sanno che nelle condizioni attuali è del tutto inconcepibile una Difesa comune gestita da un’autorità unica come avviene per l’euro. Né è possibile la deterrenza: fortunatamente non abbiamo 6000 testate atomiche come Mosca, per dissuaderla. Manca uno Stato europeo, manca una comune politica estera, manca un Parlamento vero. Alcune politiche militari potranno essere coordinate e lo saranno, ma coordinamento non è unità di politiche e di intenti. Il Manifesto di Ventotene è disatteso da tutti, in questo campo. Già l’euro fu costruito senza creare anticipatamente uno Stato unico, ed è il motivo per cui mente chi parla di grandioso successo senza ombre.

L’umiliazione della Grecia e le disuguaglianze sociali innescate negli anni dell’austerità sono la conferma che la vittoria è come minimo monca.

La difesa europea e l’autonomia dell’Unione sarebbero certo utili, per rendere gli europei meno dipendenti dal dispositivo militare statunitense e dalle sue attuali involuzioni fascistoidi, visibili nelle politiche di immigrazione, nella repressione delle dissidenze universitarie, nell’appoggio alle guerre di Israele.

Ma visto che i fautori della difesa europea si richiamano al Manifesto di Ventotene occorre che sappiano l’essenziale: quel testo nacque nell’agosto 1941, nel mezzo della Seconda guerra mondiale, e aspirava a un’unità politica – un governo federale – non per fare le guerre ma per sormontare gli Stati nazione e dar quindi vita a una potenza di pace. E con chi edificarla? Con la Germania, che nel ’41 stava occupando mezza Europa e aveva iniziato l’invasione della Russia.

Oggi se si vuole un’Europa che superi la bellicosità congenita degli Stati nazione è con la Russia che urge mettere in piedi una sicurezza comune. Lo prospettò Gorbacëv negli anni 90 del secolo scorso: si rese conto della sconfitta dell’Urss, propose una Casa Comune Europea, e chiese agli occidentali – Usa in testa – di non comportarsi da vincitori e di instaurare assieme a Mosca una pace che escludesse l’espansione atlantica sino ai confini russi. Non fu ascoltato e la Nato s’allargò fino a promettere, nel 2008, l’ingresso di Ucraina e Georgia. Nessun leader russo può accettarlo, e Trump sembra prenderne atto. Non così gli Stati europei, tranne Ungheria e Slovacchia, e lo si può capire.

La sconfitta non solo di Zelensky, ma dell’intero Occidente è fenomenale, e gli europei sono paralizzati, avendo criminalizzato chiunque parlasse con Mosca. Di qui la continuazione degli aiuti all’Ucraina, caldeggiata dal Consiglio europeo e anche dalla Piazza per l’Europa del 15 marzo. Così c’è solo Trump a parlare con Putin. Nel suo Parlamento il Cancelliere Merz dichiara che la Russia minaccia la Germania e l’Europa e dunque urge un formidabile riarmo. L’attore Benigni racconta Ventotene con efficacia, in eurovisione, ma d’un tratto grida che “in Russia esistono fabbriche che sfornano milioni di fake news ogni giorno”. Su «Repubblica» lo scrittore Antonio Scurati lamenta la svanita combattività delle genti europee e constata che da questo punto di vista il nostro sviluppo postbellico “è stato un avanzare regressivo” (che c’entra con Ventotene?). Nel Parlamento solo 5 Stelle e Sinistra Avs si oppongono a invii di armi e chiedono negoziati. Sabato in piazza sventolavano bandiere ucraine e georgiane, non palestinesi. Quelle palestinesi sventolavano in un’altra piazza romana. Tre giorni dopo Netanyahu ricominciava lo sterminio a Gaza con le armi Usa e nostre.

Passiamo al secondo elemento: la rivoluzione che nel Manifesto fa nascere la Federazione. Meloni cita passaggi sconfessati da Spinelli fin dal 1943 e ignora i brani in cui si spiega che vuol dire Europa socialista: “La rivoluzione europea […] dovrà essere socialista, proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione di condizioni più umane di vita”. O passaggi tuttora invisi a destra sul reddito minimo: “La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori”.

