Risoluzione sulla Carta dei diritti fondamentali UE

Strasburgo, 11 febbraio 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.  

Punto in agenda:

  • Discussione congiunta – Attuazione di disposizioni del trattato

Presenti al dibattito:

  • Frans Timmermans – Primo vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di Relatore, per il Parlamento europeo, della Relazione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE.

Intervento di Apertura – Presentazione del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei spiegare quali sono stati gli obiettivi di fondo che ho perseguito, nel lungo lavoro sulla relazione riguardante l’attuazione della Carta dei diritti fondamentali.

C’è un punto sul quale ho insistito in modo particolare ed è che l’Unione non deve avere un atteggiamento passivo verso i diritti sanciti dalla Carta: non deve limitarsi a scongiurare eventuali violazioni di tali diritti, ma deve adoperarsi attivamente per la loro promozione e il loro sistematico e preliminare accorpamento in tutti i provvedimenti e le decisioni adottati dall’Unione. Non si tratta solo di un obbligo discendente dal diritto internazionale dei diritti umani, ma di un dovere espressamente sancito nella Carta stessa.

La Carta ha certamente rappresentato un punto di svolta nell’integrazione europea, ma la sua adozione non può e non deve essere considerata come traguardo finale: la natura della Carta è evolutiva, influenzata dalle leggi internazionali e dalla giurisprudenza delle Corti europee. È la piena concretizzazione dei diritti in essa sanciti l’obiettivo cui bisogna ambire costantemente.

Non dico questo a caso. Lo dico partendo dalla convinzione che la crisi dell’Unione è troppo vasta, e il divario creatosi fra cittadini e istituzioni europee troppo profondo, perché non si faccia il punto della situazione partendo proprio dai cittadini, dal loro malcontento, dalla loro sensazione di essere ignorati nei loro diritti. In molte politiche europee, i diritti elencati nella Carta non hanno lo spazio che viene formalmente garantito loro dalla legge europea oltre che dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Spesso sono addirittura ignorati, soprattutto quando sono in gioco i diritti sociali e il rapporto fra questi ultimi e le esigenze legate alla competitività nel mercato unico. Sono ignorati anche i diritti di chi, non importa se irregolarmente o regolarmente, entra e risiede nel territorio dell’Unione e dunque è parte del nostro sistema giuridico. Di qui il mio appello a porre in essere sistematiche valutazioni di impatto sui diritti, preliminari ed ex post, ogni volta che vengono adottate politiche in aree cruciali come le politiche di stabilità economica – specie nell’eurozona – le politiche commerciali e gli accordi con Paesi terzi firmati dall’Unione, la politica migratoria. Questioni in parte già presenti nella relazione ma che ripropongo in alcuni emendamenti per la plenaria, tanto sulla cosiddetta governance economica quanto sui rifugiati e migranti, il cui diritto al non-refoulement siamo chiamati a rispettare per legge.

L’obiettivo di questo testo è di chiarire il ruolo della Carta, mettendo in luce le difficoltà che continuano a sorgere nella sua attuazione piena. Lo stress test è uno strumento usato per sondare la tenuta delle banche. Dovremmo cominciare a usare test analoghi anche per la tenuta dei diritti fondamentali. Il mio intento è fornire spunti e proposte che non dovrebbero essere controversi, e che possano consolidare la promessa solenne fatta ai nostri cittadini con l’adozione della Carta quale fondamento normativo dell’Unione e indispensabile complemento dei trattati: la promessa di costruire una comunità fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani.

***

Intervento di chiusura a conclusione del dibattito – Replica del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei concludere insistendo sulla crisi dell’ultimo decennio. Essa ha accentuato poteri di indirizzo e controllo della Commissione che in molti Stati membri non sono sempre ritenuti legittimi e democratici. Si tratta di restituirle questa legittimità, molto fragile senza un più sistematico riferimento alla Carta.

Il Commissario Malmström ha detto una volta che, nel negoziare il TTIP, l’esecutivo europeo non poteva tener conto delle obiezioni provenienti dalla società civile. Disse: “Non ho ricevuto un mandato dal popolo europeo”. Ovvio che in questo modo le istituzioni UE appaiano lontane, ostili ai movimenti dal basso.

Alla sfida del sovranismo occorre rispondere con una sovranità che sia condivisa, sì, ma fondata sulle esigenze dei vari popoli di veder rispettati i propri diritti sociali e civili. Se non ne teniamo conto, se creiamo a uso elettorale una contrapposizione fra sovranisti ed europeisti, per forza cadremo nel linguaggio non più politico ma teologico in cui è caduto Donald Tusk, secondo cui ci sarebbe uno speciale posto all’inferno per chi in Gran Bretagna negozia male l’uscita dall’Unione. Dimenticheremo che al centro della questione Brexit ci sono i diritti e la legge primaria europea, come spiegato molto bene dalla collega Julie Ward (gruppo S&D), non una specie di giudizio universale realizzato nella storia, e prima del tempo.

***

In data 12 febbraio 2019 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE, Relatore Barbara Spinelli (GUE/NGL).  

La Relazione è stata adottata con 349 voti a favore, 157 voti contrari e 170 astensioni.

