Due popoli, due Stati: è già troppo tardi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 novembre 2023

Man mano che procede l’invasione di Gaza, si moltiplicano gli appelli delle destre estreme israeliane a ri-colonizzare la Striscia che Israele aveva formalmente restituito ai palestinesi nel 2005.

La demolizione del complesso coloniale di Gush Kativ (8.600 residenti), a sud della Striscia, per ordine del premier Ariel Sharon è ricordata con ribrezzo dagli attuali governanti, e definita alto tradimento dai ministri di estrema destra. Riconquistare e ripopolare le terre perdute è il loro proposito.

Al tempo stesso, continua l’esodo degli abitanti cacciati dalle bombe da nord a sud della Striscia, in fuga attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto. È un’espulsione di massa, che i palestinesi chiamano seconda Nakba (“Catastrofe”) perché ricorda loro la prima Nakba sofferta a seguito della guerra del 1948 (più di 700.000 profughi). Un ministro del partito di Netanyahu, Avi Dichter, ha ammesso l’11 novembre che la guerra in corso è effettivamente la Nakba. Altri, come l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, indicano lo scopo delle operazioni: “Distruggere Gaza”. Si paragona la distruzione di Gaza a Dresda rasa al suolo per volontà di Churchill, come se Dresda o Amburgo annientate non fossero un capitolo nero della Seconda guerra mondiale.

Israele risponde così al pogrom del 7 ottobre, che ha ucciso 1.400 israeliani e ne ha presi in ostaggio 200, in una serie di villaggi e kibbutz, e nel Nova Music Festival ai confini con Gaza. La violenza scatenata da Hamas supera perfino i pogrom classici, ha visto mescolarsi non solo collera e vendetta ma una dose impressionante di sadismo. Le mutilazioni, gli stupri di ragazze del rave party prima del loro assassinio: la mattanza si avvicina ai delitti di sette sanguinarie tipo “famiglia Manson”. Difficile mettere sullo stesso piano le intifade del passato e la voragine del 7 ottobre.

Le voragini hanno una storia, come l’ebbero le intifada. All’origine c’è sempre la tragedia di un popolo (quello palestinese) a cui ancora non è stato dato lo Stato reclamato, e che non ha mai avuto una rappresentanza efficace. A cui si propone la pace contro la pace, quando l’unica via resta quella di chiedere pace in cambio di territori. Lo capì Yitzhak Rabin con gli accordi di Oslo, e più ancora il premier Ehud Olmert nel 2008. Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas respinse l’offerta del 2008 con la scusa che Olmert si era rifiutato di mostrargli la mappa delle colonie da smantellare. Qualche anno dopo, Olmert disse che la mappa era disponibile se Abbas avesse accettato l’offerta. Negli ultimi anni, poi, ha affermato che Abbas non oppose mai un vero no, e comunque si pentì della firma negata (“le voci su un suo rifiuto categorico sono false”, «Times of Israel», 25.06.’21).

Da allora è passato poco più di un decennio, ma per le nuove destre israeliane è passato un secolo. Secondo Olmert l’offerta può ripetersi, e anche gli Stati occidentali – USA in testa – rispolverano la soluzione “due popoli due Stati”. Ma non è detto che la formula funzioni ancora, che in Israele esista una maggioranza politica a favore, e che lo stesso possa dirsi delle rappresentanze palestinesi. Guerra e colonizzazione hanno radicalizzato i due campi, dando loro un colore sempre più religioso.

La Carta di Hamas del 1989 chiama al jihad armato contro Israele, e nell’articolo 7 ordina di uccidere gli ebrei in quanto tali (in assenza dell’uccisione, il Giorno del Giudizio e l’avvento del Messia non verranno). Nel 2017 la Carta è stata emendata: lo Stato palestinese “sarà edificato entro i confini del 1967”, e secondo i leader di Hamas si tratta di combattere “il progetto sionista che occupa la Palestina, non gli ebrei a causa della loro religione”. Ma lo Stato di Israele ancora non è riconosciuto.

Il fatto è che ogni soluzione è diventata impervia dopo il 7 ottobre. Quasi impraticabile è oggi la soluzione due popoli-due Stati: la colonizzazione della Cisgiordania è talmente avanzata che in Israele scoppierebbe una guerra civile. Ma non meno catastrofica rischia di essere l’alternativa più razionale e logica: la creazione di uno Stato bi-nazionale, sotto forma di confederazione o federazione. Lo proposero nel 1947 filosofi e israeliani influenti come Hannah Arendt e il rabbino Judah Magnes, presidente dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Invano. In assenza di autocritiche delle due parti, sarebbe oggi un incubo demografico per gli ebrei. La guerra civile sarebbe assicurata anche in questo caso.

