Le armi spuntate contro Meloni

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 agosto 2022

Niente luna di miele per Giorgia Meloni, se diverrà presidente del Consiglio: neanche se le destre otterranno una maggioranza parlamentare di due terzi e potranno cambiare la Costituzione senza dover ricorrere a referendum.

Basta attenersi al principio di realtà: il successo previsto dai sondaggi non sarà per nulla invidiabile, gli sforzi cui i vincitori si dovranno sottoporre saranno immensi, e la candidata n. 1 delle destre sembra esserne consapevole. Dell’economia italiana parla senza ottimismi. Gli esperti del suo campo – da Giulio Tremonti a Guido Crosetto – ripetono che il futuro sarà durissimo, in sintonia con l’Authority per l’Energia che pronostica per l’autunno il raddoppio delle bollette già oggi triplicate e un “rischio di tenuta del sistema elettrico”. Crosetto chiede un “patto con le opposizioni” per fronteggiare “momenti di difficoltà spaventosa” e conflitti sociali prossimi a guerre civili. A malapena Meloni tiene a freno Lega e Forza Italia, che promettono tagli inauditi alle tasse e Natale tutti i giorni.

A ciò si aggiunga la diffidenza con cui Meloni sarà osservata – meglio dire: sorvegliata – nell’Unione europea, nella Nato e in patria. Si sa che son sorveglianze umilianti: la Grecia le ha subite per 12 anni e ne esce impoverita e meno sovrana. Anche di questo la leader di Fratelli d’Italia è forse cosciente, visto che sulla guerra in Ucraina si è subito schierata a fianco della Nato, condividendo l’escalation verbale e militare di Biden. Ogni giorno le viene rinfacciata la vicinanza a Orbán, ma quest’ultimo ha scelto una neutralità sulla Russia che l’Italia non si permette più dagli anni di Moro e Andreotti, come dimostrato dal vistoso atlantismo di Draghi. L’Ungheria ha 9,7 milioni di abitanti e pesa infinitamente meno di un’Italia proiettata nel Mediterraneo dei conflitti permanenti.

Queste considerazioni sono assenti nella campagna condotta da chi avversa le destre, specialmente nel partito corposo di Enrico Letta oltre che nel quarto polo di Calenda e Renzi (chiamato terzo perché il M5S, essendo stato scomunicato, è escluso e anzi dato per morto). L’argomento principale dell’ex sinistra centrista è la contiguità di Fratelli d’Italia con il neofascismo, con la Fiamma nel simbolo: improbabile che Meloni perda per questo i voti operai tolti alla sinistra. Le rimproverano anche l’opposizione a Draghi, fingendo di non sapere che sono stati i metodi centralizzatori e le politiche di Palazzo Chigi a gonfiare, come in Francia, le vele della destra estrema.

Meloni è anche sospettata di puntare sull’immagine femminile senza essere femminista: un’accusa grottesca (le conservatrici femministe son rare), e non di rado fuori luogo. Meloni ha detto per esempio che la legge sull’aborto va pienamente rispettata, ma che va meglio applicata “la prima parte della legge, relativa alla prevenzione, per dare alle donne che lo volessero una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell’aborto”. Non vedo cosa ci sia di maligno nella volontà di aiutare le donne che non vorrebbero abortire, e lo fanno non per libera scelta ma per necessità, economica o familiare.

L’unico che guarda con lucidità al rischio Meloni, evitando il controproducente allarme fascismo, è Conte, secondo cui le destre al comando si riveleranno una “tigre di carta”, visto che saranno obbligate a “smontare le loro ricette” una dopo l’altra: “In una fase così delicata, che risposte può dare una coalizione che ha ritenuto prioritario trovare la quadra sulla spartizione dei collegi prima che sul programma? Salvini e Berlusconi giocano a chi la spara più grossa sulla Flat tax che è una presa in giro, mentre Meloni ancora non si è capito se la voglia” («Avvenire», 11 agosto). E a proposito del presidenzialismo aggiunge: “L’ipotesi di un centrodestra che cambia la Carta costituzionale è sicuramente preoccupante; la questione però è capire come scongiurarlo. […] non si può pensare di vincere rispolverando l’incubo dell’orda nera che marcia su Palazzo Chigi: è un refrain che non ha mai funzionato. Bisogna vincere sui temi, sull’idea di Paese che si propone”. Anche l’Unione Popolare di De Magistris, se vuol crescere, farà bene a battersi sulla questione sociale e la riconversione ecologica, evitando l’insidioso refrain sul fascismo.

