Europa, l’inganno delle celebrazioni

Articolo apparso su «Il Fatto Quotidiano» del 23 marzo 2017.

L’Unione europea si appresta a celebrare il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma manifestandosi sotto forma di un immenso accumulo di spettacoli. Come nelle analisi di Guy Debord, tutto ciò che è direttamente vissuto dai cittadini è allontanato in una rappresentazione.

Le celebrazioni sono il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi. Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”.

La realtà dell’Unione va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali sono i suoi strumenti privilegiati?

La prima cosa che vuole è risolvere a proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo, illustrando il Libro Bianco della Commissione sul futuro dell’UE, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere UE deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora Presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati.

In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi.

La difesa europea e anche l’Europa a due velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro: siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica, solidarietà e pace alle frontiere e nel mondo. Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’UE. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente.

All’indomani della crisi del 2007-2008 la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra.

La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione UE), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori: come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non.

Se avesse deciso di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è col tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle forti (nazionali o sovranazionali).

Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.

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Le accuse rivolte alle Ong che fanno soccorso umanitario nel Mediterraneo rispondono a direttive politiche degli Stati membri?

COMUNICATO STAMPA

Bruxelles, 22 marzo 2017

Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta nello scambio di opinioni con Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex, nel corso del “Dibattito congiunto sulle attività volte a rendere pienamente operativa la guardia di frontiera e costiera europea” che si è svolto oggi a Bruxelles, nella Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo.

«C’è un punto specifico del Rapporto Risk Analysis for 2017 che mi preoccupa e mi è poco chiaro. Mi riferisco al paragrafo 6.1 a pagina 32, dedicato alle operazioni di Ricerca e Salvataggio nel Mediterraneo centrale, in cui le Ong vengono indicate come elementi di pull factor nelle migrazioni. Secondo Frontex, le loro operazioni di Search and Rescue aiuterebbero, pur in maniera non intenzionale, i trafficanti e i criminali. Questa affermazione mi preoccupa e vorrei sapere se ci sono direttive politiche degli Stati membri in tal senso, dal momento che in Italia la Procura di Catania sta facendo indagini sulle Ong basandosi sullo stesso tipo di considerazioni, e in Belgio il ministro della migrazione Theo Francken ha accusato Medici Senza Frontiere di causare morti nel Mediterraneo».

Dice bene Di Maio: il voto eversivo chiama violenza

Articolo uscito su «Il Fatto Quotidiano» del 18 marzo 2017.

Che io sappia, nella legge Severino non è scritto che i parlamentari condannati in via definitiva a più di due anni, e interdetti dai pubblici uffici, possono scegliere in piena indipendenza i tempi e i modi della propria decadenza. C’è scritto che “decadono di diritto dall’incarico ricoperto”, cioè automaticamente. Che “non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore”. Le Camere non devono far altro che prenderne atto. È dalla fine del 2015 che avrebbero dovuto farlo, in seguito alla condanna di Minzolini.

Non c’è scritto nemmeno che la legge è sospesa e di fatto annullata perché la maggioranza del Parlamento ha deciso a maggioranza di disapplicarla, creando un precedente che non potrà non essere invocato da altri condannati, tra cui Berlusconi. Non c’è scritto infine che la decadenza dalle cariche pubbliche deve avvenire solo a condizione che il partito (o il governo) cui appartiene il condannato non sia ingiustamente criticato per le sue politiche o sia oggetto di un’offensiva ritenuta politicamente scorretta o distruttiva da parte delle opposizioni. Le due sfere (doveri deontologici di chi ha responsabilità politiche, contenuti delle politiche stesse) sono nettamente separate. Il sen. Minzolini si paragona a Socrate (“ho evitato di bere la cicuta”) e al protagonista del Processo di Kafka. Come minimo, mi paiono paragoni incongrui.