Le destre estreme israeliane puntano a un unico Stato con annessione di Cisgiordania e Gaza, ma presuppongono la cacciata dei palestinesi. L’espulsione è in corso non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania: 200 morti palestinesi, dal 7 ottobre, e decine di villaggi svuotati con la violenza grazie a massicce distribuzioni di fucili ai coloni, su iniziativa dei ministri Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

La soluzione “un solo Stato” è sostenuta da molti pacifisti di Israele, ma anche da estremisti sia israeliani sia palestinesi. I primi propagandano una Palestina “dal fiume (Giordano) al mare” (from the river to the sea); i secondi un Israele “dal fiume al fiume”, from the river to the river (“i confini di Israele sono l’Eufrate a Est e il Nilo a Sud Ovest”, secondo l’esponente del movimento dei coloni Daniella Weiss intervistata dal «New Yorker» l’11 novembre). In ambedue i casi, lo Stato antagonista scompare. Nella logica dell’annessione verrebbe realizzato l’apartheid istituzionalizzato, che molti israeliani vedono già in fieri a seguito della contestatissima “legge dello Stato ebraico” del 2018, secondo cui Israele concede piena cittadinanza solo agli ebrei. Questo nonostante Israele sia composto per il 20% da arabi-palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3,5-4%), i cristiani (2,1%), i drusi (2%), i circassi (4-5.000 membri, in gran parte musulmani).

Torniamo a Daniella Weiss: “Il mondo, e specialmente gli Stati Uniti, pensa che esista l’opzione di uno Stato palestinese. Noi vogliamo metter fine a simile opzione”. La Weiss si batte per l’aumento dei coloni in Cisgiordania (“dagli 800.000 di oggi a 2 milioni, e poi 3”), per la ricolonizzazione di Gaza dopo l’errore del 2005, infine per la cacciata dei palestinesi dalla Striscia. E dove devono andare questi ultimi? “Nel Sinai, in Egitto, in Turchia”.

Quanto alla religione, Daniella Weiss non ha dubbi: a fissare le regole è “la prima nazione che ricevette la parola di Dio e la sua promessa. Gli altri che seguono – Cristianesimo e Islam […] – non fanno che imitare quel che esiste già. Sono venuti dopo di noi”.

La colonizzazione ha cambiato l’ebraismo in Israele. Lo sostiene Menahem Klein, professore di Scienze politiche all’Università Bar-Ilan («Haaretz», 8.04.2023). L’ebraismo sviluppatosi durante la colonizzazione (essenzialmente in Cisgiordania, vista la decolonizzazione di Gaza nel 2005) non è quello del passato. La percezione di una supremazia dell’ebraismo e del “popolo eletto” esisteva già, ma non legata al possesso di uno Stato e al controllo armato di terre e popoli non ebraici.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Contro l’ira, fare la pace con l’Iran

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 ottobre 2023

È rovinoso nascondersi i pericoli mortali che s’annidano per Israele come per Gaza, e continuare a dividersi, in Italia e Occidente, fra buoni amici di Israele e cattivi fiancheggiatori dei palestinesi.

