Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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Perché bluffano sulla pace ucraina

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 dicembre 2022

È abbastanza incomprensibile, perché illogica, l’euforia sprigionata per qualche ora, mercoledì, dai colloqui Biden-Macron a Washington.

Si è parlato di mano tesa a Putin; di una conferenza di pace imminente, fissata per il 13 dicembre a Parigi e destinata in origine al sostegno di Kiev. Si è ipotizzato un allineamento di Biden a Macron, più incline alla diplomazia e portavoce anche se timido dei malumori popolari in un’Europa che paga gli effetti economico-sociali della guerra ben più degli Stati Uniti. Perfino nel governo italiano, che di trattative non discute mai – né con Draghi né con Meloni – si comincia a sussurrare, per tema di figurare come Ultimo Mohicano, che pace o tregua sarebbero auspicabili.

Basta ricordare alcune circostanze per capire che si è trattato, almeno per ora, di un fenomenale bluff. Da mesi esistono sotterranee trattative russo-statunitensi, ed è vero che le guerre si concludono spesso con una finale escalation, come in Vietnam. Ma resta il fatto che nelle stesse ore in cui Macron incontrava Biden, Washington annunciava nuovi invii di armi e ripeteva che Mosca dovrà rispondere di crimini di guerra in tribunali internazionali. La stessa cosa diceva Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, mentre il Parlamento europeo accusava Mosca, il 6 ottobre, di “sponsorizzare il terrorismo” (unici italiani contrari i 5 Stelle e tre eurodeputati Pd). Intanto Roma e Berlino approvavano nuovi invii di armi a Kiev: 50 carri antiaerei Gepard la Germania, dell’Italia non sappiamo perché vige scandalosamente il segreto.

Ma soprattutto un dato avrebbe dovuto mitigare l’inappropriata euforia. Appena due giorni prima del viaggio di Macron, il 29 novembre, i ministri degli esteri Nato riuniti a Bucarest avevano emesso un comunicato in cui si “riaffermano le decisioni prese nel 2008 a Bucarest, insieme a tutte le susseguenti decisioni concernenti Georgia e Ucraina” (“Porte Aperte” Nato ai due paesi). Il 25 novembre, il segretario generale della Nato Stoltenberg giudicava “irricevibile il veto russo” sugli allargamenti. Non sono stati sufficienti quindici anni di messe in guardia del Cremlino, più otto anni di conflitto in Donbass, più quasi nove mesi di guerra micidiale in Ucraina, per aprire un po’ le menti di Washington, della Nato, dell’Europa. Per capire che almeno quest’ostacolo a un ordine pacifico paneuropeo andava imperativamente rimosso.

Incomprensibile e illogico è appunto questo: l’illusione, la cocciuta coazione a ripetere che spinge il fronte occidentale a infrangere sistematicamente, con qualche effimero ravvedimento, quella che Putin ha definito invalicabile linea rossa sin dalla Conferenza sulla sicurezza del 2007 a Monaco. Nel vertice Nato di novembre tutti hanno sottoscritto il comunicato, Parigi compresa: dov’è il disallineamento di Macron?

Non meno illogica è la volontà Usa – dunque atlantica, dunque europea – di lasciare che sia Kiev a decidere l’ora del negoziato. Difficile “parlare con Putin”, se lo ritieni uno sponsor del terrorismo e se lasci che a decidere sia Zelensky, che oggi non può più fare marcia indietro senza perdere la faccia e forse la vita. Quanto al processo contro Mosca, l’accusa di violazione del diritto internazionale è giustificata ma a formularla non possono essere Washington o la Nato o alcuni Stati europei, colpevoli di ben più numerose violazioni in una lunghissima serie di guerre, da quella di Corea a quelle in Afghanistan, Iraq, Libia.