Intanto Letta (che avendo perso Calenda ha ingaggiato Carlo Cottarelli, e ha ammesso la sinistra di Fratoianni “solo per ottenere l’adesione dei Verdi”) resta aggrappato a Draghi, scommettendo sul suo ritorno se le destre si sfasciassero, nella convinzione che il banchiere centrale abbia risanato l’Italia e innalzato il suo prestigio, in patria e fuori. Purtroppo le cose stanno diversamente. Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha vantato “una crescita straordinaria”, vedendo giusto “nuvole all’orizzonte” quando invece son tempeste. Non ha contato nulla nel conflitto russo-ucraino. Ha gestito male il ritorno del Covid in primavera. Non ha fatto nulla per negoziare un adeguamento del PNRR all’economia di guerra cui siamo condannati.

L’opposizione sarebbe efficace se smitizzasse l’agenda Draghi, neoliberista e inadatta ai tempi di povertà, razionamento dell’energia, precariato. Da mesi il ministro Cingolani echeggia l’ottimismo di Palazzo Chigi, ripetendo la stessa bugia: che possiamo star tranquilli, che abbiamo gas a sufficienza.

Un’altra pecca rinfacciata a Meloni è il blocco navale dei migranti, giudicato “antieuropeo”. Accusa giusta, se non fosse intrisa di menzogne e ipocrisie. Fu il governo Gentiloni a stringere accordi con la Libia, nel 2017, perché bloccasse i fuggitivi anche con la violenza. È l’Unione europea che finanzia le guardie costiere della Libia chiudendo gli occhi sui suoi Lager di tortura e morte. È l’Unione che dai tempi del governo Renzi, nel 2016, paga la Turchia perché freni la fuga di siriani e afghani (6 miliardi di euro, estesi nel giugno 2021 sotto il governo Draghi). È sempre l’Ue che da giugno finanzia le guardie costiere egiziane (80 milioni di euro) per contrastare le migrazioni in Italia.

Tra i ministri Salvini e Minniti (Pd) la differenza non è grande, per quanto riguarda i patti con Stati autoritari o falliti. Ben prima del Memorandum italo-libico l’Onu aveva dichiarato, nel 2016: “La Libia non è un Paese sicuro e i rimpatri sono dunque illegali”. Ma l’Onu conta poco se paragonata alla Nato: nelle molte guerre occidentali, in quelle russe e sull’immigrazione. Una tragedia che precede la possibile vittoria di  Giorgia Meloni.

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Perdere le elezioni: l’operazione Letta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 agosto 2022

Prima ancora che cominci la campagna elettorale possiamo dare per scontate due cose: la vittoria delle destre e con essa lo stravolgimento presidenzialista della Costituzione, ottenibile con una maggioranza di due terzi senza bisogno di referendum.

Tutto fa pensare che il guazzabuglio elettorale confezionato da Enrico Letta lo sappia, l’accetti, forse perfino lo voglia. Che il Pd finga di voler vincere, quando invece si è tramutato non solo in partito centrista ma in un ufficio di collocamento che spartisce seggi con partitini affamati di posti e visibilità in TV. Come nel 2008 quando Veltroni affossò il governo Prodi e oppose all’Ulivo la “vocazione maggioritaria” del Pd, con l’intento/speranza di divenire primo partito italiano ma perdendo clamorosamente le elezioni.

Se così non fosse, se esistesse una coalizione dotata di un minimo di realismo e decisa a combattere seriamente le destre, la storia del dopo-Draghi non sarebbe sfociata nelle scemenze di questi giorni, che alcuni nobilitano chiamandole suicidio. Innanzitutto Letta avrebbe ripreso i contatti con Conte, non insisterebbe nel giudicare imperdonabile un atto di sfiducia che senza lo strappo di Lega e Forza Italia non avrebbe privato Draghi della maggioranza, non avrebbe adescato con qualche seggio Bonelli e Fratoianni (il quale di sfiducie ne ha espresse cinquantacinque) dando a credere che incorporando Fratoianni si allarga a sinistra. Dal vicolo cieco di veti e controveti si poteva uscire imboccando la via di un’alleanza elettorale fra diversi, Conte compreso, e però unita da un pensiero dominante: proteggere la Costituzione da sovvertimenti più volte bocciati dagli italiani. Nel guazzabuglio mancano sia il principio di realtà sia il pensiero dominante.

Ma soprattutto, il Pd non avrebbe scritto con Calenda il patto politico-ideologico che vede un partitino e un leader dai toni sguaiati esercitare un’inaudita egemonia culturale sul Pd. Ora si capisce come mai Letta si sia incaponito per mesi a definire “largo” il campo con 5 Stelle, rifiutando l’aggettivo “progressista” preferito da Conte o Bersani. Perché già lavorava a un neocentrismo che non contemplasse più la divaricazione fra destra e sinistra (fra Agenda Draghi e Agenda Sociale) ma introducesse uno spartiacque perdente: lo scontro di civiltà.