La verità è che l’invasione di Gaza potrebbe culminare in strage, perché come potrà l’invasore distinguere tra civili e terroristi di Hamas in zone così popolose, e come potranno fuggire gli abitanti se i valichi son chiusi? E la verità è che lo Stato d’Israele è oggi minacciato esistenzialmente, per aver vissuto con gli occhi bendati sin da quando nacque, adottando la mortifera menzogna sulla “Terra senza popolo per un popolo senza terra”. Se li bendò definitivamente dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando ebbe la sconsideratezza di non restituire i territori che aveva occupato: doveva farlo “sin dal settimo giorno”, disse oltre vent’anni fa l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair, consulente legale di Rabin.Israele è minacciato esistenzialmente non per una sua congenita debolezza o fragilità – è osceno impersonarlo nella figura dell’ebreo perennemente vulnerabile – ma perché dagli anni 60 è una potenza atomica che continua indefessamente a negarsi come tale (la chiamano “ambiguità nucleare”, l’artefice fu il laburista Shimon Peres), che non aderisce a trattati di disarmo o proliferazione e che non possiede quindi flessibilità negoziale – tranne brevi intervalli, chiusi dall’assassinio di Rabin nel 1995.Questa condizione gli ha permesso di frenare attacchi su larga scala, ma ha trasformato Israele in potenza regionale troppo forte ma immobile, incapace non solo di perizia negoziale, ma anche di chiaroveggenza sulle proprie storiche responsabilità, sul proprio futuro destino, sui pericoli che gli si accampano davanti, oggi sotto forma della autentica polveriera che i governi d’Israele hanno fabbricato con le proprie mani ai confini con Gaza, foraggiando Hamas in funzione anti-Arafat.È uno dei motivi per cui il regime iraniano si va convincendo che l’unico modo per controbilanciare Israele, in prospettiva, è dotarsi anch’esso dell’atomica, in modo da dissuadere Israele o Stati Uniti da attacchi e guerre di regime change. Basta una piccolissima bomba per polverizzare Israele, il suo territorio è minuscolo. L’ambiguità nucleare si basava sull’illusione che non sarebbero apparse nella regione ambizioni nucleari concorrenti. È pensiero magico: anche se Teheran non possiede ancora la bomba, le ambizioni ci sono.Qui non si tratta di aprire negoziati Israele-Hamas: le atrocità terroriste non consentono compromessi di sostanza, e Hamas non ha riconosciuto Israele come fece Arafat alla vigilia degli accordi di Oslo nel ’93. I paragoni con l’Ucraina sono zoppicanti: Putin non è Hamas, ma un uomo di Stato che per decenni ha tentato pacificamente di scongiurare eccessive estensioni Nato, senza riuscirci. In Medio Oriente si tratta di avviare negoziati non finti tra Usa, Israele e rappresentanti palestinesi, coinvolgendo non tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran, in primissima linea e con la massima urgenza. L’Iran pesa su Hamas (e sul libanese Hezbollah): se non trattato come Stato canaglia, potrebbe facilitare trattative puntuali e forse durature.

Ogni ricerca di soluzione dovrà quindi avere come oggetto principale il futuro palestinese e la promessa di una tangibile, graduale restituzione di territori occupati, in modo da consentire che su di essi possa nascere uno Stato palestinese sovrano e minimamente funzionante. Nascita sempre più perigliosa: anche questo non andrebbe nascosto. La Cisgiordania è occupata da circa 670.000 coloni israeliani – inclusi 220.000 coloni a Gerusalemme Est, legalmente parte della Cisgiordania – e non solo è occupata: le milizie dei coloni stanno attuando massicci pogrom antipalestinesi, col consenso più o meno tacito delle destre religiose al governo.

Sono distrutti i pozzi dei residenti palestinesi, uccisi civili, espropriate terre, case, strade. Amira Hass testimonia su Haaretz che in questi giorni pogrom e uccisioni sono aumentati in Cisgiordania. I palestinesi parlano di seconda Nakba (“catastrofe”), la prima essendo quella del ’48, quando milioni di loro furono banditi, per imporre la favola della terra senza popolo. Come stupirsi che i banditi e i loro discendenti non diventino banditi armati.

Fino a quando non finirà questa Nakba, che sminuzza le terre attribuite ai Palestinesi, è vano ripetere il mantra “due popoli in due Stati”. All’origine delle atrocità terroristiche c’è la politica di apartheid attuata dai governi israeliani. Non è Hamas a dirlo. Dal 2002 lo dice l’ex procuratore generale israeliano Michael Ben-Yair e tanti israeliani.

In questo contesto varrebbe la pena fare un po’ di ordine nel nostro linguaggio, per aggirare qualche errore. Soprattutto in Italia ed Europa, poco influenti in Medio Oriente ma importanti per quel che dicono.

Come prima cosa, sarebbe consigliabile disgiungere Israele e popolo ebraico (oltre che Israele e diaspora ebraica). Non farlo danneggia gli ebrei e significa far propria la “legge sullo Stato Nazione” proposta da Netanyahu e adottata nel luglio 2018, secondo la quale “Israele è la patria nazionale del popolo ebraico”, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei, e l’arabico è declassato da lingua ufficiale a lingua con “statuto speciale”. La legge è assai controversa in patria ed è in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Il 21 per cento degli israeliani sono arabi palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3%), i drusi (2%), i cristiani (2%). Tutti israeliani, ma non ebrei. Alcuni illustri ebrei israeliani sono giunti fino a ripudiare dimostrativamente l’ebraismo, per protesta contro la legge.

Il secondo errore è definire Israele come la più grande democrazia in Medio Oriente. È solo in parte vero, se si considerano la libertà di stampa, di dimostrazione, di voto. Ma la democrazia non è compatibile con l’occupazione di territori, l’aumento delle colonie e i diritti negati o declassati dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

Terzo malinteso: Gaza non è un territorio che Israele nel 2005 ha smesso di occupare. Israele ha ritirato le colonie ma esercita su di esso un controllo aereo, terrestre, marittimo; fornisce acqua, energia, cibo, medicine. Non si può né entrare né uscire da Gaza a causa del blocco/assedio israelo-egiziano. Ci sarà qualche motivo per cui si parla di prigione a cielo aperto, o secondo Giorgio Agamben di campo di concentramento. Secondo la legge internazionale, chi esercita un “controllo” su un determinato territorio è giuridicamente responsabile della sussistenza di chi lo abita.