È il motivo per cui ritengo che le dichiarazioni solenni di Luigi Di Maio al Senato siano corrette. Lo sarebbero anche in assenza del possibile do-ut-des denunciato dal Movimento Cinque Stelle: il voto contro la mozione di sfiducia del M5S contro Luca Lotti giovedì, il voto del giorno successivo contro l’applicazione della legge Severino e la decadenza del sen. Minzolini, condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi per peculato sulle spese personali pagate con la carta di credito della Rai (più di 60.000 euro). È stato detto da esponenti del Pd che Di Maio incita alla violenza. Mi limito a constatare che quel che è accaduto in aula nel caso Minzolini equivale a un atto sovversivo contro la democrazia costituzionale, che fissa le regole di separazione dei poteri, sottraendo la giustizia all’influenza politica, e che proclama due cose essenziali: la legge è eguale per tutti e nessuno è di conseguenza al di sopra di essa. La rule of law non è un optional: è il vero sovrano, grazie al quale vengono limitati non solo i tre poteri ma la stessa sovranità del popolo, esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Festeggiare in un’aula parlamentare la trasformazione della rule of law in optional è un gesto verbale che viola la Carta costituzionale.

Se le cose stanno così, è la decisione su Minzolini – e la coincidenza con quella su Lotti– una pericolosa incitazione alla rivolta. Nelle parole di Di Maio si intravvede un monito in questo senso, non una giustificazione della violenza. Un monito alla classe politica – e a chi in Senato ha festeggiato Lotti e Minzolini con baci e abbracci– perché si torni a comportamenti rispettosi del nostro vero sovrano: la legge e lo Stato di diritto. Naturalmente Lotti non è stato condannato e potrà difendersi nei processi, se sarà imputato. Ma fin da ora è lecito dire che la sua parola non può essere messa sullo stesso piano della parola di chi ha rivelato sue condotte scorrette, e cioè dell’Ad di Consip Luigi Marroni. Quest’ultimo infatti ha denunciato in veste di testimone, sotto giuramento, comportamenti di Lotti ritenuti illegali. Lotti afferma che non ha mai contattato Marroni, ma a differenza di quest’ultimo – essendo indagato – non rischia di incorrere nella falsa testimonianza.

L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto al Lingotto che i processi li fanno i tribunali, non i giornali. Inconfutabile verità. Ma dichiarazioni simili trasformano i giudici in soggetti politici e in unica sede chiamata a giudicare: proprio quello che i garantisti pretendono di combattere. Se i politici facessero pulizia in casa propria prima che comincino le indagini e i processi, il lavoro dei tribunali non sarebbe così pesante e lento.

La mia impressione è che in tutta Europa la classe dirigente politica faccia quadrato attorno alla propria impunità, con la scusa di dover arginare la cosiddetta ondata di populismo da cui si sente minacciata. L’accusa di populismo giustifica ogni sorta di malefatta, e in primis la sospensione della democrazia costituzionale e della rule of law. La disinvoltura dei politici che infrangono non solo le leggi ma anche le regole della decenza penalmente non perseguibili –in Francia, in Italia, in Romania– si comprende solo in questo quadro. Se arrivano i barbari tutto è permesso, e “questa roba fa impressione ai barbari”. Nella poesia di Kavafis gli antichi senatori romani scoprono alla fine che le orde non sono affatto arrivate e si chiedono, tutti sgomenti: “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?”.

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Celebrazioni europee fuori luogo

Strasburgo, 15 marzo 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda:

Conclusioni della riunione del Consiglio europeo del 9 e 10 marzo, inclusa la dichiarazione di Roma

Dichiarazioni del Consiglio europeo e della Commissione

Presenti al dibattito:

Donald Tusk – Presidente del Consiglio europeo

Jean-Claude Juncker – Presidente della Commissione europea

Paolo Gentiloni – Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana

Louis Grech – Presidente in carica del Consiglio dell’Unione Europea e Vice Primo Ministro della Repubblica di Malta

Siccome non mi sento di celebrare, né sono oggi fiera dell’Unione, posso dire solo quello mi augurerei si dicesse e facesse, in quest’anniversario.

Mi piacerebbe che l’Unione riconoscesse gli errori che ha fatto, da quando è iniziata la crisi. Che desse assoluta priorità alla giustizia sociale e a un New Deal di grandi dimensioni, perché solo così convincerà i cittadini sempre più disgustati dalle nostre istituzioni.

Mi piacerebbe che smettesse di chiamare populisti tutti coloro che non ottenendo un vero cambio di marcia sentono disgusto, e paura.