Nel 1941 parlare di rivoluzione era d’obbligo: c’era il fascismo. Ma anche oggi le conseguenze logiche del Manifesto (Stato federale, Stato sociale per tutti, Casa Comune con la Russia, disarmo) implicherebbero una rivoluzione delle menti e della politica. Nessuno si sente di farla.

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Come salvare Kiev dopo la sconfitta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2025

Prima di accusare Giuseppe Conte di tradimento dei valori occidentali, e di sottomissione a Trump e alle estreme destre, converrebbe analizzare l’andamento della guerra in Ucraina negli ultimi tre anni e chiedersi come mai l’illusione di una vittoria di Kiev sia durata così a lungo e apparentemente duri ancora.

Come mai non ci sia alcun ripensamento, nella Commissione UE e nel Parlamento europeo, sulla strategia di Zelensky e sull’efficacia del sostegno militare a Kiev. La prossima consegna di armi, scrive il «Financial Times», dovrebbe ammontare a 20 miliardi di dollari.

Non è solo Conte a dire che Trump e i suoi ministri smascherano un’illusione costata centinaia di migliaia di morti ucraini oltre che russi: l’illusione che Kiev potesse vincere la guerra, e che per vincerla bastasse bloccare ogni negoziato con Putin e addirittura vietarlo, come decretato da Zelensky il 4 ottobre 2022, otto mesi dopo l’invasione russa e sette dopo un accordo russo-ucraino silurato da Londra e Washington.

Smascherando illusioni e propaganda, Trump prende atto dell’unica cosa che conta: non la politica del più forte, come affermano tanti commentatori, ma la realtà ineluttabile dei rapporti di forza. Realtà dolorosa, ma meno dolorosa di una guerra che protraendosi metterebbe fine all’Ucraina. Trump agisce senza cultura diplomatica e alla stregua di un affarista senza scrupoli: come già a Gaza dove si è atteggiato a immobiliarista che spopola terre non sue immaginando di costruire alberghi sopra le ossa dei Palestinesi, oggi specula sulle rovine ucraine e reclama minerali preziosi in cambio degli aiuti sborsati dagli Usa. Ma al tempo stesso dice quel che nessuno osa neanche sussurrare: Mosca ha vinto questa guerra, e Kiev l’ha perduta. La resistenza ucraina non è vittoriosa perché l’Occidente pur spendendo miliardi non voleva che lo fosse.

Fingere che la realtà sia diversa, che non sia grottesco l’ennesimo pellegrinaggio di Ursula von der Leyen a Kiev, in sostegno di Zelensky, è pensiero magico allo stato puro, invenzione di ologrammi paralleli. I vertici dell’Ue fingono di rappresentare l’intera Unione e giungono sino a reinserire nella propria cabina di comando la Gran Bretagna che dall’Unione pareva uscita.

Riconoscere la sconfitta di Kiev e Zelensky non è sacrificare l’Ucraina. Trump sacrifica il patto bellicoso con Zelensky – nella tradizione statunitense molla spudoratamente l’alleato – ma salva quel che resta dello Stato ucraino prima che cessi di esistere del tutto (i Russi hanno riconquistato il 20, non il 100% del Paese).

Così come stanno le cose militarmente, l’indignazione dei principali governi europei contro la tregua di Trump non implica la pace giusta, ma l’estinzione dell’Ucraina. Questa è la verità dei fatti tenuta nascosta durante la presidenza Biden: una bolla che Trump ha bucato con inaudita violenza verbale. Non si capisce come mai l’establishment giornalistico e politico in Europa parli di valori occidentali violati, di resistenza ucraina tradita, di Occidente sotto ricatto e attacco russo. L’Europa si è sfasciata, la Germania che va oggi al voto è il secondo grande perdente di questa guerra dopo l’Ucraina, e la bugia secondo cui Mosca può aggredire l’Europa se vince in Ucraina è irreale e antistorica.