Infine l’argomento del generale Mini, decisivo («Il Fatto Quotidiano» del 12 ottobre): “È militare e antico il detto ‘in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira’”. L’ira è appena sopportabile nei talk show. Sul terreno mina la sopravvivenza sia di Israele sia della Palestina.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

L’Europa si opponga alla neo-apartheid

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2020

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.

Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate.

A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.

Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.

Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania-Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.

Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia saudita.

Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.

In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.

Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).

Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p. A.

Situazione nella Striscia di Gaza

Javier Nart, deputato ALDE, ha inviato all’Alto Rappresentante Federica Mogherini una lettera – firmata anche da Barbara Spinelli – riguardante l’interruzione, da parte del governo di Israele, dell’approvvigionamento di elettricità alla Striscia di Gaza.

Ms Federica Mogherini
High Representative of the Union for Foreign Affairs
and Security Policy/ Vice President of the Commission

Brussels, 21 June 2017

Dear Ms Mogherini,

We are writing to you in order to express our deep and urgent concern for the situation in the Gaza Strip.

On 17 April, Gaza’s sole power plant (GPP) was forced to shut down completely after exhausting its fuel reserves and being unable to replenish them due to a shortage of funds. The shutdown occurred in the context of an ongoing dispute between the Palestinian authorities in Gaza and Ramallah on tax exemption for fuel and revenue collection from electricity consumers. This manoeuvre has caused Gaza’s sole electricity plant to cease operating, which was already insufficient to meet the needs of the 1.9 million residents of the Strip.

Moreover, on Monday 12 June, the Government of Israel announced the cut of its electricity supplies to the Gaza Strip by 40 per cent, in line with a request of the Palestinian Authority (PA). The closure of the power plant reduced supply to four hours per day, and if Israel reduces its supply as announced last week, this will cause supply to fall to approximately two hours per day, according to several humanitarian organizations.

The poor supply of electricity and fuel threatens to create an enormous humanitarian crisis, as 80 per cent of Gazans rely on humanitarian aid to survive. Currently, hospitals are working at minimal capacity and the water pumps and wells use has reduced dramatically.  According to UN sources, this situation will immediately be life threatening for 113 new-borns currently in neonatal intensive care units, 100 patients in intensive care and 658 patients requiring bi-weekly haemodialysis. Current water supply stands at only four to eight hours every four or five days, and sanitation services are weak (120 million litres of untreated sewage are discharged into the Mediterranean Sea every day), as stated in the latest OCHA report.

For the abovementioned reasons, we ask that:

  1. Israel, as the occupying power in the OPT, has the primary responsibility for ensuring the wellbeing of the occupied population and, according to the EU-Israel Association Agreement, the government should comply with the democratic clause contained in Article 2. Thus, Israel must act to guarantee that the electricity supply meets the needs of the Gaza population, as regarded in the IV Geneva Convention, no matter the actions requested by the PA.
  2. Following the deplorable declarations of Mr Usama Al-Qawasmi, spokesperson for Fatah, -stating, “we are not targeting the citizens […], we are targeting Hamas which is running the Gaza Strip”– and Hamas threatening that this decision would increase the likelihood of conflict, we call to urge both parties to take responsibilities towards their own people and address their political tensions. It is deplorable that population is used as bargain chips in political disputes.

The situation is unacceptable and the three parties involved (the PA, the Government of Israel and Hamas) must urgently implement sustainable solutions for the power crisis in the Gaza Strip, resuming the supply of fuel and to commit to take no further actions that infringe the fundamental rights of its own citizens under an illegal Israeli blockade that has lasted for a decade.

With the EU having been the first trade partner for Israel and the first donor for the Palestinian Authority, we must stand as the first political player in the region. Therefore, we urge you, HRVP, to use your political dialogue with Israeli and Palestinian leadership to ensure that this unsustainable situation ends. We have considerable power of influence and pressure given the strategic dependence and relationship we have with the parties. Let us make use of it.

As the UN Special Coordinator for the Middle East Peace Process stated on June 20th at the UN Security Council: “We have a collective responsibility to prevent this. […] a duty to avoid a humanitarian catastrophe”.