Mi piacerebbe che l’Unione cominciasse a pensarsi come terra d’immigrazione, e smettesse di scaricare sull’Africa questioni che noi non sappiamo risolvere, se non con muri e prigioni per rifugiati. Sembrerà un’utopia, ma non dimentichiamo che anche l’unione era, in piena guerra, un’utopia di pochi.

Gli eufemismi dell’Unione europea e i rifugiati

Prefazione di Barbara Spinelli al volume Focus sulle migrazioni, che raccoglie gli atti di tre convegni organizzati a Milano tra il 2015 e il 2016. Per ulteriori informazioni rimandiamo a questa pagina, dove è anche possibile consultare e scaricare gratuitamente la pubblicazione in formato .pdf.

La parola “policrisi” è entrata nel vocabolario europeo in concomitanza con il voto inglese sul Brexit, sostituendosi alla “tempesta perfetta” che andava in voga nel 2007-2008. Ma è parola vuota, perché solo in apparenza crea un legame tra le perturbazioni che sono andate accumulandosi lungo gli anni: la disgregazione sociale scatenata in molti Paesi dalle politiche di austerità imposte con persistente accanimento dalle autorità europee e nazionali; la fuga in massa di rifugiati dalle guerre in Africa, Medio Oriente, Afghanistan; la radicalizzazione e il terrorismo; lo sfaldarsi della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione; la collera e la disaffezione crescente dei cittadini europei; l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Oltre che vuota, la parola è un eufemismo: si dice polycrisis per imbellire quello che in realtà è un fallimento generalizzato, così come gli antichi Romani chiamavano pace le operazioni che avevano trasformato i territori e popoli conquistati in deserti.

Polycrisis infine è un escamotage: i vari dissesti che l’Unione si trova a fronteggiare sono considerati come esterni all’Unione, quasi che le istituzioni europee e i governi degli Stati membri non ne fossero gli attori, ma le vittime. La parola unificante è stata trovata, ma lo stesso non si può dire per le politiche. Si continua a parlare di crisi dei rifugiati – o ancora più nebulosamente di crisi della migrazione – senza riconoscere che la vera crisi è quella dell’Unione, incapace di far fronte alle difficoltà del momento tenendo insieme l’economia, la questione sociale, le politiche di asilo e migrazione, la politica estera e militare degli Stati, la collera dei cittadini costretti a constatare come l’unità solidale fra Europei sia divenuta prima un’ombra di se stessa, poi un guscio vuoto, infine una menzogna.

La questione dei rifugiati svolge in questo degrado un ruolo emblematico ed essenziale per due motivi. Perché scatena nei Paesi dell’Unione paure e xenofobie che vengono sbrigativamente liquidate come populiste o nazionaliste, senza curarsi delle radici sociali delle une e delle altre. E perché la risposta che viene data è una finta soluzione: invece di una strategia seria di asilo e integrazione dei migranti e dei rifugiati si promette una politica di rimpatri in massa nei Paesi di origine e di transito, alla lunga insostenibile legalmente perché negoziata e attuata in violazione di precisi articoli della Convenzione di Ginevra del 1951, che vietano l’espulsione collettiva dei richiedenti asilo. Non solo: la questione dei rifugiati, come quella del terrorismo, facilita l’instaurarsi di un diritto emergenziale permanente, che svuota le Costituzioni nazionali e la Carta europea dei diritti fondamentali e che alimenta il “federalismo post-democratico degli esecutivi” denunciato anni fa da Jürgen Habermas.