A seguito del voto Barbara Spinelli ha dichiarato:

«Con l’adozione di questa Relazione il Parlamento europeo ha formalmente riconosciuto la necessità di attribuire maggiore centralità alla Carta dei diritti fondamentali nel processo politico e decisionale dell’Unione e di permettere ai diritti sociali in essa iscritti di uscire dall’ombra, conferendo loro una legittimazione rafforzata.  Mi rammarico tuttavia del fatto che la maggioranza dei gruppi politici, compreso purtroppo il gruppo socialista, non abbia colto appieno questa opportunità per trasmettere un messaggio ancora più forte e incontrovertibile, e abbia deciso di bocciare la maggior parte degli emendamenti presentati congiuntamente dal mio Gruppo politico e dai Verdi/ALE: emendamenti volti tanto a riaffermare gli obblighi positivi discendenti dalla Carta di promozione attiva dei diritti e dei principi in essa contenuti, quanto a estendere il suo ambito di operatività, a sottolineare con maggiore incisività il ruolo che la Carta dovrebbe avere nella governance economica e nella politica migratoria, così come il ruolo dei diritti umani nella politica commerciale, e a rafforzare gli strumenti intesi a garantirne l’osservanza».

Allegati:

Risoluzione del Parlamento europeo del 12 febbraio 2019 sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE (2017/2089(INI))

Emendamenti 003-007

Emendamenti 008-017

Brexit: i diritti da salvaguardare

di venerdì, Maggio 12, 2017 0 , , , Permalink

Bruxelles, 11 maggio 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso dell’Audizione congiunta organizzata dalle commissioni parlamentari Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE), Petizioni (PETI) e Occupazione e affari sociali (EMPL) “La situazione e i diritti dei cittadini dell’UE nel Regno Unito”.

Partecipanti:

MESSAGGIO DI BENVENUTO

  • Claude MORAES, presidente della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni
  • Cecilia WIKSTRÖM, presidente della commissione per le petizioni
  • Renate WEBER, vicepresidente della commissione per l’occupazione e gli affari sociali

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

  • Guy VERHOFSTADT, capo negoziatore del Parlamento europeo per la Brexit

ORATORI

  • Anne-Laure DONSKOY, rappresentante del gruppo “The 3 million”
  • Jan DOERFEL, avvocato specializzato in immigrazione nel Regno Unito
  • Charlie JEFFERY, professore presso l’Università di Edimburgo
  • Julia ONSLOW-COLE, partner, responsabile dei mercati dei servizi legali e direttore dei Servizi di immigrazione globale presso PwC, Londra
  • Jonathan PORTES, professore di economia e politiche pubbliche presso il Dipartimento di economia politica del King’s College di Londra

BREVE PRESENTAZIONE DA PARTE DI DUE FIRMATARI DI PETIZIONI

  • Leona Bashow, cittadina britannica, sulla perdita involontaria della cittadinanza europea in seguito all’esito del referendum britannico
  • Anne Wilkinson, cittadina britannica, sull’inalienabilità dei diritti dei cittadini dell’UE

Sono inoltre intervenuti, per una breve presentazione, due esponenti delle seguenti organizzazioni:

  • “New Europeans”
  • “British in Europe”

Ascoltando gli interventi straordinari dei firmatari delle petizioni, ho pensato alla responsabilità di chi non ha indicato, fin dall’inizio della campagna referendaria, il disastro cui si andava incontro. La prima responsabilità è certamente della classe politica inglese: quella di aver mentito sulla reale possibilità di preservare i diritti dopo l’uscita dall’Unione – una possibilità che, come emerso, è di difficile, se non di impossibile realizzazione. Ma la colpa è anche nostra, delle istituzioni europee: di non aver saputo insistere con forza, durante la stessa campagna referendaria, sui rischi che si stavano correndo a fronte di un Paese che annunciava la volontà di sottrarsi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e – con l’uscita dall’Unione – alla Carta dei diritti fondamentali. Adesso si tratta di recuperare il tempo perduto e di battersi affinché la questione dei diritti civili e sociali sia affrontata e risolta fin da principio. Troppo grande è la paura che c’è ora in Inghilterra e grande è il rischio che questa paura si accompagni alle già acute forme di xenofobia che si stanno diffondendo in questo Paese.

Per questo sono d’accordo con la signora Donskoy sul fatto che la formula “nulla è concordato finché tutto non è concordato” (“nothing is agreed until everything is agreed”), contenuta negli orientamenti approvati dal Consiglio europeo, sia di per sé una formula sbagliata. L’accordo sui diritti va concluso immediatamente.

Concordo anche con la proposta di Guy Verhofstadt di redigere una Risoluzione parlamentare sul tema dei diritti. La ritengo necessaria e utile, ed è altresì importante che sia specifica: uno strumento che sia quindi idoneo a esercitare una reale pressione sui governi e che faccia capire all’Inghilterra e ai cittadini impauriti che questa volta li ascoltiamo veramente, che non facciamo finta di non vedere il pericolo che abbiamo davanti.

Geopolitica e lessico dei rifugiati

Palermo, 12-13 novembre 2015. Conferenza PACE E DIRITTI NEL MEDITERRANEO, promossa da Primalepersone e ADIF in collaborazione con il Comune e l’Università di Palermo, con il patrocinio dell’ANCI Sicilia ed il contributo del GUE/NGL.

Intervento di Barbara Spinelli

Vorrei concentrarmi su due temi generalmente poco trattati (e poco trattati per motivi molto precisi): il peso della geopolitica e delle guerre nella cosiddetta questione migranti, e l’uso distorto che viene fatto delle parole, quando parliamo delle odierne fughe di massa. Guerre e semantica del rifugiato, come vedremo, sono in stretto rapporto fra loro.