File .pdf che riporta anche l’elenco dei firmatari

Legalizzazione degli insediamenti illegali in Cisgiordania da parte di Israele

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-000890/2017
alla Commissione
Articolo 130 del regolamento

Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL), Martina Anderson (GUE/NGL), Barbara Spinelli (GUE/NGL), Sofia Sakorafa (GUE/NGL), Martina Michels (GUE/NGL), Edouard Martin (S&D), Ángela Vallina (GUE/NGL) e Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)

Oggetto: Israele legalizza gli insediamenti illegali in Cisgiordania

Il 6 febbraio la Knesset ha approvato un disegno di legge inaccettabile che “legalizza” retroattivamente 4 000 alloggi illegali di coloni, costruiti su terre palestinesi di proprietà privata. Con questa legge – l’ultima di una serie di iniziative a favore degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati – la Knesset ha dato il via libera a un’appropriazione illegale di terreni.

Tale “regolarizzazione” apre la strada al riconoscimento, da parte di Israele, di migliaia di abitazioni di coloni ebrei costruite illegalmente su terre palestinesi di proprietà privata. La legge viola il diritto internazionale e priva i proprietari palestinesi del diritto di utilizzare o possedere i terreni in questione. Si tratta di una violazione dei diritti di proprietà palestinesi e del diritto palestinese all’autodeterminazione.

La creazione di insediamenti da parte di Israele non ha alcuna validità giuridica, costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e rappresenta un grande ostacolo alla visione di due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza.

Quali pressioni eserciterà l’Unione europea sul governo israeliano affinché metta immediatamente fine alla violazione dei diritti umani dei palestinesi e agli insediamenti?

Perché l’Unione europea non ha ancora congelato l’accordo di associazione UE-Israele, vista la costante violazione dell’articolo 2 dello stesso che sancisce il rispetto dei diritti umani?

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IT
E-000890/2017
Risposta della Vicepresidente Federica Mogherini
a nome della Commissione

(5.4.2017)

Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati sono illegali ai sensi del diritto internazionale, rappresentano un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile una soluzione fondata su due Stati. L’UE si oppone fermamente alla politica di insediamento di Israele e alle azioni intraprese in questo contesto. Tale posizione si riflette nelle conclusioni successive del Consiglio “Affari esteri” ed è in linea con la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La cosiddetta legge sulla regolarizzazione autorizzerebbe a tutti gli effetti la confisca di terreni palestinesi privati nei territori occupati. L’AR/VP ha già espresso le sue preoccupazioni prima dell’adozione della legge da parte della Knesset: davanti al Parlamento europeo il 22 novembre 2016 e in una dichiarazione l’8 dicembre 2016. Subito dopo l’adozione della legge, l’AR/VP ha esortato il governo israeliano ad astenersi dall’attuazione di questa nuova legge (si veda la dichiarazione del 7 febbraio 2017 [1]). L’UE ha ribadito il messaggio dell’AR/VP durante gli incontri con le autorità israeliane a ogni livello.

La sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele costituisce un passo che non può essere fatto senza la decisione unanime di tutti gli Stati membri. L’impegno e il dialogo politico sono il modo più efficace attraverso cui manifestare le nostre preoccupazioni. Inoltre, dal 2009 l’UE ha sospeso il consolidamento delle relazioni UE-Israele, in attesa che vengano compiuti progressi nel processo di pace in Medio Oriente e nell’attuazione dei valori condivisi, di cui i diritti umani sono parte essenziale.

[1]  https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage_it/20104/Statement%20by%20High%20Representative/Vice-President%20Federica%20Mogherini%20on%20the%20%22Regularisation%20Law%22%20adopted%20by%20the%20Israeli%20Knesset

Lettera a Federica Mogherini sulla situazione del giornalista palestinese Mohammed al-Queeq

Di seguito il testo della lettera, sottoscritta anche da Barbara Spinelli

25 February 2016

Dear Ms Mogherini, High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy,

We are writing to you, as you are currently holding the position of the High Representative of the European Union for Foreign Affairs and Security Policy/Vice- President of the European Commission, to express our deep and well founded concern for the deteriorating condition of the Palestinian journalist Mohammed al-Queeq, who has today reached his 90th day of hunger strike.

Al-Qeeq, 33, who is a reporter for Al-Majd, was detained by Israeli forces on the 21st of November. He has been on hunger strike since the 25th of that month, initially in protest at his torture upon arrest, and subsequently his sentence of six months imprisonment without trial or charges. He is currently being held in HaEmek hospital in Afula, and while his administrative detention was deemed as suspended by the Israeli supreme court, he still cannot leave the hospital and the Israeli military denied his request to be transferred to a Palestinian hospital in the West Bank. He has maintained his strike and says he will accept treatment only under conditions of freedom in a Palestinian hospital.