***

Il 2016 sarà ricordato come l’anno in cui l’Unione europea avrà definitivamente rotto il patto di civiltà su cui fu fondata dopo la seconda guerra mondiale. Per anni, dopo il grande naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, le istituzioni comunitarie e gli Stati membri hanno tacitamente dato il proprio consenso alla morte in mare di migliaia di profughi in fuga verso le coste europee, non essendo stata in grado di proteggere davvero le proprie frontiere, organizzando la loro gestione in maniera tale da poter assicurare senza traumi vie sicure e legali di accesso ordinato all’Unione. Nello stesso anno ha compiuto un ulteriore passo verso il proprio collasso: non solo ha chiuso una dopo l’altra le frontiere interne, smantellando di fatto lo spazio Schengen, ma ha coscientemente deciso di rispedire i rifugiati nelle zone di guerra da cui erano precipitosamente fuggiti e da cui fuggono ancora. Non può essere interpretato in altro modo l’accordo stipulato con il governo turco il 20 marzo 2016, che consente il rimpatrio collettivo di profughi che riescono a raggiungere la Grecia. Migliaia di questi rimpatriati vengono rispediti dal regime Erdogan nelle zone di guerra siriane da cui erano inizialmente scappati: una deportazione che viola le leggi nazionali, europee e internazionali. Il lavoro sporco viene affidato all’alleato turco, ma è l’Europa in prima persona che si rende responsabile del reato di refoulement, dando vita alla mortifera triangolazione dei rimpatri.

Il modo di procedere dell’Unione sarà forse giudicato, un giorno, alla stregua di un crimine. Sarà comunque giudicato come un modo di procedere vano, perché chi prende la via della fuga da guerre e dittature non smetterà di fuggire. Chiusa la rotta balcanica, per forza di cose si sono aperte o riaperte altre vie di fuga: a cominciare dalla rotta del Mediterraneo centrale, che conduce alle coste siciliane e a Lampedusa. Le politiche europee sono al tempo stesso criminogene e del tutto dissennate: non sono i trafficanti a pagarne il prezzo – come si pretende in ripetuti comunicati e come prescritto nel mandato dell’agenzia Frontex ribattezzata Guardia costiera e di frontiera – ma i profughi e l’Europa tutta intera.

L’Europa paga un prezzo alto in termini di prestigio politico e morale, e per questo l’originario progetto unitario viene spezzato. Gli incentivi a restare insieme e solidarizzare diminuiranno, le destre estreme vengono giustamente accusate di razzismo ma sono loro a dettare ormai un’agenda europea sempre più intrisa di sfiducia reciproca e di misantropia. Per l’occasione va ricordato che la Grecia, messa in ginocchio economicamente da sei anni di inane austerità, è stata lasciata sola e senza soldi anche sulla questione rifugiati. Il circolo vizioso è diabolico: se gli hotspot nelle isole greche non sono in grado di accogliere degnamente e registrare i fuggitivi, è perché l’Unione non assiste economicamente lo stremato governo di Atene, con la scusa che i centri di accoglienza e registrazione non sono organizzati e funzionanti come dovrebbero. Gli assalti ai centri da parte dei neonazisti di Alba Dorata sono giudicati alla stregua di inevitabili danni collaterali dal governo greco come dalla governance europea. Lo stesso dicasi per l’afflusso di rifugiati nel secondo Paese di frontiera: l’Italia. Il 3 novembre 2016 è uscito un rapporto di Amnesty International sugli hotspot italiani,[1] che riporta testimonianze di detenzioni arbitrarie, violenze sistemiche, pratiche di tortura usate per costringere migranti e rifugiati a lasciarsi identificare tramite un uso della forza sproporzionato che il diritto interno e internazionale vietano espressamente. Il rapporto è caduto nel silenzio perché il ricorso alla violenza nel prelievo delle impronte digitali è non solo permesso dalle autorità nazionali ed europee, ma addirittura raccomandato. A ciò si aggiungano i muri eretti ai confini tra Grecia e Repubblica ex jugoslava di Macedonia (Idomeni) e il rifiuto di quasi tutti gli Stati Membri dell’Unione (Portogallo escluso) di ricollocare nei propri Paesi i fuggitivi approdati in Grecia o Italia.

Non va trascurata in questo quadro la menzogna che circola nei Paesi dell’Unione a proposito dei rifugiati. Si parla di invasione del nostro continente, di esodo biblico, quando basta studiare le cifre per scoprire l’evidenza: su 65 milioni di rifugiati nel mondo, un milione circa ha raggiunto l’Europa nel 2016. È appena lo 0,2 per cento della sua popolazione. La maggior parte dei rifugiati nel mondo è confinata oggi in Africa, non in Europa, negli Stati Uniti o in Australia.

