Il veleno che minaccia il Recovery Plan

di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 27 novembre 2020

 

Quando approvarono il Piano di ripresa Covid, il 21 luglio, i leader del Consiglio europeo dovettero transigere sulla questione stato di diritto, per poter ottenere l’accordo unanime dei 27 Stati membri. Polonia e Ungheria respingevano ogni condizionalità legata al rispetto della rule of law, e il comunicato finale ne tenne conto.

Esso si limita a ricordare che “gli interessi finanziari dell’Unione sono tutelati in conformità dei principi generali sanciti dai trattati dell’Unione, in particolare i valori di cui all’articolo 2 dei Trattati. Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza della tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Il Consiglio sottolinea l’importanza del rispetto dello Stato di diritto” (l’articolo 2 contiene raccomandazioni su democrazia e stato di diritto).

Il compromesso tuttavia è sgradito a una serie di Stati (i “frugali” in prima linea) che vogliono condizionare in vari modi i fondi iscritti nel bilancio UE, compreso il Piano Covid da loro avversato sin da principio. È il motivo per cui i governi di Polonia, Ungheria e Slovenia hanno opposto il veto: niente bilancio pluriannuale e piano Covid, se la condizionalità non viene ritirata o magari mitigata. Anche il Parlamento europeo rifiuta compromessi, avendo recentemente votato in favore di condizionalità forti sul rispetto della rule of law: sono in gioco – dicono i deputati – principi dell’Unione come la separazione dei poteri, il pluralismo, la libera espressione.

Queste preoccupazioni sono più che legittime, se consideriamo la degenerazione democratica in Polonia e Ungheria. Ma l’intera controversia è profondamente viziata e insidiosa, se esaminata alla luce di una pandemia che sta mettendo in ginocchio il continente con una distruttività mai vista in tempi di pace. Il dibattito attorno allo stato di diritto è condotto come se non vivessimo tempi di peste, come se l’Unione non avesse alcun tipo di strumento per ottenere il rispetto della rule of law (l’articolo 7 dei Trattati prevede la sospensione dei diritti di voto del singolo Stato in caso di chiare e persistenti violazioni) e come se in colpa fossero solo i Paesi dell’Est. Verrà certo il momento in cui occorrerà superare gli ostacoli che rendono inutilizzabile l’articolo 7, l’ostacolo principe essendo la regola dell’unanimità. Sono anni ormai che Parlamento e Commissione cercano vie alternative. Ma il momento non è questo, a meno che non si voglia affossare il Recovery Plan usando la democrazia come pretesto.

A ciò si aggiunga che condizionalità e sanzioni suscitano risentimenti crescenti negli Stati membri, dopo le politiche di austerità imposte dall’alto della troika a una Grecia umiliata e devastata. È inevitabile che il risentimento risorga ancora più intenso in pieno tifone Covid. Se davvero siamo in emergenza, sia sanitaria sia economico-sociale, non si possono ostinatamente rispolverare metodi punitivi che hanno già più volte lacerato l’Unione.

Prima ancora che esplodesse la pandemia, l’ex presidente della Commissione Juncker – tra i primi responsabili dei piani di austerità – fu esplicito nel condannare questa coazione a ripetere gli errori fatti con Atene. Il 1° gennaio 2017 commentò così i piani tedeschi – e poi franco-tedeschi – di condizionamento sullo stato di diritto: “Sono dell’opinione che non dovremmo vararli”. Aggiunse che le minacce non sono un buon metodo per imporre la disciplina finanziaria o il rispetto dello stato di diritto: “Credo che non sarebbe una buona cosa dividere l’Unione in questo modo: sarebbe veleno per il continente”.

Sono veleno entrambi: i veti come le minacce di sottrazione di fondi. In primo luogo perché a patirne sarebbero popolazioni dell’Unione molto bisognose di aiuti europei, anche se governate dispoticamente. In secondo luogo, la lotta sui “valori” è discriminatoria. Nel discutere e proporre nuovi meccanismi sulla rule of law, l’Unione e il suo Parlamento sono altamente selettivi. Le condanne più severe riguardano i paesi dell’Est, non senza ragione, ma quelli dell’Ovest, specie se “fondatori”, restano intoccabili al massimo grado. Il governo spagnolo di Mariano Rajoy violò manifestamente lo stato di diritto, impiegando violenze sproporzionate contro gli indipendentisti catalani e imprigionando i suoi leader.