Comincio dal secondo punto – la semantica del rifugiato – perché la distorsione della realtà comincia con la stessa parola “migranti”, quindi con il sintagma “questione migranti”. Non c’è praticamente governo né forza politica che usi il vocabolo appropriato – “rifugiati” o “persone in fuga”, che corrisponde alla stragrande maggioranza degli arrivi – se si esclude Angela Merkel. Forse perché conosce bene la storia tedesca del secolo scorso, la Cancelliera  impiega regolarmente il termine corretto: Flüchtlinge, rifugiati. Si continua a parlare di migranti, perché così facendo si finge di non dover cambiare nulla e si evita di dire da cosa precisamente le persone scappano. L’ondata di arrivi continua a essere ascritta a una propensione migratoria classica e il suo straordinario incremento è visto come un’eccezione, un’emergenza: si tratta di fermare l’onda innalzando dighe dappertutto e spostando i flussi dei fuggitivi verso i paesi d’origine, quali essi siano (meglio parlare di flussi che di singole persone, come quando in economia si parla di fasce o strati della popolazione: dietro flussi e fasce i singoli individui cessano di essere più visibili). Anche onda o invasione sono parole da piazzisti di menzogne: l’arrivo di tanti profughi e migranti cambierà di certo il volto dell’Europa, ma resta il fatto che secondo fonti citate dal “Guardian” il numero di migranti e profughi arrivati in Europa nei primi mesi del 2015 costituisce appena lo 0,027% della popolazione totale dell’Unione. La maggior parte dei profughi – l’86% – è accolta da paesi in via di sviluppo, secondo l’UNHCR.

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La Fortezza Europa a Ventimiglia

Bruxelles, 17 giugno 2015

Schierando la Gendarmerie nationale al confine di Ventimiglia, il governo francese afferma di non aver violato né sospeso il Trattato di Schengen, e in questo non è smentito dalla Commissione europea. Di fatto, tuttavia, sta facendo qualcosa che somiglia molto a un blocco, e – più grave ancora – a un’espulsione collettiva attuata sulla base di una identificazione «prima facie» dei profughi che manifestano l’intenzione di andare in Francia, per restarvi o recarsi in altri paesi dell’Unione. Le autorità francesi hanno attuato un respingimento fisico, sommario, senza notificare alcun provvedimento formale, senza procedere a un esame individuale delle istanze, né dare possibilità di ricorso ai respinti. Le forze dell’ordine hanno, letteralmente, fatto muro, ripristinando la frontiera. Non è il muro vero e proprio che  il governo ungherese sta costruendo contro i migranti provenienti dalla Serbia, ma lo spirito della fortezza è lo stesso.

L’Europa si è data tuttavia delle regole – ben più salde e costitutive della gabbia tracciata dal Regolamento di Dublino – ed è a queste regole che occorre richiamarsi, perché senza di esse è il significato dell’Unione ad essere colpito.  Il governo francese viola sia l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali, sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Protocollo n. 4 art. 4), ignorando il divieto dei respingimenti collettivi.

“Chiedete perdono per le istituzioni e le persone che chiudono le loro porte a gente che cerca aiuto e cerca di essere custodita”, ha chiesto il Papa, durante l’udienza generale a San Pietro. Non è indifferente che abbia nominato per prime le istituzioni: sono le istituzioni, infatti, le prime a dover rispondere.

Abbiamo visto, in questi giorni, gli innumerevoli gesti di solidarietà di cittadini italiani e francesi, persino bambini, che continuano a portare cibo e vestiti ai profughi accampati alla frontiera o sugli scogli di Ponte San Ludovico. Ma non abbiamo visto la solidarietà degli Stati. Dobbiamo essere consapevoli di quanto questo sia gravido di conseguenze, perché la solidarietà tra Stati membri – anche finanziaria – è iscritta nei Trattati: dimentica della solidarietà, l’Europa è un guscio che non contiene più nulla.

barbara spinelli

Si faccia chiarezza sulla repressione della protesta dei migranti a Brescia

di sabato, Marzo 28, 2015 0 , , , Permalink

28 marzo 2015

Barbara Spinelli si è rivolta al Sindaco, al Questore e al Prefetto Vicario di Brescia chiedendo chiarezza sui gravi fatti che si sono svolti a Brescia nel corso dell’ultima settimana, in seguito alla protesta indetta da un gruppo di migranti e dall’Associazione Diritti per Tutti contro la violazione dei diritti sociali, contro i rigetti della sanatoria 2012, e in favore di uno sblocco dei permessi di soggiorno.

“Secondo gli attivisti e i rappresentanti dei migranti che vivono nella provincia di Brescia”, ha scritto l’eurodeputata del Gue-Ngl, “le istituzioni stanno procedendo a un’applicazione penalizzante delle normative in materia di immigrazione. Circa l’ottanta per cento delle domande sono infatti state respinte, a fronte di una media nazionale del venti per cento”.

La civile e pacifica protesta dei migranti è stata repressa con un immotivato uso della forza, rendendo inagibile per giorni piazza Loggia. Su questi fatti, e sulla situazione di tre migranti arrestati e internati nel Cie di Bari e di due migranti espulsi con provvedimento d’urgenza, l’onorevole Spinelli ha chiesto un immediato accertamento dei fatti e delle responsabilità.