Vie alternative esistono, per affrontare le indubbie difficoltà connesse all’afflusso di rifugiati e migranti. Occorre aprire corridoi umanitari sicuri e legali, e ammettere una buona volta che trafficanti e mafie da sempre proliferano in situazioni di non legalità, dunque di caos. Occorre immaginare alternative alla gabbia imposta dal Regolamento di Dublino (primo e unico responsabile è il Paese dove approdano i profughi), assistere le nazioni più esposte come Italia e Grecia, non criminalizzare i profughi e le associazioni che cercano di garantire la loro incolumità e il loro diritto a fuggire da Paesi resi invivibili da guerre e devastazioni di cui gli Europei, con l’amministrazione Usa, sono in buona parte responsabili, nell’ “arco del caos” che dall’Africa del Nord si estende fino all’Afghanistan. È significativo e disastroso il fatto che le guerre antiterrorismo degli ultimi quindici anni non vengano mai incluse nella definizione della presente “policrisi”, come cause principali delle fughe di sfollati e richiedenti asilo.

Non per ultimo, occorre mobilitare il pensiero e le azioni adottando una veduta lunga su quel che accade: l’Europa sotto i nostri occhi sta mutando, dobbiamo cominciare a vederla come un nuovo crogiuolo di popoli, sapendo che gran parte dei rifugiati sono destinati a restare con noi per lungo tempo e a divenire i nostri futuri con-cittadini. Non sono in gioco le ideologie, multiculturali o no. È in gioco l’adesione più o meno consapevole al principio di realtà. Si parla di crisi dei migranti, e nella migliore delle ipotesi di crisi dei rifugiati, quando a tutti gli effetti la crisi – o per meglio dire la malattia politica – è delle istituzioni nazionali e di quelle europee. Si parla di failed states in Africa e Medio Oriente, e non ci si accorge che l’Europa nel suo complesso ha sbagliato politiche sino a divenire essa stessa un failed state.

Inutile dare più poteri agli organi sovrannazionali e cercare rifugio nelle tecniche istituzionali, se tutte queste politiche non cambiano. Inutile denunciare gli Stati membri nel tentativo di risparmiare le critiche a istituzioni comuni come la Commissione o la Banca centrale, se non si rimettono in questione le disastrose politiche difese ottusamente e in perfetta sintonia dagli uni come dalle altre. Le istituzioni comuni hanno ormai una loro dinamica autonoma, e hanno irrimediabilmente perso l’innocenza che pretendono di incarnare. Non c’è da meravigliarsi se tanti cittadini europei – come si è visto nel Brexit – si ribellano alla paralisi diffusa delle intelligenze governanti scegliendo come motto unificante il desiderio di “riprendere il controllo” dei propri Stati, delle proprie frontiere, e anche delle proprie democrazie.

26 novembre 2016

[1] Amnesty International, Hotspot Italia: come le politiche dell’Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti, 3 novembre 2016.

Interrogazione in merito agli effetti delle ordinanze emesse dal Tribunale dell’Unione Europea sulla “Dichiarazione UE-Turchia”

Il 2 marzo 2017 Barbara Spinelli ha presentato un’interrogazione con richiesta di risposta scritta alla Commissione Europea (Regola 130), in merito agli effetti delle ordinanze emesse il 28 febbraio 2017 dal Tribunale dell’Unione Europe sulla così detta “Dichiarazione UE-Turchia”.

Le cause in esame riguardavano la vicenda di due cittadini pachistani e un afgano che avevano raggiunto la Grecia dalla Turchia nel 2016, dove avevano presentato domanda di asilo. In tali domande sostenevano che, se rimpatriati nei rispettivi paesi di origine, avrebbero rischiato di essere soggetti a persecuzione. A fronte di tale possibilità, e del rischio di essere rispediti in Turchia in forza della “Dichiarazione UE-Turchia” laddove la loro domanda di asilo fosse stata respinta, hanno deciso di promuovere un ricorso di fronte al Tribunale dell’Unione Europea – azione di annullamento ai sensi dell’articolo 263 del TFUE – contestando la legalità della Dichiarazione in esame.

Il Tribunale ha dichiarato la propria incompetenza sostenendo che “in un ricorso promosso ai sensi dell’articolo 263 TFUE, la corte non ha giurisdizione per decidere della legalità di un accordo internazionale concluso dagli Stati Membri”.