A ciò si aggiunga che non sono i francesi, né i tedeschi, né gli italiani, né gli inglesi, a morire sul fronte. È un’intera generazione di ucraini che è perduta. Anche questo viene occultato: i giovani ucraini da tempo disertano in massa il campo di battaglia. Fuggono come possono. Il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko narra di giovani ripetutamente “bussificati”, spediti senza formazione a morire: il termine fa riferimento ai minibus che con violenza prelevano per strada i riluttanti. “Ogni mese si registrano casi di coscritti forzati che nelle stazioni di mobilitazione vengono picchiati a morte”. Sono soprattutto i poveri a disertare, subire violenze e morire: non hanno soldi per corrompere le autorità e strappare l’esonero dal servizio militare. “In dicembre, inchieste giornalistiche hanno rivelato torture sistematiche ed estorsioni nei ranghi dell’esercito” (Peter Korotaev e Volodymyr Ishchenko, “Why is Ukraine struggling to mobilise its citizens to fight?”, Al Jazeera 23.1.2025).

Non meno occultata, perché incompatibile col pensiero magico: la destra estrema ucraina, i neonazisti che dal 2014 ispirano la guerra di Kiev contro i separatisti del Donbass. Si parla molto di neonazisti putiniani a Ovest. Di quelli ucraini non si parla più, eppure Zelensky è diventato il loro prigioniero. Anche il suo predecessore Porošenko lo era, quando nel 2012 declassò per legge la lingua russa e boicottò gli accordi di Minsk che garantivano autonomia al Donbass e ai russofoni. Preferì la guerra civile fra il 2014 e il 2022, prima del massiccio intervento dell’esercito russo. Di questa guerra si parla poco. Fu cruenta (più di 14 mila morti) e andrebbe anch’essa condannata. Cosa diremmo se Parigi bombardasse i separatisti della Corsica?

Anche se non parla da statista, Trump ha in mente soluzioni sensate: ritornare alla promessa fatta a Gorbacëv di non allargare la Nato fino alle porte russe; riammettere Mosca nel Gruppo degli Otto (oggi Gruppo dei Sette) come era usanza alla fine della guerra fredda, prima che Obama facilitasse lo spodestamento di un governo ucraino troppo filorusso e Mosca reagisse riprendendosi la Crimea. Trump annuncia infine che europei e non europei potranno garantire militarmente l’Ucraina, ma senza gli Stati Uniti.

La Nato sopravviverà forse per qualche tempo, ma è un meccanismo spezzato. Quanto agli europei, mentono sapendo di mentire. Dicono che spenderanno molto più per la difesa, ma che per custodire la tregua invieranno truppe in Ucraina a condizione che si impegnino pure gli Stati Uniti, cosa rifiutata appunto da Trump. Non potranno inoltre riarmarsi senza tagliare lo stato sociale, e anche questo è un freno.

L’unica cosa che gli europei potrebbero fare, ma non fanno, è concepire una politica estera che ricominci da zero: cioè da quando è finita la guerra fredda, e Gorbacëv propose un sistema di sicurezza comune (la “Casa comune europea”). Forse è troppo tardi: tanto grande è il fossato che si è aperto tra Europa e Russia. Tanto forte è ancora l’ideologia neoconservatrice, che sembra spegnersi a Washington (non si sa per quanto tempo) ma persiste immutata nelle élite europee. È neocon il Presidente Mattarella, quando paragona Putin a Hitler nel momento in cui si negozia una tregua. Quando mai la Russia ha assaltato Germania, Francia, Italia, Inghilterra?

Particolarmente rattristanti sono i partiti come il Pd, che si dicono di sinistra. Oggi si ritrovano a destra di Trump, a difendere un’Europa fortino e a dimenticare la distensione di Willy Brandt negli anni 60 del secolo scorso. Al posto della Ostpolitik si piangono oggi nebbiosi valori occidentali, euroatlantici. Si auspicano negoziati, ma senza mai ammettere la sconfitta di Kiev e la necessaria sua neutralità. Forse nel pensiero magico Trump passerà presto.