Although al-Qeeq has been denied visitors on the grounds of his extremely fragile medical condition, he has been visited by Archbishop Atallah Hanna, who reported that al-Qeeq is in critical condition and suffering from severe pain. ““The imprisoned al-Qeeq is on hunger strike for the freedom that he deserves. He is entitled to return to his family and to his children who are impatiently waiting. We stand in solidarity with him and with all prisoners and detainees in Israeli jails,” said Hanna.

The HaEmek hospital waiting room in Afula has filled with visitors for al- Qeeq, 40 Palestinians are on hunger strike in solidarity with al- Qeeq in front of the hospital, five of whom have been arrested by Israeli forces, and Knesset member Haneen Zoabi was forced to leave the hospital. Doctors have reported that he has now lost much of his hearing and ability to speak; and describe him as being in danger of death at any time, and predict his experiencing medical consequences that will continue after his detention.

Echoing the UN’s call to either charge or release al-Qeeq, we urge you to take immediate and effective action to ensure his safety. We urge you to make a public statement to demand the release of Mohamed Al Qeeq to a facility where he can receive adequate care in a safe environment. Furthermore we look forward to hearing from you what other action you have taken and what the responses have been from the Israeli officials.

Sincerely,

Bart Staes (Greens)
Paloma Lopez Bermejo (GUE/NGL)
Stefan Eck (GUE/NGL)
Molly Scott Cato (Greens)
Barbara Spinelli (GUE/NGL)
Nessa Childers (S&D)
Marie-Christine Vergiat (GUE/NGL)
Miguel Urban Crespo (Podemos)
Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL)
Yannick Jadot (Greens)
Ivo Vajgl (Alde)
Gabriele Zimmer (GUE/NGL)
Edouard Martin (S&D)
Stelios Kouloglou (GUE/NGL)
Ernest Urtasun (Greens)
Izaskun Bilbao Barandica (Alde)
Anamaria Gomes (S&D)
Martina Anderson (Sinn Féin)
Matt Carthy (Sinn Féin)
Lynn Boylan (Sinn Féin)
Liadh Ní Riada (Sinn Féin)
Merja Kyllönen (GUE/NGL)
Soraya Post (S&D)
Agnes Jongerius (S&D)
Maria Heubuch (Greens)
Judith Sargentini (Greens)
Monika Vana (Greens)
Claude Rolin (EPP)
Jordi Sebastià (Greens)
Tania Gonzalez Penas (GUE/NGL)
Kostas Chrysogonos (GUE/NGL)
Xabier Benito Ziluaga (GUE/NGL)
Javier Nart (Alde)
Philippe Lamberts (Greens)
Marita Ulvskog (S&D)
José Inácio Faria (Alde)
Brando Benifei (S&D)
Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)
Pascal Durand (Greens)
Margrete Auken (Greens)
Jean Lambert (Greens)
Anne-Marie Mineur (GUE/NGL)
Eleonora Forenza (GUE/NGL)
Josu Juaristi Abaunz (GUE/NGL)
Zoltán BALCZÓ (NI)
García Pérez (S&D)
Kati Piri (S&D)
José Bové (Greens)
Marisa Matias (GUE/NGL)
Bodil Valero (Greens)
Keith Taylor (Greens)
Catherine Stihler (S&D)
Beatriz Becerra Basterrechea (Alde)
Julie Ward (S&D)
Jens Nilsson (S&D)
Alfred Sant (S&D)

Lettera a Federica Mogherini sul caso di Khalida Jarrar

Testo della lettera, co-firmata da Barbara Spinelli, inviata il 13 aprile 2015 all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari europei e la politica di sicurezza:

Honourable High Representative,

Recalling the European Parliament resolution of the 4th of September 2008 calling for “the immediate release of the imprisoned members of the Palestinian Legislative Council,” we urge the EU and its Member States to take immediate action in response to the arrest of PLC member Khalida Jarrar, and to ensure the release of all sixteen detained members of the PLC.

We express our strongest condemnation of the latest Israeli escalation against Palestinian legislators and the suppression of the Palestinian political leadership, namely the arrest of PLC member Khalida Jarrar after a raid on her family home in Ramallah at approximately 01:00.

Jarrar is a prominent feminist and advocate for the rights of Palestinian political prisoners. She is the Palestinian representative on the Council of Europe and chair of the Prisoners’ Committee of the PLC. Jarrar is also Vice President of the Board of Directors of Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, a prominent Palestinian human rights NGO, and its former Executive Director.

The arrest of Jarrar comes approximately seven months after an Israeli military court attempted to forcibly transfer her on August 20, 2014, from her home in Ramallah to Jericho.