In particolare, unendosi alle richieste di migranti e associazioni antirazziste, l’eurodeputata ha chiesto:

– Il ripristino dell’agibilità politica e democratica nel centro di Brescia,

– Una verifica sul comportamento della Questura, con particolare riferimento alle azioni del Questore, del Vicequestore Ricifari, del dirigente della Divisione anticrimine della Questura Farinacci.

– Un’inchiesta sulle numerose denunce fatte dalla Questura dopo i fatti “della gru”, i cui processi sono tuttora in corso.

– L’apertura di un tavolo di confronto e riesame dei respingimenti, del tutto anomali nel numero, fatti a Brescia.

– Un confronto sui tempi di attesa per i rinnovi, che ormai superano mediamente i dodici mesi.

“Sottolineo infine la mia preoccupazione”, scrive Barbara Spinelli, “per come la Questura di Brescia, tramite numerosi comunicati stampa diffusi in questi giorni, ha mostrato di monitorare le attività della storica emittente radiofonica Radio Onda d’Urto, accusando redattori e giornalisti di fomentare la protesta dei migranti.  Apprendo inoltre di di voci riguardanti un’informativa della Questura, che sarebbe stata inviata al ministero dell’Interno, alla Prefetture e alla Procura della Repubblica, contenete la richiesta di aprire un’indagine contro l’emittente: mi auguro che si tratti di voci prive di fondamento”.

In allegato, la lettera integrale inviata questa mattina a Sindaco, Questore e Prefetto Vicario.

Aggiornamento del 30 aprile 2015: Il Consiglio di Stato dà ragione ai migranti in lotta a Brescia

Regolamento di Dublino: interrogazione scritta

Comunicato stampa

L’europarlamentare del GUE/NGL Barbara Spinelli ha presentato oggi un’interrogazione scritta alla Commissione in seguito a una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sottolineato le lacune del Regolamento di Dublino per i richiedenti asilo, con particolare riferimento al rispetto dei diritti fondamentali. Nel caso Tarakhel v Svizzera, sul trasferimento di un nucleo familiare verso l’Italia disposto dalle autorità svizzere ai sensi del regolamento di Dublino, la Corte ha deliberato che il trasferimento avrebbe sollevato il pericolo di violazione dell’Articolo 3 della CEDU in assenza di garanzie da parte delle autorità italiane circa l’accoglienza idonea dei minori e la coesione del nucleo familiare: questa valutazione “caso per caso” non è attualmente inquadrata dalla legislazione dell’Unione Europea. Nel frattempo il Commissario europeo per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza Dimitris Avramopoulos ha dichiarato di non “vedere la necessità urgente di apportare modifiche rilevanti in materia di asilo nel futuro prossimo. Ma ciò non è escluso per il medio termine, dopo un attento esame”. Gli europarlamentari hanno pertanto deciso di chiedere al Commissario se intenda riferire in merito all’applicazione del regolamento di Dublino e, ove opportuno, proporre i necessari emendamenti (il Regolamento impone alla Commissione di farlo entro il 21 luglio 2016) e se, in attesa di una revisione del regolamento di Dublino, la Commissione intenda prendere provvedimenti per evitare il rischio di un aumento dei casi giudiziari a livello nazionale ed europeo.

L’interrogazione è stata sottoscritta dai membri di vari gruppi politici: Eleonora Forenza, Kostadinka Kuneva, Kostas Chrysogonos, Lola Sanchez Caldentey, Marisa Matias e Rina Rojna Kari (GUE/NGL), Juan Fernando Lopez Aguilar e Ana Gomes (S&D), Bodil Ceballos (Verdi), Jozsef Nagy (EPP) e Laura Ferrara (EFDD).

I reietti di Ponte Galeria

"Ponte Galeria"

19 dicembre 2014, visita ufficiale di Barbara Spinelli al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, nei pressi di Roma. 

Uno zoo per umani, ma senza erba né alberi né rocce come quelli che oggi sono concessi ai non umani. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre d’acciaio che delimita e suddivide gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, fanno qualche passo nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Le gabbie per animali rari che la Francia inventò in pieno Terrore, negli anni ‘90 del Settecento, erano proprio così – loculi e inferriate – solo che col tempo per le bestie andò un po’ meglio. Tutto resta invece grigio-ferro, qui a Ponte Galeria: le sbarre di recinzione, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori.

Il CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, sobborgo di Roma, non finge nulla, anche se qualcuno forse ha ripulito alla meglio i cessi in occasione della visita di controllo dell’europarlamentare. L’osceno si disvela subito per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola col permesso di soggiorno, richiedenti asilo, stranieri che hanno scontato una pena carceraria ma sono senza documenti, ammucchiati e confusi gli uni con gli altri. L’Italia e l’Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore né memoria d’alcun genere, anche se non senza frapporre ostacoli a chi viene da fuori – autorità parlamentari o associazioni della società civile che vogliono indagare, capire, denunciare.