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Trump e il riarmo Ue contro la Russia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 gennaio 2025

Ristabilire un ordine internazionale regolato, che eviti l’esplodere bellico dei nazionalismi, il ripetersi dei genocidi, il respingimento dei rifugiati, l’impunità della tortura: questo l’impegno che gli Stati europei e gli Stati Uniti presero dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio degli ebrei.

Nacque un reticolato di leggi internazionali (tra cui la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Corte internazionale di giustizia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli organismi erano emanazioni dell’Onu, cui era affidato il compito di scongiurare l’impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni dopo il 1914-18, con l’avvento del nazifascismo.

Nacque subito dopo anche l’Unione Europea, per riconciliare i due nemici secolari che erano Francia e Germania. L’idea di una federazione europea si rafforzò durante l’ultimo conflitto, nei primi anni Quaranta, quando ancora Hitler occupava mezzo continente. Fraternizzare con la Germania liberata e frenare le guerre divenne obiettivo primario della Comunità europea.

Ora questo reticolato di leggi è a pezzi: Israele può sterminare e affamare decine di migliaia di palestinesi; Meloni può restituire alla Libia un famigerato torturatore di migranti, Najeem Almasri. Rischioso arrestarlo come chiede la Corte Penale Internazionale, visto che Italia e Ue pagano la Libia perché i torturatori blocchino le partenze dei richiedenti asilo.

Da quando si è allargata ai Paesi dell’Est l’Unione Europea ha cessato di essere unione, e questo ben prima che il presidente Trump minacciasse le sue economie, incoraggiasse ogni sorta di nuovo nazionalismo etnico, denunciasse l’eccesso di regole Ue soprattutto in tema ambientale e sociale, e la mettesse davanti alla drammatica scelta: o vassallaggio completo o dazi; o spese militari europee che salgano al 5% del Pil o uscita degli Usa dalla Nato; e chissà quale altro flagello. Dopo quattro anni, il nazionalismo neoliberista che generò la Brexit s’estende e s’impone, sotto guida statunitense.

Trump e Musk si scagliano contro l’Europa unita per sfaldarla e favorire le sue destre estreme (neonazisti compresi), ma la loro offensiva rompe quel che era già rotto. Trump è uno dei sintomi della sua disgregazione, come è stata un sintomo di frantumazione l’ottusità mentale europea sulla guerra russo-ucraina.

L’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea ha reintrodotto nella costruzione comunitaria i tre veleni contro i quali una serie di Stati del continente si erano accomunati negli anni Cinquanta: l’intenso nazionalismo etnico; il disprezzo delle leggi internazionali; l’ostilità famelica, insaziabile, verso una Russia percepita accanitamente, a Est, come erede del dominio sovietico. L’edificio si è dislocato con l’adesione dei nazionalismi orientali anche perché l’Unione è un ibrido: in piccola parte è federale (Banca Centrale in primis), in gran parte è confederazione di Stati fintamente sovrani ma con diritto di veto, specie in politica estera e di difesa.

Questo spiega come mai, contrariamente a Trump che sembra volere una tregua in Ucraina, l’Europa insiste nel fornire armi a Kiev e nell’infliggere sanzioni a Mosca. Il congelamento alla coreana della guerra sarebbe la soluzione preferita di Washington ma Putin la respinge per motivi comprensibili (equivarrebbe a tener non congelato ma caldo il conflitto, nato per frenare ulteriori allargamenti della Nato a Est: le due Coree non hanno ancora stipulato un trattato di pace, a 71 anni dalla fine della guerra). Ma nemmeno il congelamento sembra accontentare gli Europei orientali, se si escludono i governi d’Ungheria e Slovacchia. Quel che cercano è un regolamento dei conti con la Russia, una sconfitta che sia per Mosca triste, solitaria e finale (da Osvaldo Soriano).