Gli Stati Uniti non hanno aderito alla Corte Penale, assieme a Russia e Cina oltre a Israele e Sudan. Washington ha auspicato l’intervento della Corte per Belgrado e Libia, e si è scatenata contro la domanda palestinese di processare l’apartheid israeliano nei territori occupati. Ma gli Stati Uniti, che hanno centinaia di basi militari sulla terra, vanno schermati da qualsiasi incriminazione. È il privilegio di una potenza il cui solo scopo è il mantenimento dell’ordine unipolare (detto anche “ordine basato sulle regole”, tutte nordamericane) che Washington ha riservato a sé stessa dopo la prima guerra fredda. L’Italia ne sa qualcosa, dopo la strage del Cermis nel 1998. Nell’ordine unipolare c’è un unico padrone e il padrone non si processa. Nemmeno il dissenso di giornalisti investigatori è ammesso: Julian Assange ha rivelato crimini commessi da Stati Uniti e alleati in Afghanistan e Iraq, e il giorno in cui sarà estradato negli Usa rischia una pena di 175 anni.

La verità è che c’è del metodo, nella marcata volontà d’ignorare le linee rosse indicate da Mosca. Non è per patologica cocciutaggine che si nega al Cremlino il diritto a spazi pacifici e neutrali ai suoi confini ma perché si ritiene che tali spazi appartengono alla sfera d’interesse Nato, quasi che Ucraina, Georgia o Moldavia fossero paragonabili a Cuba, immerse nell’Atlantico. Per questo la guerra ha da esser lunga e per procura, in modo da sfibrare la Russia in vista dello scontro giudicato prioritario: quello con la Cina. Con un alleato russo sfibrato, Pechino sarà meno forte.

Il problema è che a patirne è l’Ucraina. Il paese sta morendo sotto i nostri occhi, ridotto a un moncone privato dei territori più produttivi a Sud-Est, e a noi sta evidentemente bene così. Sta morendo perché l’invasore ha violato la sua sovranità ma anche a causa di un nazionalismo che Bush senior denunciò fin dal 1991 a Kiev, commentando la fine dell’Urss e l’indipendenza ucraina: “Non appoggeremo chi aspira all’indipendenza per sostituire una remota tirannia con un dispotismo locale. Non aiuteremo chi promuove un nazionalismo suicida fondato sull’odio razziale” (sia detto per inciso: anche la Lettonia che è nell’UE attua politiche segregazioniste verso il 48% dei cittadini, che sono di etnia russa). La guerra di Kiev e delle milizie naziste contro i russofoni del Donbass, iniziata nel 2014, convalida i timori di Bush sr, oggi dimenticato. L’inverno senza elettricità sarà atroce per gli ucraini, e noi guardiamo rapiti l’eroe che stramazza.

Chi esce spezzato dalla tragedia è l’UE: impoverita dalle sanzioni a Mosca, egemonizzata da un Est che ancora regola i conti (Ungheria esclusa) con l’ex Urss. Ursula von der Leyen ama indossare completini colorati di ucraino giallo-blu, sbaglia il numero dei morti ucraini, reclama sempre più sanzioni. Macron prova a differenziarsi ma è debole in patria e nell’UE.

Il governo italiano è allineato a Washington fin dai tempi di Draghi, manda armi ma non ha peso, affetto com’è da afonia. È ancora più afono con Meloni, perché ogni discordanza dalla Nato è fatale per l’estrema destra. Aveva un’occasione con Draghi, visto il prestigio. L’ha persa.

E forse nell’UE siamo uno Stato tra i più torbidi: perché l’unico a chiedere trattative, trasparenza, dibattiti parlamentari chiarificatori su guerra e pace è Giuseppe Conte, leader di un partito cronicamente etichettato come filorusso e filocinese e che tutti – a destra, al centro, nell’ex sinistra, nei media dominanti – desiderano delegittimare, senza riuscirci.

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Meloni, l’album di famiglia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 ottobre 2022

Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri dello Stato e parte dei poteri forti.

L’ex magistrato ha ricordato le trame nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco.

Si può capire l’ira di Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto, con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda, il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta – parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?). “Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte.

Intanto il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili: crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda.

Non che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi: fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (Sapevatelo su Rieducational Channel!) che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc. Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato: ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina.

Come neoliberista/illiberale, infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. (…) Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe con collo più alto.

La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano Ritorno della Politica e Meritocrazia.

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Le armi spuntate contro Meloni

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 agosto 2022

Niente luna di miele per Giorgia Meloni, se diverrà presidente del Consiglio: neanche se le destre otterranno una maggioranza parlamentare di due terzi e potranno cambiare la Costituzione senza dover ricorrere a referendum.