Il venerdì 19 dicembre ero lì, in missione ufficiale come eurodeputata, accompagnata dalla mia assistente e portavoce Daniela Padoan e da una delegazione composta di amici difensori dei migranti e dei loro diritti. I gestori di Ponte Galeria avevano il dovere di aprirmi i cancelli, perché l’accesso non può esser vietato a un parlamentare e al suo assistente. Ma fin dall’inizio avevo chiesto di entrare con una delegazione, perché assieme ad essa avevo preparato la visita. Sono entrate, ma di straforo, solo l’avvocato Alessandra Ballerini, Gabriella Guido responsabile della campagna LasciateCIEntrare e Marta Bonafoni, consigliere regionale del Lazio. Gli altri sono stati tenuti fuori dai cancelli, per strada, e non perché il viceprefetto avesse dato ordini in tal senso. Il viceprefetto responsabile del CIE mi aveva personalmente dato il consenso, appena arrivata, ma la Questura ha messo il veto. L’organo inferiore ha scavalcato il superiore, abusivamente. Così gran parte degli amici sono restati fuori: l’antropologa Annamaria Rivera, Stefano Galieni responsabile nazionale immigrazione del Prc, Antonello Ciervo avvocato dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Cinzia Greco attivista della campagna LasciateCIEentrare, l’avvocato Flavio Del Soldato, il giornalista Giacomo Zandonini. Solo nella seconda parte della visita ho temporaneamente lasciato l’edificio e vi sono rientrata riuscendo a farmi accompagnare da Giovanni Maria Bellu, direttore del giornale Left e presidente dell’associazione Carta di Roma.

Con Daniela Padoan e i pochi con cui sono entrata ho visto l’orrore del CIE romano, simile a quello di tanti CIE in Italia. Il Centro di Ponte Galeria ha sede nella periferia sud ovest della capitale, in una caserma, la Gelsomini, dove nel 2001 si addestrarono gli agenti della celere inviati a Genova per eseguire la macelleria messicana del G8. Fu ancora qui, nel dicembre 2013 e nel luglio 2014, che una decina di migranti si cucì le labbra: un segno di protesta estrema. Fuori dai cancelli, volanti e blindati delle forze d’ordine; oltre il cancello un cortile, ed eccomi nello spettrale caseggiato del CIE: un corridoio dove si susseguono alcune stanze, adibite via via agli incontri con i parenti, ai colloqui con i legali che convalidano le detenzioni ed espulsioni dei reietti, poi l’ambulatorio medico, poi la stanza dello psichiatra che però non c’è – per il momento è stato licenziato perché impiegato dalla vecchia gestione – infine il bagno del personale, le pareti costellate di scritte ingiuriose che gli impiegati della gestione precedente hanno graffiato non si sa quando.

Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini e a destra le donne: qui s’accampa la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati (questo giorno di visita è un avvenimento)… chi sta aggrappato per la precisione, e come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi e delle forze d’ordine tentenna e scivola come fosse liquido, senza arrivare a solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o addirittura “utenti”, o “ospiti”; molto più di rado trattenuti. Capita anche che mettano in fila i due attributi: «detenuti-cioè-mi-scusi-trattenuti». Annamaria Rivera, che aspetta inutilmente fuori dall’edificio, mi scriverà una email, dopo la visita: «Abbiamo discusso vivacemente con due gestori. Di loro, mi hanno impressionata, tra le altre cose, l’ideologia e il lessico da ‘banalità del male’: uno definiva gli internati “utenti” e affermava che erano lì, i custodi, per dovere civile, cioè per migliorare il “servizio”».

Prima di entrare nei recinti, chiedo ai custodi: «Si può parlare con loro?» – «Un momento, i capibanda per ora non ci sono, magari sono a mensa» – «I capibanda?». Sì, i capibanda. Così vengono interpellati e descritti i rappresentanti dei detenuti. Il lessico di Ponte Galeria è impastato di parole prese in prestito dal crimine, dalla malavita. «Comunque vi consigliamo vivamente di non entrare, sono molto agitati. Sono pericolosi.» Da lunedì mattina 15 dicembre il Centro è nelle mani di un nuovo ente, l’agenzia francese Gepsa, specializzata in amministrazione carceraria. L’agenzia ha vinto la gara perché il capitolato che ha presentato prevede tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: è un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel CIE: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, kit con spazzolino da denti e dentifricio per i nuovi arrivati, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono che ci vorrà del tempo, che qualche grave «inconveniente» sarà superato.

Ma nelle grandi linee le norme sono le stesse: questo è il regno del diritto emergenziale permanente, e nessuna miglioria cambia i dati di fatto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che le inghiottiscano e finiscano in ambulatorio. Non possono avere carta da scrivere, per motivi che non riescono a delucidare anche se chiedi molto. Hanno il telefonino, e tra noi visitatori e loro c’è un fitto scambiarsi di numeri, ma la connessione internet è preclusa. Non hanno accesso ai giornali. Nelle camerate in un angolo per terra è acceso un piccolo televisore, ma chissà quel che possono vedere e in che ore. I gestori smentiscono, ma tutti i detenuti con cui parlo sono esasperati perché di notte le luci al neon sul soffitto sono ininterrottamente accese, e addormentarsi è difficile se non impossibile. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Ricorrente è anche la somministrazione di anti-epilettici o, per i tossicodipendenti, di metadone. Le tensioni si alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano più o meno numerose le forze d’ordine, manganelli bene in vista e grosse pistole alla cinta. La struttura contiene al momento 98 reclusi (76 uomini e 22 donne).

Entriamo a questo punto nelle camerate, dove ci sono otto o dieci letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori, nel cortile recintato: il riscaldamento funziona a intermittenza, mi dicono, sempre che funzioni. I reclusi mi fanno vedere le poche cose che ricevono: lenzuola di carta che subito si sbrindellano sopra il materasso («non ce le danno di stoffa perché temono che le attorcigliamo e le trasformiamo in corde»), e sopra una coperta militare marrone. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. La maggior parte calza ciabatte o sandali infradito di gomma, anche se fa parecchio freddo. Sono vietati i lacci, se hai le scarpe. Un detenuto ride dell’ordine insensato: i lacci no, ma uno spago che funge da cintura per i pantaloni troppo larghi, «quello sì lo possiamo portare ed eventualmente impiccarci».

Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone né dentifricio, che non possono andare alla “barberia” (da soli non possono usare lamette e rasoi). Si vergognano molto di quest’incuria e delle barbe non fatte. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: «Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo». Sono angosciati anche dai gatti che circolano tra il fuori e il dentro le inferriate: «Vorremmo tanto dar loro da mangiare, ma non ne abbiamo la possibilità e allora chi ci pensa ai gatti?».

Resto dentro il recinto sei o sette ore, ma quando ne esco ho l’impressione sia passato un anno. A che scopo son qui? Dico loro che in Europa mi batto contro i CIE, per i corridoi umanitari che legalizzino le fughe verso il nostro continente, per il riconoscimento reciproco del diritto d’asilo nell’Unione, per l’annullamento della Bossi-Fini. E per la revisione o l’abolizione dell’assurdo regolamento di Dublino, che obbliga i profughi a chiedere asilo nel primo Paese dove approdano, anche se non vorrebbero affatto restare in Italia ma andare in Svezia o Germania: lì l’integrazione sociale funziona, mentre in Italia nulla è garantito se non questi indecenti Centri. I relegati sono felici di parlare con un parlamentare. “Onorevole Onorevole”, dicono a ogni piè sospinto, poi fortunatamente cominciano a chiamarmi per nome: Barbara. Ma continueranno a esser così eccitati e speranzosi quando la delegazione se ne sarà andata e li avremo lasciati lì, a passare altre notti senza sonno sotto il biancore del neon?

Tutti i buoni propositi di un parlamentare europeo vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica e disperazione semisorridente, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire da quest’inferno, in cui precipitano inspiegabilmente tutti, incensurati e non; avere informazioni precise (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte sono fuori Italia, a volte abitano qui vicino, a Roma stessa; poter usufruire di assistenza vera (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che le leggi europee almeno sulla carta vietano, il rimpatrio in Paesi dove sta in agguato la morte. Un pakistano, M.M., mi afferra le due mani, a mo’ di preghiera: è cristiano, teme di essere rispedito in Pakistan dove «di sicuro mi ammazzeranno». Parlo anche con un recluso del Ghana che probabilmente è uno dei «capibanda», con un colombiano mitissimo e con una strana pazienza, con il tunisino I.B. che mi dà il numero del suo cellulare, con l’egiziano M.A.: invariabilmente implorano aiuti concreti e immediati che non posso dare e tutti dicono: «Non ci dimentichi ». Nessuno mi chiede soldi. C’è un ex pregiudicato, S.G. Ha scontato una pena a Rebibbia e poi a sorpresa si è ritrovato qui: scrive romanzi e poesie, e ha vinto numerosi premi letterari. Ha studiato e si è messo alla scrittura in carcere. Molti hanno conosciuto lo stesso tragitto: la prigione (il più delle volte per spaccio o taccheggi), la pena scontata fino all’ultimo giorno, per poi ricadere inaspettatamente in questo Lager. I più domandano e ridomandano Perché. Datemi una ragione. Non capisco. Corrono in camerata e ti portano a vedere foglietti ormai sbrindellati che riportano le loro richieste di permesso di soggiorno. Molti sono nati in Italia, ma come sappiamo non hanno diritto alcuno perché da noi vige la legge tribale del sangue.

Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un tempo sterminato, che t’invecchia rapido. Ero senza più parole. Infinitamente sconsolata. Ci si continuerà a battere per loro, questo è vero. Anzi è più vero che mai. Ma con quale prospettiva di essere ascoltati dalle autorità nazionali ed europee, di obbligarle a guardare in faccia quello che abbiamo visto?

Una cosa so: quale che sia la nostra azione, nel Parlamento dell’Unione europea e nelle associazioni, so che tutti ci stiamo macchiando di un misfatto di enormi proporzioni. È come se visitando i Centri ti spuntasse sulla pelle un marchio, una voglia: il marchio della colpa. Perché questo zoo per umani l’abbiamo fabbricato noi italiani, noi europei. Perché lo definiamo inaccettabile, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo istante – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi prima di partire. Ma lo sappiamo, gli amici con cui sono venuta e io: nello stesso istante in cui pronunci la parola «inaccettabile», e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato quello che hai visto, quello che ha ferito i tuoi occhi. Già sei sceso a patti con il tremendo.