Jarrar set up a protest tent in the PLC headquarters and received widespread international and Palestinian support, causing the order to be shortened to one month and therefore quashed on September 16, 2014. This attempt to forcibly transfer a person under occupation is a violation of the Fourth Geneva Convention, and was widely condemned around the world, including by Members of European Parliament.

Jarrar is also a member of the Palestinian national follow-up commission for the International Criminal Court. The arrest of Jarrar is a clearly political attempt to undermine Palestinian leadership and thwart Palestinian attempts to pursue justice in the International Criminal Court.

The arrest of Jarrar and other Members of the Palestinian Parliament and their transfer from occupied territory into Israel are not only in violation of Articles 49 and 76 of the Fourth Geneva Convention but also blatantly violate international conventions and practices regarding the immunity of elected officials. Palestinian parliamentarians are frequently held in administrative detention without charge or trial, or tried in military courts that are mechanisms to produce a political result and in no way meet standards for a fair trial.

We call for the immediate release of Jarrar and all detained Palestinian parliamentarians and an immediate and definitive halt of all measures targeting our Palestinian Parliamentary colleagues, including arrests and expulsions from Jerusalem.

We urge you to use your position to garner support among institutions of the EU and its Member States and work to persuade them to take meaningful action to place significant pressure on Israel to ensure the release of Jarrar and Palestinian political prisoners, including all 16 detained members of the Palestinian Legislative Council.

Yours sincerely,

1. Martina Anderson (GUE/NGL)
2. Lynn Boylan (GUE/NGL)
3. Liadh Ní Riada (GUE/NGL)
4. Matt Carthy (GUE/NGL)
5. Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL)
6. Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)
7. Angela Vallina (GUE/NGL)
8. Marisa Matias (GUE/NGL)
9. Fabio De Masi (GUE/NGL)
10. Anne-Marie Mineur (GUE/NGL)
11. Malin Bjork (GUE/NGL)
12. Gabi Zimmer (GUE/NGL)
13. Dimitris Papadimoulis (GUE/NGL)
14. Marina Albiol Guzman (GUE/NGL)
15. Iosu Juaristi (GUE/NGL)
16. Barbara Spinelli (GUE/NGL)
17. Kostas Chrysogonos (GUE/NGL)
18. Lidia Sendra (GUE/NGL)
19. Paloma Lopez (GUE/NGL)
20. Joao Ferreira (GUE/NGL)
21. Ines Zuber (GUE/NGL)
22. Miguel Viegas (GUE/NGL)
23. Margrete Auken (Greens/EFA)
24. Ivo Vajgl (ALDE)
25. Josep-Maria Terricabras (Greens/EFA)
26. Javier Couso Permuy (GUE/NGL)
27. Marita Ulvskog (S&D)
28. Tanja Fajon (S&D)
29. Molly Scott Cato (Greens/EFA)
30. Javier Lopez (S&D)
31. Judith Sargentini (Greens/EFA)
32. Manolis Glezos (GUE/NGL)
33. Nessa Childers (S&D)
34. Izaskun Bilbao Barandica (ALDE)
35. Younous Omarjee (GUE/NGL)
36. Bart Staes (Greens/EFA)
37. Eleonora Forenza (GUE/NGL)
38. Takis Hadjigeorgiou (GUE/NGL)
39. Curzio Maltese (GUE/NGL)
40. Maria Dolores Lola Sanchez Caldentey (GUE/NGL)
41. Helmut Scholz (GUE/NGL)
42. Sofia Sakorafa (GUE/NGL)
43. Jordi Sebastia (Greens/EFA)
44. Alfred Sant (S&D)
45. Klaus Buchner (Greens/EFA)
46. Edouard Martin (S&D)
47. Kati Piri (S&D)
48. Kostadinka Kuneva (GUE/NGL)
49. Merja Kyllonen (GUE/NGL)
50. Brando Benifei (S&D)
51. Keith Taylor (Greens/EFA)
52. Martina Michels (GUE/NGL)
53. Jill Evans (Greens/EFA)
54. Norbert Neuser (S&D)
55. Luke Ming Flanagan (GUE/NGL)
56. Miguel Urbán Crespo (GUE/NGL)
57. Alyn Smith (Greens/EFA)
58. Pablo Iglesias (GUE/NGL)

La lettera in formato .pdf

Per il Parlamento europeo lo Stato Palestinese c’è

17 dicembre 2014. Voto in aula sul ricoscimento della Palestina, dichiarazione di voto di Barbara Spinelli