Basta attenersi al principio di realtà: il successo previsto dai sondaggi non sarà per nulla invidiabile, gli sforzi cui i vincitori si dovranno sottoporre saranno immensi, e la candidata n. 1 delle destre sembra esserne consapevole. Dell’economia italiana parla senza ottimismi. Gli esperti del suo campo – da Giulio Tremonti a Guido Crosetto – ripetono che il futuro sarà durissimo, in sintonia con l’Authority per l’Energia che pronostica per l’autunno il raddoppio delle bollette già oggi triplicate e un “rischio di tenuta del sistema elettrico”. Crosetto chiede un “patto con le opposizioni” per fronteggiare “momenti di difficoltà spaventosa” e conflitti sociali prossimi a guerre civili. A malapena Meloni tiene a freno Lega e Forza Italia, che promettono tagli inauditi alle tasse e Natale tutti i giorni.

A ciò si aggiunga la diffidenza con cui Meloni sarà osservata – meglio dire: sorvegliata – nell’Unione europea, nella Nato e in patria. Si sa che son sorveglianze umilianti: la Grecia le ha subite per 12 anni e ne esce impoverita e meno sovrana. Anche di questo la leader di Fratelli d’Italia è forse cosciente, visto che sulla guerra in Ucraina si è subito schierata a fianco della Nato, condividendo l’escalation verbale e militare di Biden. Ogni giorno le viene rinfacciata la vicinanza a Orbán, ma quest’ultimo ha scelto una neutralità sulla Russia che l’Italia non si permette più dagli anni di Moro e Andreotti, come dimostrato dal vistoso atlantismo di Draghi. L’Ungheria ha 9,7 milioni di abitanti e pesa infinitamente meno di un’Italia proiettata nel Mediterraneo dei conflitti permanenti.

Queste considerazioni sono assenti nella campagna condotta da chi avversa le destre, specialmente nel partito corposo di Enrico Letta oltre che nel quarto polo di Calenda e Renzi (chiamato terzo perché il M5S, essendo stato scomunicato, è escluso e anzi dato per morto). L’argomento principale dell’ex sinistra centrista è la contiguità di Fratelli d’Italia con il neofascismo, con la Fiamma nel simbolo: improbabile che Meloni perda per questo i voti operai tolti alla sinistra. Le rimproverano anche l’opposizione a Draghi, fingendo di non sapere che sono stati i metodi centralizzatori e le politiche di Palazzo Chigi a gonfiare, come in Francia, le vele della destra estrema.

Meloni è anche sospettata di puntare sull’immagine femminile senza essere femminista: un’accusa grottesca (le conservatrici femministe son rare), e non di rado fuori luogo. Meloni ha detto per esempio che la legge sull’aborto va pienamente rispettata, ma che va meglio applicata “la prima parte della legge, relativa alla prevenzione, per dare alle donne che lo volessero una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell’aborto”. Non vedo cosa ci sia di maligno nella volontà di aiutare le donne che non vorrebbero abortire, e lo fanno non per libera scelta ma per necessità, economica o familiare.

L’unico che guarda con lucidità al rischio Meloni, evitando il controproducente allarme fascismo, è Conte, secondo cui le destre al comando si riveleranno una “tigre di carta”, visto che saranno obbligate a “smontare le loro ricette” una dopo l’altra: “In una fase così delicata, che risposte può dare una coalizione che ha ritenuto prioritario trovare la quadra sulla spartizione dei collegi prima che sul programma? Salvini e Berlusconi giocano a chi la spara più grossa sulla Flat tax che è una presa in giro, mentre Meloni ancora non si è capito se la voglia” («Avvenire», 11 agosto). E a proposito del presidenzialismo aggiunge: “L’ipotesi di un centrodestra che cambia la Carta costituzionale è sicuramente preoccupante; la questione però è capire come scongiurarlo. […] non si può pensare di vincere rispolverando l’incubo dell’orda nera che marcia su Palazzo Chigi: è un refrain che non ha mai funzionato. Bisogna vincere sui temi, sull’idea di Paese che si propone”. Anche l’Unione Popolare di De Magistris, se vuol crescere, farà bene a battersi sulla questione sociale e la riconversione ecologica, evitando l’insidioso refrain sul fascismo.