I Cie, zoo per umani ma senza erba

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Articolo pubblicato su «La Stampa», 23 dicembre 2014

Il 19 dicembre, come deputato europeo, sono andata in visita al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria presso Roma. Ero accompagnata da rappresentanti di alcune associazioni che si prendono cura della disperazione impotente di tanti migranti finiti in queste gabbie penitenziarie. Ho constatato quel che denuncio da mesi, e che è il fulcro della mia attività a Bruxelles: man mano che l’immigrazione aumenta in Europa, man mano che la sua natura muta (i più fuggono oggi da guerre o disastri climatici: per forza sono senza documenti), s’afferma nell’Unione un diritto emergenziale, che sospende leggi iscritte non solo nelle Costituzioni, ma nella Carta europea dei diritti fondamentali.
Così l’immigrazione diventa la nostra comune parte buia: buia perché inaccessibile all’informazione, buia per le ferite inflitte alla dignità della persona. Ogni giorno abbiamo notizie di violenze che colpiscono i migranti, nello spazio Schengen: a Melilla in Spagna, a Sangatte in Francia, e in Grecia, in Italia. Ogni giorno crescono partiti che raccolgono consensi trasformando il profugo in capro espiatorio: penso a Marine Le Pen e Salvini in Francia e Italia, a Dresda avamposto di islamofobi e neonazisti (Npd, Die Rechte). Penso all’Ukip inglese. Ovunque, i conservatori sono in competizione mimetica con l’estrema destra: da Cameron in Inghilterra a Rajoy in Spagna.
La visita a Ponte Galeria è tappa cruciale della battaglia che conduco dal primo giorno in Europa: contro la chiusura di Mare Nostrum e la rinuncia esplicita ai salvataggi in alto mare; in favore del riconoscimento reciproco dell’asilo nell’Ue e di corridoi umanitari che tolgano alle mafie il controllo sui fuggitivi; contro il disumano regolamento di Dublino che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese dove approdano, anche se la destinazione è un altro paese europeo.
Quel che ho visto nel Cie eccolo: uno zoo per umani, ma senza erba né alberi come quelli che oggi sono concessi agli animali. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre che delimita gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, deambulano nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Tutto a Ponte Galeria è grigio-ferro: le sbarre, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori. Qui l’osceno si disvela per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, di richiedenti asilo, di stranieri che hanno scontato pene ma non hanno documenti. Italia e Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore. E senza memoria.
Con alcuni militanti di associazioni che proteggono i migranti son qui a certificare l’orrore. Fuori dai cancelli, volanti e blindati. Dentro il Centro: un corridoio dove si susseguono stanze per gli incontri con i parenti, con i legali che convalidano detenzioni ed espulsioni, poi l’ambulatorio, poi lo psichiatra che però non c’è – è stato licenziato dai nuovi gestori.
Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini a destra le donne: la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati… come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi tentenna e scivola come liquido, senza solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o perfino «utenti», «ospiti», più di rado «trattenuti».
Prima di entrare nei recinti chiedo ai custodi: «Si può parlare con loro?» – «Un momento, i capibanda sono altrove» – «I capibanda?». Sì, capibanda. Così sono interpellati i rappresentanti dei detenuti. Il lessico a Ponte Galeria s’impregna di malavita. «Comunque non entrate, sono agitati, pericolosi.» Da lunedì 15 dicembre il Cie è amministrato dalla francese Gepsa, specializzata in carceri. L’agenzia ha vinto la gara perché ha promesso tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel Cie: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, spazzolini e dentifricio, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono: sono inconvenienti temporanei.
Ma in realtà le norme sono le stesse: l’emergenza genera queste zone d’incessante non diritto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che inghiottendole finiscano in ambulatorio. È vietata carta da scrivere, per motivi arcani. Hanno il telefonino, ma non la connessione internet. Non hanno accesso a giornali. I gestori smentiscono, ma i detenuti sono esasperati perché di notte le luci al neon sono sempre accese. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Le tensioni s’alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano le forze d’ordine, manganelli in vista e pistole alla cinta.
Entriamo nelle camerate, dove ci sono 8-10 letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori; il riscaldamento è intermittente. I reclusi indicano le poche cose che ricevono: lenzuola di carta sbrindellate, una coperta, cibo scarso. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. I più calzano sandali infradito, anche se fa freddo. Sono vietati i lacci delle scarpe. Un migrante ride dell’insensatezza: i lacci no, ma una cintura di spago per i pantaloni troppo larghi, «quella sì la possiamo portare e eventualmente impiccarci».
Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone, che non possono andare alla «barberia» (son vietate le lamette). Si vergognano molto di quest’incuria. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: «Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo».
Tutti i buoni propositi di un eurodeputato vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica disperata, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire dall’inferno in cui precipitano tutti, incensurati e non; avere informazioni (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte non sono fuori Europa ma a due passi da qui; essere assistiti (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che l’Unione in teoria vieta, il rimpatrio lì dove la morte li aspetta.
Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un anno fatto di impotenze. Continueremo a batterci per loro, è certo. Ma con quale prospettiva d’essere ascoltati da autorità nazionali ed europee? Una cosa so: quale che sia la nostra azione, in Europa e nelle associazioni, tutti ci stiamo macchiando d’una colpa. Perché questi zoo li abbiamo fabbricati noi. Perché li definiamo inaccettabili, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo minuto – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi. Ma anche questo sappiamo: nello stesso istante in cui dici «inaccettabile» e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato. Già sei sceso a patti con il tremendo.


Per ulteriori approfondimenti:

“Respinti dal Cie di Ponte Galeria. Noi che volevamo essere trattenuti!”: la lettera dei membri della delegazione organizzata dalla campagna lasciateCIEntrare, che non hanno avuto il permesso di entrare a Ponte Galeria, il 19, pubblicata su «Micromega».

Ponte Galeria, “La Guantanamo italiana”, la situazione al Cie dopo il cambio gestione, reportage di Veronica Di Benedetto Montaccini e Giacomo Zandonini su Repubblica.it.