Non meno pesante la situazione in Francia. È di questi giorni l’approvazione di una legge di “sicurezza globale” che vieta di fotografare o filmare l’uso di violenza poliziesca eccessiva nelle manifestazioni. È un autentico bavaglio imposto ai fotoreporter che negli ultimi due anni – durante i tumulti dei Gilet gialli – hanno rivelato lesioni del diritto e violenze sproporzionate inflitte da armi semi-letali tra cui i proiettili di gomma LBD 40 (migliaia di feriti, 25 accecati, 5 vittime di mutilazione della mano). A settembre è uscito il documentario del giornalista che ha puntigliosamente raccolto testimonianze sulle violenze, David Dufresne. Il film s’intitola Un pays qui se tient sage – Un paese che si comporta bene. Nel 95% dei casi, i video recuperati da Dufresne sono diffusi in rete da anonimi provvisti di cellulare.

L’articolo 24 della nuova legge sulla sicurezza vieta proprio queste immagini, specie se disseminate da reporter non accreditati (la rete è considerata nemico numero uno). Simili violenze sono state condannate dall’Onu. È condannabile anche la brutalità con cui lunedì è stato sgomberato un accampamento di migranti a Place de la République, a Parigi. Né si può dimenticare che l’Unione intera è responsabile di violazione del diritto internazionale per le migliaia di rifugiati lasciati morire in mare.

Il Recovery Plan e la decisione di indebitarsi collettivamente e non più come singolo Stato rappresentano un prezioso progresso, facilitato dall’insistenza di Italia e Spagna. I vecchi meccanismi intergovernativi d’assistenza, come il Mes non del tutto emendato, sono superati da un’iniziativa che non vede più contrapposti creditori con la frusta in mano e debitori che si ritrovano, sempre più impoveriti, sul banco degli imputati.

Naturalmente è grave che permanga lo scoglio dell’unanimità (compresa l’unanimità dei 27 Parlamenti sul Piano Covid). L’Unione resta la costruzione imperfetta che è, senza strategie di ricambio. Ma come nel racconto di Conrad, quando sei assalito dal Tifone non c’è tempo per discettare sulle migliori “strategie della tempesta”. Ti piove addosso il cielo, e unico compito del comandante della nave è portare in salvo, se può e come può, equipaggio e passeggeri.

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L’islamofobia e la laicità sfigurata

di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 6 novembre 2020

 

In principio i francesi li chiamavano arabi, appellativo che assume connotazioni peggiorative alla fine degli anni 70, producendo ingiurie come bicot o bougnoule. Poi gli arabi diventano islamici, o peggio islamo-fascisti se non prendono le debite distanze pubbliche dagli atti terroristici compiuti in nome di Allah.

Dopo l’11 settembre il secondo epiteto si diffonde. Il giornalista Thomas Deltombe critica nei primi anni 80 l’“islamizzazione degli sguardi”. Sono gli anni in cui si discute l’interdizione del velo indossato dalle donne musulmane negli spazi pubblici. Alcuni interpretano la proibizione come il divieto di nascondere il proprio volto ovunque, mentre la legge si applica solo nelle istituzioni pubbliche: “Il cittadino ha il diritto di credere o non credere, e può manifestare all’esterno tale credenza o non-credenza, nel rispetto dell’ordine pubblico”, così scrive Nicolas Cadène, membro dell’Osservatorio della Laicità, in un ottimo manuale uscito in ottobre con la prefazione di Jean-Louis Bianco, presidente dell’istituto governativo (En finir avec les idées fausses sur la laïcité – Farla finita con le idee false sulla laicità). Molti chiedono subito l’espulsione dall’Osservatorio dei due autori. Fortunatamente il Presidente Macron non cede.

Sulla rivista «Regard», Aude Lorriaux ricorda la definizione dell’ebraismo che Sartre diede nel 1944: “È l’antisemita che crea l’Ebreo”. Definizione riduttiva e giustamente controversa, che però fu adattata all’Islam dalla scrittrice Karim Miské nel 2004: “È l’islamofobo che crea il musulmano” (è discutibile anche questa variazione: l’islamofobo semmai “crea” l’Islam radicale).

Grosso modo è questa la storia che precede gli attentati delle ultime settimane, e le dispute su Islam e laicità ricominciate in Francia. Più ancora che in passato, gli argomenti islamofobi escono dai territori di estrema destra e diventano linguaggio non sempre esplicito ma dominante. Macron scongiura le derive, ma è pur sempre lui ad aver denunciato il “separatismo” che affligge la vasta comunità musulmana (4,7 milioni). A Nizza promette sostegno ai cristiani martoriati ma non ai musulmani che col terrorismo non hanno nulla a che fare.