Tutte le istituzioni europee sono oggi egemonizzate dai Nordici appena entrati nella Nato e dagli Orientali (finlandesi, svedesi, polacchi e i tre Baltici). Lo confermano i fatti e i comportamenti. Subito dopo la fine dell’Urss, l’Unione negoziò l’allargamento fingendo d’ignorare la massima ingiustizia commessa negli Stati baltici: quella che colpì le forti minoranze russe (tra il 20 e il 30% delle popolazioni in Estonia e Lettonia, quasi il 10% in Lituania), che erano discriminate e penalizzate, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, esattamente come accadde in Ucraina dopo l’indipendenza. Le condizioni presentate da Bruxelles non menzionavano specificamente le minoranze russe. Il culmine è stato raggiunto dall’Unione il 24 dicembre scorso: il nuovo Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza è l’estone Kaja Kallas, nota in patria e fuori come esponente di una assodata linea russofobica. Non era meno bellicoso il predecessore Josep Borrell, ma Kallas è un’autentica provocazione lanciata da Bruxelles.

Detto questo, la differenza fra Trump e europei è in larga parte fittizia. In primo luogo, non risponde del tutto al vero che l’Ue voglia proseguire la guerra per procura in Ucraina mentre Trump sarebbe pronto ad ammettere la neutralità di Kiev e l’epocale sconfitta della Nato. Chiedere poi che gli europei della Nato alzino le spese militari fino al 5% del prodotto nazionale lordo vuol dire riarmare il vecchio continente e trasformare la Nato in un formidabile dispositivo di guerra: si giustifica solo se la Russia continua a rappresentare un nemico esistenziale degli Stati occidentali.

Andrebbe sfatato, dunque, il luogo comune che dipinge Trump come clandestinamente pacifico e l’Europa come guerrafondaia. Sono guerrafondai tutti e due, fino a prova del contrario. L’America del Nord non abbandona per ora l’aspirazione al predominio unilaterale del mondo, che ha caratterizzato le sue politiche da quando si è compiaciuta nel ruolo di vincitrice della Guerra fredda.

Passiamo infine alla minaccia di Trump di lasciare la Nato, che tanto impaurisce i governi europei di destra e sinistra, le istituzioni Ue, e soprattutto il fantasma residuale della Guerra fredda che è il Parlamento europeo. In realtà sarebbe una manna per i cittadini europei, se l’Alleanza atlantica finalmente si sciogliesse. Non ha più senso e ha costi proibitivi, dopo lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia che legava militarmente l’Europa orientale a Mosca. Lo stesso Stoltenberg, ex segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha ammesso nel settembre 2023 che l’invasione russa non era immotivata: a provocarla non era stato l’espansionismo russo ma la promessa occidentale di accogliere Ucraina e Georgia nella Nato. Da quindici anni Mosca ripeteva che non avrebbe tollerato la presenza militare dell’Alleanza lungo i propri confini.

L’abbandono Usa della Nato sarebbe un evento frastornante ma lascerebbe libera l’Europa di determinare il proprio destino. Potrebbe scegliere la bellicosità della Kallas. Ma potrebbe anche sperimentare un comune sistema di sicurezza con la Russia, resuscitando la “Casa Comune Europea” proposta da Gorbacëv nel luglio 1989. A questo punto l’Europa diverrebbe sì una potenza: ma pacifica, capace di finanziare il proprio Stato sociale. È quello che le amministrazioni Usa, Trump compreso, temono di più.

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Le due facce di Trump in Ucraina e a Gaza

di domenica, Novembre 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 novembre 2024

È probabile che Trump Presidente non voglia iniziare nuove guerre, e che quelle cominciate voglia finirle. Almeno così dice. Allo stesso tempo non vorrebbe entrare nella storia come perdente: cosa accaduta a Biden quando lasciò l’Afghanistan dopo gli accordi che il predecessore stipulò con i Talebani. Trump lasciò a Biden il lavoro caotico della ritirata.

Lo stesso si può dire per la guerra russa in Ucraina che Biden e l’inglese Boris Johnson hanno voluto durasse fino ad oggi – anziché concluderla con un trattato già pronto poche settimane dopo l’invasione – e che è ancora una guerra indiretta Stati Uniti-Russia. Trump vorrebbe finirla o almeno congelarla perché attribuisce una razionalità alla potenza russa e perché ritiene che gli Stati Uniti abbiano fornito troppi miliardi e armi a Zelensky.