Rom, i reietti d’Europa

di domenica, Dicembre 14, 2014 0 , , Permalink

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Introduzione di Barbara Spinelli in occasione della proiezione di «CONTAINER 158», film-documentario di Stefano Liberti e Enrico Parenti. Barbara Spinelli ha ospitato la proiezione nel Parlamento europeo su iniziativa di Open Society Foundation, l’11 dicembre 2014 a Bruxelles.

Una delle ragioni della mia candidatura nella lista L’Altra Europa con Tsipras, alle elezioni per il Parlamento europeo, riguardava il tema dei diritti civili e politici delle minoranze. L’Europa alla quale penso è un’Europa di cittadini: quindi un’Unione in cui tutti gli abitanti – quali che siano la loro etnia, religione, orientamento sessuale – si trovino sullo stesso piano nell’esercizio dei diritti. Numerosi Stati membri dell’Unione Europea sono stati accusati dalla Commissione e da ONG di rilievo per le loro politiche apertamente discriminatorie e lesive dei diritti dei Rom e Sinti.

I rom sono, secondo Amnesty International, tra i gruppi più sistematicamente discriminati ed esclusi d’Europa: “hanno redditi inferiori alla media, peggiori condizioni di salute, abitazioni più misere, un tasso di alfabetizzazione più basso e più alti livelli di disoccupazione rispetto al resto della popolazione. Incontrano (anche) gravi ostacoli nell’accesso al diritto a un alloggio adeguato, all’assistenza sanitaria, all’istruzione e al lavoro“.

In Italia, negli ultimi mesi, due formazioni di destra – Lega e Casa Pound – stanno scientemente fomentando la xenofobia nei confronti di Rom e Sinti. Purtroppo anche la sinistra moderata comincia a far proprio, in alcune occasioni, tale stigma.

Recentemente, mentre a Borgaro (provincia di Torino) la giunta di sinistra ha chiesto un bus separato per i rom, i bambini a Milano (anche qui il municipio è in mano alla sinistra) non hanno più lo scuolabus da mesi: i più piccoli hanno smesso di andare a scuola, i più grandi devono attraversare campi e camminare lungo una tangenziale pericolosa.

Nel frattempo, il consigliere comunale di Motta Visconti (Massimilla Conti, di centro destra) scrive che per gli zingari ci vogliono di nuovo i forni. Fortemente criticato, il consigliere non si è tuttavia dimesso. Ha anzi difeso la propria opinione, ritenendo di avere espresso, forse in modo eccessivo, un fastidio che si è fatto senso comune. Una settimana fa, dopo lo scandalo di Roma mafiosa, Matteo Salvini (Lega Nord) dichiarava che le vittime rappresentano un incentivo per i carnefici: “Se non esistessero i campi rom non ci sarebbe chi ci guadagna. Un’immigrazione controllata eviterebbe queste mangiatoie”.

Diceva giustamente l’antropologo Claudio Marta che “le autorità, in genere, sembrano essere interessate a definire i Rom non tanto per quello che realmente sono, quanto in base alle esigenze politiche e a ciò che queste richiedono che essi siamo“.

La cosa per cui mi sto battendo, con molte associazioni italiane, è che Rom e Sinti siano riconosciuti giuridicamente – in Italia – come minoranza, perché sia loro restituita identità e dignità, e per favorire la loro accoglienza nella Comunità europea.


 

Sullo stesso tema: Rom: film Container 158 presentato a Parlamento Ue

 

Tratta degli esseri umani: l’Italia disattende il diritto europeo

COMUNICATO STAMPA

“Vorrei esprimere la mia più grande preoccupazione per il mancato recepimento, in Italia, della direttiva europea contro la tratta degli esseri umani”, ha detto Barbara Spinelli nel corso della seduta della Commissione Libertà, Giustizia e Affari interni che si è tenuta a Bruxelles il 2 dicembre. Il sistema italiano non è solo profondamente deficitario, ha affermato l’eurodeputata del Gue-Ngl rivolgendosi alla coordinatrice anti-tratta della Commissione europea, Myria Vassiliadou, ma è “pericoloso dal punto di vista della protezione delle vittime”,  anche in considerazione dei fortissimi tagli finanziari imposti all’intero sistema.

A riprova delle gravi lacune mostrate dallo Stato italiano nella trasposizione del diritto europeo, Barbara Spinelli ha citato lo studio pubblicato dall’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) sullo stato di attuazione in Italia della Direttiva europea concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (2011/36/EU).

L’eurodeputata ha deplorato l’assenza di definizioni basilari – come quella concernente la “posizione di vulnerabilità” dell’individuo – e di un benché minimo accenno al consenso della vittima, giudicato irrilevante in presenza di alcuni mezzi di coercizione (come previsto dal §1 dell’articolo 2 della direttiva). Quest’ultima lacuna è particolarmente importante nei casi in cui la vittima di tratta non subisca violenza fisica o costrizione in senso stretto, ma si pieghi all’unica possibilità di sopravvivenza per se stessa o per i propri familiari.

Il decreto di attuazione della direttiva contro la tratta, ha puntualizzato infine Spinelli, prevedeva – entro un termine di tre mesi dalla sua entrata in vigore – l’approvazione di un piano nazionale. Piano a tutt’oggi non ancora adottato.

L’ASGI ha lanciato una petizione (disponibile a questo link) per spingere le istituzioni italiane ad adottare urgentemente il piano-anti tratta, a stanziare i fondi necessari a prevenire e contrastare la tratta degli esseri umani e a garantire la tutela delle sue vittime.


Per aderire alla petizione dell’ASGI