Intanto Letta (che avendo perso Calenda ha ingaggiato Carlo Cottarelli, e ha ammesso la sinistra di Fratoianni “solo per ottenere l’adesione dei Verdi”) resta aggrappato a Draghi, scommettendo sul suo ritorno se le destre si sfasciassero, nella convinzione che il banchiere centrale abbia risanato l’Italia e innalzato il suo prestigio, in patria e fuori. Purtroppo le cose stanno diversamente. Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha vantato “una crescita straordinaria”, vedendo giusto “nuvole all’orizzonte” quando invece son tempeste. Non ha contato nulla nel conflitto russo-ucraino. Ha gestito male il ritorno del Covid in primavera. Non ha fatto nulla per negoziare un adeguamento del PNRR all’economia di guerra cui siamo condannati.

L’opposizione sarebbe efficace se smitizzasse l’agenda Draghi, neoliberista e inadatta ai tempi di povertà, razionamento dell’energia, precariato. Da mesi il ministro Cingolani echeggia l’ottimismo di Palazzo Chigi, ripetendo la stessa bugia: che possiamo star tranquilli, che abbiamo gas a sufficienza.

Un’altra pecca rinfacciata a Meloni è il blocco navale dei migranti, giudicato “antieuropeo”. Accusa giusta, se non fosse intrisa di menzogne e ipocrisie. Fu il governo Gentiloni a stringere accordi con la Libia, nel 2017, perché bloccasse i fuggitivi anche con la violenza. È l’Unione europea che finanzia le guardie costiere della Libia chiudendo gli occhi sui suoi Lager di tortura e morte. È l’Unione che dai tempi del governo Renzi, nel 2016, paga la Turchia perché freni la fuga di siriani e afghani (6 miliardi di euro, estesi nel giugno 2021 sotto il governo Draghi). È sempre l’Ue che da giugno finanzia le guardie costiere egiziane (80 milioni di euro) per contrastare le migrazioni in Italia.

Tra i ministri Salvini e Minniti (Pd) la differenza non è grande, per quanto riguarda i patti con Stati autoritari o falliti. Ben prima del Memorandum italo-libico l’Onu aveva dichiarato, nel 2016: “La Libia non è un Paese sicuro e i rimpatri sono dunque illegali”. Ma l’Onu conta poco se paragonata alla Nato: nelle molte guerre occidentali, in quelle russe e sull’immigrazione. Una tragedia che precede la possibile vittoria di  Giorgia Meloni.

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Gli appelli a Draghi e il populismo delle élite servili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 luglio 2022

Chiedendo al Parlamento un “nuovo patto di fiducia”, ieri al Senato, Mario Draghi ha usato toni talmente sprezzanti verso i partiti (5 Stelle in primis, ma anche Lega e Forza Italia) che alla fine ha subito una vistosa sconfitta. Non è chiaro se fosse questo il calcolo, se la sua proposta di rifondazione del patto fosse un bluff. È una decisione che Draghi ha motivato con un’argomentazione al tempo stesso singolare e insolente verso il Parlamento. Chiedendo ai parlamentari se fossero pronti a una ricostruzione del patto ha concluso il suo intervento così: “Sono qui, in quest’aula, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani”.

Parlamento e partiti servono per la fiducia ma le loro esigenze sono svilite, sia quelle dei 5 Stelle sia quelle della Lega. I molti appelli (sindaci, accademici, imprenditori) che hanno implorato il presidente del Consiglio di non andarsene si sostituiscono nella mente di Draghi al suffragio universale, ai sondaggi, perfino al voto delle Camere. Il rapporto di fiducia Draghi ha immaginato di poterlo stringere direttamente col quello che ritiene essere il popolo italiano nella sua interezza, come fanno i capi di Stato nelle monarchie repubblicane. Alcuni parlano di populismo delle élite. Sembra un ossimoro ma non lo è. Il populismo delle élite ripete da anni che la politica è un disastro e il suffragio universale un azzardo pericoloso. La scommessa sugli omaggi di sindaci e imprenditori è stata contrassegnata da dismisura ed è naufragata.