Testo dell’Interrogazione:

Subject: Effects of the General Court’s orders on the EU-Turkey Statement

On 28 February 2017, the General court of the European Union ruled on the cases NF, NG and NM v. European Council (Cases T-192/16, T-193/16 and T-257/16) affirming that independently of whether the EU-Turkey Statement constitutes a political statement or, on the contrary, a measure capable of

producing binding legal effects, it cannot be regarded as a measure adopted by the European Council, or, moreover, by any other institution, body, office or agency of the European Union, or as revealing the existence of such a measure that corresponds to the contested measure. Furthermore, the Court considered that, even supposing that an international agreement could have been informally concluded during the meeting of 18 March 2016, that agreement would have been an agreement concluded by the Heads of State or Government of the Member States of the European Union and the Turkish Prime Minister.

In view of the above, if the EU-Turkey Statement had to be considered an international instrument, what would be the legal basis for the involvement of the EU institutions in its implementation?

Does the Commission consider the commitments already made on the basis of this text to be compatible with the orders issued by the General Court?

Esclusione di Rom, Sinti e Caminanti dal ruolo di rappresentanti istituzionali nella creazione della Strategia Nazionale di Inclusione della città di Roma

Interrogazione con richiesta di risposta scritta
alla Commissione
Articolo 130 del regolamento
Barbara Spinelli (GUE/NGL)

Oggetto: Esclusione di Rom, Sinti e Caminanti dal ruolo di rappresentanti istituzionali nella creazione della Strategia Nazionale di Inclusione della città di Roma

La Comunicazione COM(2011) 173 della Commissione Europea sollecita gli Stati membri a elaborare strategie nazionali di inclusione dei Rom. Secondo tale Comunicazione gli Stati membri dovrebbero concepire, realizzare e monitorare le strategie nazionali di integrazione dei Rom in stretta cooperazione e basandosi su un dialogo ininterrotto con la società civile Rom e con le autorità regionali e locali;

Il Consiglio dei Ministri Italiano ha emanato il 28 febbraio 2012 la Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti e prevede la nascita di tavoli di inclusione ove la società civile Rom è chiamata a decidere, in concerto con le prefetture e le amministrazioni, le politiche su casa, lavoro, scuola, sanità e uso del denaro pubblico stanziato dall’Unione Europea sulla base della Comunicazione della Commissione Europea.

Ciò nonostante, rapporti di fonti giornalistiche e attivisti rilevano che tali tavoli non sono stati attuati dalla città di Roma escludendo dunque Rom, Sinti e Caminanti dal ruolo di rappresentanti istituzionali previsto dalla Comunicazione della Commissione e dalla Strategia.

La Commissione è al corrente di questa situazione e ne terrà conto durante le sue prossime valutazioni dei piani di integrazione nazionali?

Fonte: http://www.agenziaradicale.com/index.php/diritti-e-liberta/4370-campi-nomadi-a-roma-la-montagna-ha-partorito-un-topolino

103 firme per un fondo di sostegno agli accademici licenziati in Turchia

Dear HR/VP Federica Mogherini,

Dear Commissioner Tibor Navracsics,

Please find enclosed a letter regarding a recent new purge in Turkey of 4464 public workers, that involved 330 academics and scholars who have been expelled from their positions.

On June 8th, 2016, You presented a new ‘Strategy for international cultural relations‘, which aims to encourage cultural cooperation between the EU and its partner countries and promote a global order based on peace, the rule of law, freedom of expression, mutual understanding and respect for fundamental values.

In the press release, You affirmed that cultural exchange and cultural institutions will be called upon to play a crucial role in strengthening international partnerships.

Considering the grave situation in Turkey, as described also by President Jean-Claude Juncker during the last sitting of the European Parliament, held on the 1st of March, we propose in our letter, co-signed by 102 academics and Members of the European Parliament, the creation of an EU fund having the aim of supporting the Turkish academics and scholars in need.

This fund could be based in Brussels and created in accordance with the framework of EU strategy on the central role of culture in foreign policy. Such a fund would prioritize the protection of Turkish intellectual and cultural life, with a particular focus on freedom of expression and information and the right to have rights.