Lo spartiacque di Letta e Calenda si adatta alla seconda guerra fredda: da una parte gli “europeisti-atlantisti”, che abbracciano incondizionatamente il riarmo anti-russo deciso da Washington e Nato; dall’altra i “putiniani”, di destra e 5 Stelle, che secondo Letta e Calenda si accingerebbero anche a disfare un’UE già parecchio disfatta per conto suo. Draghi sarebbe stato addirittura silurato dal Cremlino, come ha scritto «La Stampa» per via di una domanda piuttosto banale rivolta da un funzionario dell’ambasciata russa a un rappresentante leghista (“La Lega intende uscire dal governo Draghi?”).

Non a caso Letta ha evocato come riferimento le elezioni dell’aprile 1948. Riferimento ominoso, visto che anche allora si sbandierò uno scontro di civiltà: i comunisti italiani, con cui fino a gennaio si era scritta la Costituzione, venivano dipinti nei manifesti elettorali come scheletri vestiti con l’uniforme dell’Armata Rossa.

Un altro elemento dello spartiacque centrista è rappresentato dall’apologia dell’Agenda Draghi. Subito dopo la caduta del governo il PD l’evocò con prudenza, ma su spinta di Calenda l’Agenda è ora il nerbo del patto fra i due autoproclamati frontmen della campagna (Letta e Calenda), accendendo paturnie ininfluenti in Fratoianni che entra nel cartello spacciandolo per centro-sinistra. Saranno draghiani “il metodo e l’azione” – dice il patto con Calenda – e l’adesione incondizionata alla Nato contro Russia e Cina.

La scommessa di Letta, e ovviamente di Calenda, è che il mini-partito Azione diventi maxi pescando voti a destra. Scommessa inane: le destre sarebbero forse indebolite, almeno al Senato, all’unica condizione di un fronte con 5 Stelle. A Calenda Letta ha regalato uno spazio un po’ meno sproporzionato nei collegi uninominali (24% invece dei 30 promessi) e i camaleonti Di Maio, Gelmini, Carfagna ricevono regalucci. Fratoianni e Bonelli, ottusamente inghiottendo i controsensi di Letta (“Siamo separati ma compatibili… questo patto non è di governo”) si sono infine accontentati di porticine di servizio. “Senza intesa parliamo con Conte”, suonava per qualche ora il ricatto di Fratoianni, non seguito da Bonelli che è fervente atlantista come tutti i Verdi europei.

Col passare dei giorni appare probabile che Draghi sia stato il vero artefice dei presenti garbugli, avendo voluto dimettersi a ogni costo nonostante disponesse di una maggioranza solida e assecondato da Mattarella. I motivi, scrive Giovanni Di Corato nel blog Econopoly, sono sia geopolitici sia economici. Sempre più italiani son contrari all’invio di armi all’Ucraina, dunque meglio andare al voto subito invece che fra un anno, specie se la guerra continua e se Washington apre un secondo fronte contro Pechino, dopo la dissennata visita di Nancy Pelosi a Taiwan.

Intrecciata con la geopolitica c’è poi l’economia: Draghi prevede nuvole, ma sarà uragano. Perfino Giorgia Meloni è in allarme, dice che Draghi “è fuggito”, chiede tramite Guido Crosetto patti anti-crisi con l’opposizione futura. L’Agenda Draghi è fedele al neoliberismo; liberalizza i contratti precari sottopagati; ha scritto riforme della giustizia che intaccano l’autonomia della magistratura e accorciano arbitrariamente i processi; smantella le misure sociali introdotte dai governi Conte (reddito di cittadinanza, decreto dignità, superbonus per l’edilizia). Quanto al salario minimo, il ministro Pd Orlando non fissa cifre e chiede accordi preliminari con le parti sociali, fin qui contrarie o riluttanti. Il disegno di legge sulla concorrenza, infine, liberalizza senza vincoli normativi, a cominciare dai trasporti Uber e dalla privatizzazione dell’acqua, respinta in tre referendum. L’aumento delle spese militari colpisce settori come sanità, scuola, ricerca, e il Welfare inviso alle destre. Nessuna considerazione, infine, per le proteste bipartisan contro il rigassificatore a Piombino, piazzato alle banchine del porto e non a 22 km dalla costa come a Livorno.

Calenda arriva a dire: sì a rigassificatori e termovalorizzatori, “se necessario militarizzando le aree”. Se questi sono i piani e il linguaggio del neo-centro, a opporsi da sinistra non resta che il “campo giusto” di Conte.

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