Quel che più colpisce, negli appelli pro-Draghi, è la totale indifferenza alle richieste avanzate da Giuseppe Conte in nome del Movimento 5 Stelle. Erano richieste che avevano un filo conduttore: la questione sociale e la riconversione ecologica. Erano domande essenziali che esigevano risposte concrete e non i dinieghi rabbiosi offerti ieri dal presidente del Consiglio (su Reddito di cittadinanza, Superbonus, salario minimo, precarietà).

Spesso sono domande e critiche espresse anche dall’Ue, come l’introduzione del salario minimo, le politiche contro la precarietà e la povertà, la riforma della giustizia che introduce l’improcedibilità dei processi e che secondo il procuratore Gratteri “risponde agli auspici del papello di Riina”.

Ma chi ha firmato gli appelli non ha contemplato neppure da lontano la necessità di risposte chiare di Draghi sui drammi sociali menzionati da Conte: non era questo che domandavano, ma un regolamento dei conti che frantumasse e togliesse di mezzo i destabilizzatori che fanno capo a Conte. Nel mirino di Draghi non c’era solo il M5S: tutti i partiti che si preoccupano dei propri elettori sono stati oggetto di biasimo da parte dell’effimero monarca di Palazzo Chigi, a cominciare da Lega e Forza Italia che avevano puntato su una coalizione completamente nuova, senza 5 Stelle. Sotto tiro sono la dialettica democratica e i partiti in quanto tali che ancora una volta – come quando Conte fu silurato, o Mattarella rieletto presidente – vengono giudicati rovinosi, soprattutto quando vogliono esistere. Stiamo per perdere il tecnico mondialmente più rinomato, piangevano gli appelli e gran parte della stampa, e il buio era alle porte.

Il colmo lo ha raggiunto Antonio Scurati, in una lettera a Draghi sul Corriere del 17 luglio: lo scrittore gli ha chiesto di “umiliarsi”, e di “scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti”. Gli ha chiesto di scendere dalle “vette inarrivabili” della “vertiginosa responsabilità” esercitata in passato e di “battersi nelle fosse della politica politicante dove il combattimento è quasi sempre brutale, rozzo, sleale e meschino”. La diagnosi conclusiva: Draghi è “spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della Sua mano sinistra”. Nessun altro appello ha raggiunto tali vette di impudenza, ma tutti chiedono fra le righe l’uomo forte che – nelle crisi multiple che viviamo – sgomini la fossa dei dissensi e delle obiezioni. Forse l’eguaglia solo l’appello del vicepremier ucraino Iryna Vereshchuk: “Con leader come Mario Draghi vinceremo questa guerra che si consuma non in Ucraina ma nel continente europeo”.

Con l’eccezione di alcuni rappresentanti del Pd, e di politici come Bersani, il partito di Letta e gran parte della stampa hanno condiviso questa strategia di occultamento della questione sociale-ecologica e della battaglia contro ulteriori invii di armi all’Ucraina, che sono al centro delle richieste di Conte. Confermano quello che i più avveduti sanno: il Pd non è più sinistra, ma ex-sinistra. La sinistra è un campo disabitato che Conte potrebbe occupare, se non fosse una formazione gravemente frantumata e se si fosse staccata prima dal governo.

L’elenco di quel che potrebbe accadere dopo Draghi è copioso e inaudito, secondo gli appelli: sfracello del Piano di ripresa e resilienza innanzitutto (i motivi non sono mai indicati), caos e allarme dei mercati, inflazione e prezzi dell’energia alle stelle (verrebbe meno il tetto ai prezzi energetici chiesto dal governo, non approvato dall’Ue) e non per ultimo, disallineamento dell’Italia dall’Unione europea e dalla Nato.

Anche qui abbondano calunnie e disinformazioni. Conte avrebbe il sostegno di Putin, che manovra per destabilizzarci. Nessuna risposta viene data alla domanda centrale di Conte: “La nostra partecipazione a questi consessi (Nato-Ue) si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geopolitica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. È una domanda legittima, se si considera che Draghi è sempre accostato a Parigi e Berlino, nonostante il suo abissale silenzio sulle riserve e preoccupazioni di Macron e Scholz.