L’ingresso di Kiev nella Nato lo considera un impaccio, visto che l’Alleanza comunque lo infastidisce, specie se entra in gioco il famoso articolo 5: Trump vuole intervenire quando e dove e per i motivi che decide lui. Non lascerà decidere a una tecnocrazia (Nato o Onu che sia) quel che è legale o non lo è. Quand’era Presidente, Trump ha sanzionato la Russia e super-armato l’Ucraina. Potrebbe ora auspicare la sua neutralità, ma non è detto. L’isolazionismo con gli alti dazi è sicuro in economia. Il resto è imprevedibile.

Lo scenario muta radicalmente, per il momento, quando dall’Ucraina si passa a Israele. Anche qui Trump vuole che le guerre finiscano, per via dello spazio che occupano nei media e nelle università. Ma intende adoperarsi perché Netanyahu raggiunga quel che si è prefisso: una guerra di riconquista delle terre bibliche, una Grande Israele senza più palestinesi se non schiavizzati.
Questo intende il nuovo Presidente quando invita Netanyahu a “finire la bisogna” (finish the job) sia in Palestina (Gaza e Cisgiordania), sia in Libano, sia soprattutto contro Iran e alleati in Yemen, Iraq, Siria. Nei mesi scorsi ha criticato Biden per aver “troppo frenato Netanyahu” (in realtà il freno era finto) e per questo il Premier israeliano ha glorificato la vittoria di Trump, cui sono andate le sovvenzioni più copiose delle lobby israeliane in Usa. Riassumendo: mentre lo Stato israeliano sta inghiottendo impunemente l’intera Palestina, Trump vuole accattivarsi gli Stati petroliferi sunniti e abbattere il secolare nemico iraniano e i suoi seguaci in Medio Oriente.

Qui conviene fare un salto indietro nel tempo, se si vuol capire la genesi delle due guerre in Ucraina e Medio Oriente. In ambedue i casi siamo alle prese con potenze nucleari (Usa, Russia, Israele dotata di oltre 100 testate) e sia Trump sia il consigliere Elon Musk rispettano solo gli Stati atomici detti “santuari”.
Secondo molti studiosi statunitensi, come Branko Marcetic, Michael Galant o Mehdi Hasan di origine araba, l’eccidio del 7 ottobre 2023 – quando Hamas abbatté la recinzione di Gaza e uccise in Israele 1.139 persone (di cui 695 civili) catturandone circa 250 – non è affatto un’ora zero della storia, un secondo genocidio che annulla gli anni in cui gli indigeni arabi furono scacciati o soggiogati, ma è la conseguenza, atroce e forse non più evitabile, di oltre mezzo secolo di umiliazioni ed espulsioni anti-palestinesi, accentuate in particolare dalla prima presidenza Trump.

Fu Trump nel 2018 a smettere le sovvenzioni Usa all’Agenzia Onu per l’assistenza dei rifugiati palestinesi UNWRA, su spinta di Netanyahu. Nello stesso anno uscì dall’accordo sul nucleare con l’Iran, aumentò gli assassinii con i droni (del generale iraniano Qasem Soleimani e dell’iracheno al-Muhandis nel 2020) e intensificò il contributo, iniziato da Obama, alla guerra saudita in Yemen. Fu il suo ministro degli Esteri Pompeo a giudicare “perfettamente in linea col diritto internazionale” le colonie in Cisgiordania, nel 2019, e fu ancora Trump, sempre nel 2019, a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan ai confini con la Siria, suscitando l’ira degli abitanti drusi. Una delle colonie porta il nome di “Trump Heights”.
Infine, fu lui a spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto la sovranità israeliana sull’intera città, compresa Gerusalemme Est occupata. Fu lui ad architettare gli accordi di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrein nel 2020. Obiettivo: il depotenziamento dell’Iran e della questione palestinese, e l’estensione della sovranità israeliana sul 30% della Cisgiordania.