Riconoscere lo Stato della Palestina è stato un atto politico coraggioso e di grande importanza del Parlamento europeo (498 voti a favore, 88 contrari, 111 astensioni). L’Unione in quanto tale non parla ancora con un’unica voce in politica estera, e riconoscere gli Stati è legalmente prerogativa degli Stati. Ma l’Assemblea dell’Unione ha forzato abitudini, tempi, pavidità, contro il parere delle destre più gelose delle sovranità assolute degli Stati, e con il suo voto ha affermato di voler esserci e di voler dire la sua parola inequivocabile, su una questione del Medio Oriente che, irrisolta, ha generato lungo i decenni un gran numero di guerre e di morti. In quest’ambito, il Parlamento non ha esitato a lanciare un messaggio di disapprovazione nei confronti del governo israeliano, che si è adoperato in tutti i modi per evitare che l’Europa uscisse allo scoperto con questa dichiarazione, e si conquistasse un diritto di presenza e di parola politica in materia, seguendo la linea degli Stati dell’Unione che già hanno riconosciuto lo Stato Palestinese. L’Alto Rappresentante Federica Mogherini vedrà fortemente accresciuti il proprio peso e la propria influenza, se vorrà esercitarli, dopo la decisione dei parlamentari riuniti a Strasburgo.

Alcuni gruppi politici hanno tentato di dire che la risoluzione approva e legittima lo Stato palestinese a condizione che i negoziati di pace riprendano seriamente e abbiano successo. È un’interpretazione del tutto fallace della mozione appovata. Il riconoscimento «va di pari passo» con i negoziati di pace – questo dice letteralmente il testo – e la condizionalità fortunatamente non c’è.


 

Proposta di risoluzione presentata dal Gruppo GUE/NGL:
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Riconoscere lo stato di Palestina

Agenzia di stampa Fidest, 28 novembre 2014

“Perché l’Europa deve riconoscere lo Stato della Palestina?” chiede Barbara Spinelli intervenendo nella sessione plenaria del Parlamento europeo. “Non per indebolire Israele, ma per sanare le sue ferite, e restituirle una forza politica condannata a perire, se è solo forza militare”. L’eurodeputata del Gue-Ngl/Lista Tsipras si è detta convinta che “non si possa chiedere ai palestinesi l’assoggettamento senza fine e la rinuncia a una statualità. Anche in Europa le cose andarono così. L’unificazione fu possibile quando le frontiere non furono più contese. Solo frontiere certe sono sormontabili”. Per questo, ha continuato Spinelli, “è così importante che sia l’Unione – non solo una serie di suoi Stati – a compiere il gesto decisivo: riconoscere ai Palestinesi il riscatto di una statualità. Se il gesto non viene compiuto, i governi israeliani proveranno un sollievo breve. Ricadranno in sempre nuove guerre, come i sonnambuli nazionalismi che distrussero l’Europa”. (Daniela Padoan)

Fonte

Perché l’Europa deve riconoscere lo Stato della Palestina

di mercoledì, Novembre 26, 2014 0 , , Permalink
Israele, Giordania, Libano, Siria e Palestina in una fotografia scattata da un membro dell'equipaggio della Stazione spaziale internazionale. Image credit: NASA

Israele, Giordania, Libano, Siria e Palestina in una fotografia scattata dalla Stazione spaziale internazionale. Image credit: NASA.

Strasburgo, 26 novembre 2014. Intervento in plenaria di Barbara Spinelli in occasione della Dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza*

Perché l’Europa deve riconoscere lo Stato della Palestina? Non per indebolire Israele, ma per sanare le sue ferite e restituirgli una forza politica condannata a perire, se è solo forza militare. Perché nessuno Stato può sopravvivere come democrazia se occupa terre non sue. Penso che Israele abbia bisogno di darsi infine frontiere non solo legali ma legittime. Penso che non si possa chiedere ai palestinesi l’assoggettamento senza fine e la rinuncia alla statualità. Anche in Europa le cose andarono così. L’unificazione fu possibile quando le frontiere non furono più contese. Solo frontiere non più contese sono sormontabili.

Israele deve la sua nascita a capitoli neri della storia d’Europa. Ne siamo co-responsabili. Per questo è così importante che sia l’Unione – non solo una serie di suoi Stati – a compiere il gesto simbolico ma decisivo: riconoscere ai Palestinesi il riscatto d’una statualità.

Se il gesto non viene compiuto, i governi israeliani proveranno un sollievo breve. Ricadranno in sempre nuove guerre, come i sonnambuli governi nazionalisti che distrussero l’Europa in nome di un’etnia o una terra colpevolmente sacralizzata.

 

* il voto sulla mozione era previsto per oggi, 26 novembre. È stato rinviato a dicembre, su pressioni del Partito Popolare.