Thank you very much,

barbara spinelli

Brexit e le minacce alla libera circolazione

Bruxelles, 1 marzo 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda:

  • Violazione degli attuali diritti di libera circolazione dei cittadini europei che risiedono nel Regno Unito e ricorso a provvedimenti di allontanamento dopo sei mesi

Interrogazione orale 

Presenti al dibattito:

Věra Jourová – Commissario europeo per la giustizia, i consumatori e la parità di genere

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di co-autrice dell’interrogazione orale.

Se ci rivolgiamo alla Commissione con questa interrogazione è perché vogliamo dare voce ai più di 3 milioni di cittadini europei che vivono in Inghilterra, e al milione e più di cittadini britannici che vivono nell’Unione. L’ansia degli uni e degli altri è grandissima, e i loro diritti di circolazione, di soggiorno, di lavoro dovranno essere garantiti nella maniera più dettagliata nel futuro accordo di recesso.

Contrariamente a quanto affermato dai fautori del Brexit infatti, sarà estremamente difficile far valere i loro diritti acquisiti. Molte menzogne sono state raccontate in occasione del referendum sulle possibilità di appellarsi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo o al diritto internazionale, troppo silenziosi e reticenti sono stati su questo punto i fautori del Remain, ed è cruciale che almeno la Commissione parli chiaro.

La House of Lords lo ha già detto in modo inequivocabile: in assenza di accordo negoziato, le conseguenze della perdita dei diritti di cittadinanza europea saranno severe.

Per questo è importante sapere come la Commissione intenda procedere, per far fronte alle infrazioni di cui il Regno Unito si è reso responsabile, negli ultimi anni, con leggi molto restrittive sulla residenza dei cittadini europei in Inghilterra. Fino al giorno in cui si raggiungerà un accordo di separazione il Regno Unito è soggetto al diritto europeo, alla Direttiva sulla libera circolazione, e deve dunque rispondere delle eventuali sue violazioni unilaterali, allo stesso modo in cui sono obbligati a farlo tutti i Paesi membri. Fino ad allora, non potrà limitarsi a dire che l’Inghilterra farà entrare dall’Unione solo “the brightest and the best”, oltre naturalmente i più benestanti, come si ripromette di fare dopo l’uscita.

Tajani e il refoulement dei migranti in Libia

Bruxelles, 1 marzo 2017

Barbara Spinelli è intervenuta all’inizio della miniplenaria del Parlamento europeo per chiedere chiarimenti a nome del gruppo Gue-Ngl sull’intervista rilasciata da Antonio Tajani al gruppo di stampa tedesco Funke Mediengruppe, in cui il neo eletto Presidente del Parlamento europeo ha sostenuto la necessità di tenere migranti e rifugiati nei campi di detenzione libici per un periodo di tempo indefinito. 

Nella sua risposta, il Presidente ha dichiarato di non aver auspicato la costruzione di campi di concentramento: un’accusa mai formulata da Spinelli, e purtroppo ripresa da alcuni giornali internazionali.

Di seguito l’intervento in aula:

«Mi rivolgo a lei, Presidente, appellandomi all’articolo 22 del regolamento, perché sono stupita da quanto ha detto ieri alla stampa tedesca sugli accordi di rimpatri in Libia. Senza che il Parlamento ne avesse ancora discusso, e conoscendo le obiezioni di tanti deputati, si è dichiarato favorevole a campi di detenzione in Libia, dove migranti e rifugiati potranno essere rinchiusi – cito – “anche per anni”.

Il mio gruppo, ma non solo, è contrario all’accordo. Anche l’Alto Commissariato Onu per i diritti dell’uomo ritiene la Libia uno Stato non sicuro dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. Nell’intervista Lei dice che non dovranno essere campi di concentramento, e ci mancherebbe! Non so però come l’Unione possa garantirlo, non essendo la Libia un protettorato. Sono stupita perché a suo tempo Lei promise di essere un Presidente imparziale, rispettoso delle diversità di quest’aula. Temo sia una promessa non mantenuta».

Si veda anche:

Tajani’s position on locking up refugees in Libya condemned by GUE/NGL