È a partire dalla prima presidenza Trump che i Palestinesi, scoraggiati come mai, rappresentati ormai efficacemente solo da Hamas e Jihad, sono stati sopraffatti da collera e disperazione, smettendo di credere nella soluzione dei due Stati che l’Occidente infruttuosamente continua a declamare. Si è così giunti al culmine efferato della protesta: l’evasione dal recinto di Gaza e l’assalto del 7 ottobre, simile per alcuni versi alla nemesi dell’11 settembre 2001 o all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022: invasione che ha alle spalle anch’essa una storia lunga, visto che dal 2008 Mosca ha ripetutamente definito un pericolo esistenziale l’allargamento Nato a Ucraina e Georgia, ai propri confini.
Ma se Trump ha avuto più voti musulmani di Kamala Harris, se molti voti arabi sono andati all’ecologista Jill Stein, che denuncia la “colonizzazione e il genocidio dei Palestinesi”, è perché il cosiddetto campo progressista è vuoto. L’enorme errore di Kamala Harris, dopo quasi tre anni di guerra per procura in Ucraina e dopo uno sterminio già in parte compiuto a Gaza e ora in Libano, è stato di restare aggrappata alla presidenza Biden, senza accennare la minima rottura (“non c’è una sola politica di Biden che io disapprovi”), e di spostare a destra il proprio partito, vietando ai protestatari filopalestinesi di prender la parola alla Convenzione democratica e blandendo i responsabili di aggressioni e torture in Afghanistan e Iraq (famiglia Cheney).

Lo studioso Norman Solomon paragona Harris a Hubert Humphrey, vicepresidente di Lyndon Johnson, che quando si candidò alla Casa Bianca nel 1968 non ebbe il fegato di staccarsi da Johnson e dalla sua guerra in Vietnam. Perse rovinosamente contro Nixon.
Così Kamala Harris. Pensava di vincere demonizzando Trump e difendendo i diritti delle donne all’aborto, e la maggioranza delle donne bianche ha scelto Trump: l’economia era per loro prioritaria. Pensava di convincere gli ispanici: se li è presi Trump. Inoltre per colpa di Biden aveva poco tempo: poco più di tre mesi di campagna.
Ora i giornali dominanti se la prendono con Harris. L’accusano di aderire alla cultura woke, custode delle minoranze e della loro inclusione. Si ripropone l’annosa polemica delle destre contro il ’68. Forse in passato Harris difese le minoranze – in patria e fuori – proprio come le aveva difese Humphrey. Ma il potere e i soldi dei donatori l’hanno prima stravolta, poi affossata. L’hanno talmente accecata che in agosto definì se stessa e il vice Tim Walz due invincibili “guerrieri gioiosi” (joyful warriors).

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Ipocrisie europee su migranti e Trump

di giovedì, Febbraio 2, 2017 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 1 febbraio 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda: Gestione della migrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale

Dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Presenti al dibattito:

Federica Mogherini – Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli

L’accordo con la Turchia non cessa di essere criticato, ed ecco che se ne profila uno con la Libia, ancora più inquietante. Mi domando quale sia il senso delle proteste di tanti governi europei contro Trump, quando essi stessi predispongono operazioni legalmente discutibili, e ignorano le raccomandazioni molto chiare espresse dal Commissariato Onu dei diritti umani, secondo cui i rimpatri in Libia non vanno fatti – e neanche gli sbarchi in Libia in azioni di Search & Rescue –  perché i fuggitivi corrono rischi gravi: torture in campi di detenzione, violenze contro le donne, anche esecuzioni. Sappiamo dall’Onu che il pericolo non sono gli smugglers. Sono i trafficanti, le milizie incontrollate, e funzionari pubblici di uno Stato fatiscente.

Al Consiglio vorrei chiedere che desista da accordi pericolosi, venerdì al vertice di La Valletta. Lo chiedo specialmente all’Italia, Paese avanguardia in quest’operazione: ricordo al mio paese i suoi trascorsi coloniali in Libia. Alla Commissione chiedo di uscire dalle doppiezze. Non si può al tempo stesso giudicare non replicabile l’accordo con la Turchia, dire che la prima preoccupazione è “salvare le vite”, e progettare l’addestramento e il finanziamento delle guardie costiere libiche, e il loro coordinamento con le nostre guardie di frontiera, perché i profughi non raggiungano più l’Europa.