Il ministro dell’Educazione Blanquer accusa di complicità con il terrorismo chiunque difenda nelle accademie l’“intersezionalità”, termine coniato dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali o religiose. Il ministro dell’Interno Darmanin ordina la chiusura della moschea di Pantin presso Parigi (aveva diffuso un video sulla vicenda Paty) e di due associazioni che lottano contro l’islamofobia, dichiarandosi nel frattempo “scioccato per la presenza nei supermercati di reparti halal e casher”. Nel mirino del ministro: i deputati “islamo-gauchisti” di France Insoumise, il partito di Mélenchon. La laicità viene sfigurata, trasformata in uno strumento di guerra anziché di convivenza con comunità gelose della loro autonomia, nel rispetto dell’ordine pubblico.

Tranne alcune eccezioni, anche in Italia lo sguardo si islamizza e la laicità è presentata come valore supremo, refrattario a compromessi (“Ogni compromesso è compromissione”, twitta Darmanin, mentre nel suo manuale Cadène afferma che la laicità “non è affatto un valore ma un metodo”). Alcuni scrivono che le religioni sono “categorie del passato”. Sono citati Cristianesimo e Islam (non l’Ebraismo, protetto da salutare tabù). L’eccezione ebraica rende ancora più offensiva la designazione di Cristianesimo e Islam come “categorie”. Chi ci dà il diritto di fissare la data di scadenza delle religioni, quasi fossero etichettabili cibi in scatola?

Un post di Carlo Rovelli, filosofo della scienza, accende la miccia in Italia due giorni dopo la feroce decapitazione del maestro Samuel Paty a Conflans-Sainte-Honorine. Per spiegare cosa sia la libertà d’espressione, Paty aveva mostrato in classe una vignetta di «Charlie Hebdo» – la più brutta, quella che illustra il Profeta nudo, inginocchiato e col sedere scoperto. Non è ancora chiaro cosa abbia detto agli alunni musulmani: se veramente li abbia invitati a girare la testa o andarsene, qualora si sentissero offesi. Se così stanno le cose Paty resta vittima di un’efferatezza allo stato puro, ma la sua lezione di educazione civica non era ben fatta.

È quello che sostiene Rovelli, ragionando così: “Non penso che debbano esserci leggi che vietano di pubblicare questo o quello. Ma penso che offendere, e poi – dopo essersi resi conto che offendere ferisce delle persone –, continuare ancora a offendere non sia un comportamento né apprezzabile, né ragionevole. Dobbiamo vivere insieme su questo pianeta. Non possiamo farlo rispettandoci? Non costa proprio niente evitare di offendere i musulmani pubblicando immagini offensive di Maometto. E, diciamoci la verità: le avete viste? sono davvero offensive. Crediamo forse di essere più democratici, più paladini della libertà, offendendoci a vicenda? Offendendoci, non facciamo che alimentare la violenza, dividerci in gruppi in conflitto, mostrare il grugno duro ‘io non mi faccio spaventare da voi anche se mi uccidete!’, ‘io sono più duro di te’”.

Non solo alimentiamo la violenza. Alimentiamo quello che Macron vuol scongiurare: il separatismo di intere comunità. E questo in tempi di lockdown sanitari, quando la popolazione è chiamata a unirsi contro ogni secessionismo negatore del Covid. Quando è consigliabile facilitare i compromessi con tutte le comunità religiose, anche le fondamentaliste, se queste ultime rispettano la legge e l’ordine pubblico.

L’islamofobia più o meno latente si dichiara favorevole a una laicità che scambia per secolarismo o intiepidirsi delle religioni, e minimizza le virtù del compromesso. Il sociologo François Héran, uno dei massimi esperti di migrazione nel Collège de France, ricorda opportunamente come compromesso e compromissione non siano mai sinonimi. Cita il filosofo Paul Ricoeur: “Il compromesso non è un’idea debole, ma al contrario estremamente forte. Nel compromesso ognuno resta al suo posto, e nessuno è privato del proprio ordine di giustificazione”. La laicità francese è una grande conquista, ma rischia il fallimento quando se ne fa abuso.

Se nelle scuole si discutesse di libertà di espressione senza ripetutamente mostrare le vignette di «Charlie Hebdo», e si spiegasse quel che essa significa con le parole – evocando ad esempio la storia delle caricature politico-religiose in Francia come suggerito da Héran – avremmo fatto un importante passo avanti verso compromessi che non dividono le nazioni oltre misura.

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