La “sudicia congiura” denunciata da Scurati non era dunque contro Draghi, ma contro Conte. Ha finito col mandare in rovina anche il consenso del centrodestra, e ora mette in forse il campo progressista fra Pd e 5Stelle, Articolo 1, Leu. A Letta rimangono per ora Renzi e Calenda, come alleati sicuri. Anche i suoi calcoli, elaborati assieme a Draghi, sembrano sfociare in disastro.

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L’atlantismo di Draghi impotente in Ucraina

di mercoledì, Febbraio 23, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2022

Salvo ripensamenti più o meno notturni (è una specialità di Enrico Letta, quando prima approvò poi rifiutò la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale) sembrerebbe che il “campo largo” potrebbe sostituire l’alleanza prospettata a suo tempo fra Democratici e Movimento 5 Stelle di Conte. Essendo largo, il campo includerebbe Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva e micro-centristi vari. Resterebbero fuori 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che Renzi e Calenda giudicano equivalenti. Negli anni ’70 l’Italia fu chiamata alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della Nato.

Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica – morto il Pci – è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni. Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per conto proprio.

Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass (Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia, dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero; Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2 – un disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla  pistola ha già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica. Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse, invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di importante”.

Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”.

Non pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi, scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine (compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”).

Su questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990.

Se così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa (Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est. Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014 Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ’90 l’Occidente non dubitava che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare.

Le larghe intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte – definito sull’«Espresso» “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di afflato politico”– a rispondere che “creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere senza la reale prospettiva di un governo che serva davvero a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi dirigenti, nel suo partito.

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Quirinale, menzogne e Amarcord

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2022

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola locuzione “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i gilets jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

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Il M5S in preda al Comma 22

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 11 luglio 2021

Il Comma 22 è la trappola che i 5 stelle hanno deciso di tendere a sé stessi, il giorno in cui i propri ministri hanno approvato la sbilenca riforma Cartabia con ripristino della prescrizione. La logica della sopravvivenza richiederebbe che il M5S smentisca i ministri in Parlamento e che Draghi sia abbandonato al suo destino, se la legge passerà. Ma non sarà questa la scelta perché il fondatore Grillo continua a sostenere Draghi “whatever it takes”, e perché Conte è un leader che al momento può solo parlare, non agire. Questo il “Catch 22”, e in gioco non è solo l’affossamento della riforma Conte-Bonafede. Sono in gioco il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, oltre a tutto ciò che il Movimento ha già perduto. Dicono le cronache che Draghi avrebbe detto, ultimamente: “Senza il M5S il governo non esiste”. Davvero? Ne ha bisogno per cosa, se non per il Quirinale? L’occasione per alzare la testa il Movimento l’avrebbe. Ma finché di teste ne ha due non può far altro che affogare.

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A oggi il fondatore è tra i responsabili del Conticidio 

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 giugno 2021

Per come ha saputo gestire l’emergenza Covid, primo in Occidente, e ottenere un Recovery Fund finanziato dall’indebitamento comune degli Stati Ue (qualcosa di impensabile prima di lui, e probabilmente irripetibile) Giuseppe Conte era, e resta, l’uomo più adatto a rifondare e guidare il Movimento 5 Stelle. Il più adatto a preservare la scabrosa alleanza con il Pd, in un’epoca che sotto la guida di Draghi sta appiattendo/azzerando tutti i partiti e quasi tutta la stampa. Sono in tanti, nel Pd, a esultare più o meno segretamente di fronte all’autodafé dei Cinque Stelle, prima forza politica in Parlamento e componente cruciale di un fronte alternativo alle destre.
L’idiozia dei demolitori – Grillo in primis, oggi – è senza fine e lascia trasecolati. S’illude chi pensa ci sia del metodo, nell’offensiva autolesionista sferrata da chi ieri definiva Draghi un grillino, e ora vede in Conte un usurpatore. Il Conticidio di Travaglio include da oggi la figura di Grillo, nella lista dei potenziali accoltellatori.

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