GUE/NGL MEPs condemn Denmark’s proposal to delay family reunification and seize assets from refugees

PRESS RELEASE

Brussels 25 January 2015

During a heated debate in the European Parliament’s Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs this afternoon, GUE/NGL MEPs condemned a controversial draft law* proposed by the Danish government to empower the authorities to seize valuable assets from refugees in order to pay for their stay when applying for asylum in Denmark, and postpone the right to family reunification for refugees under temporary protection.

On the eve of its expected adoption in the Danish Parliament tomorrow, the draft law was debated this afternoon by Civil Liberties Committee MEPs with Danish Foreign Affairs Minister Kristian Jensen and Minister for Immigration, Integration and Housing Inger Støjberg.

GUE/NGL Coordinator on the LIBE Committee, Cornelia Ernst, said: “Making people wait for three years before they can even apply for family reunification effectively means denying them their right to family life for three years, for no good reason. We are talking about a human right that is very broadly recognised, in Denmark, all over Europe and beyond.”

Danish MEP, Rina Ronja Kari, expressed opposition from within Denmark: “The proposed changes to the Danish asylum legislation are in breach of international conventions and the Danish government has in no way convinced the Parliament otherwise. It is disgraceful that the Danish government does not listen to the Council of Europe when they express their deep concern over the amendments, and their conduct in today’s exchange of views does not suggest that they will listen to the criticism from the Parliament either.”

Italian MEP, Barbara Spinelli, added: “Confiscating jewellery and goods ‘without sentimental value’ is immoral and grotesque: who will define whether an object is of sentimental value to a refugee or not, when it’s not a wedding ring? I also believe it’s unfair to compare an asylum-seeker to an unemployed Dane or EU citizen: a refugee has nothing, not even a bed. In order to receive a return on our ‘investment’ in the reception of migrants, we should instead invest in integrating them as quickly as possible into our labour market.”

Spanish MEP, Marina Albiol Guzmán: “Measures like having to wait for over six years in order to gain permanent residence or making asylum seekers pay for staying at the centres where they’re forced to live are aimed at closing the door to refugees and all migrants.”

“This legislation is racist and xenophobic, and goes against the European Convention on Human Rights, the United Nations’ Convention on the Rights of the Child, the Geneva Convention, and many other European and international treaties. It also goes against all the solidarity compromises of the EU and therefore we expect a strong position from the Parliament and the European Commission to counter this bill that goes against human rights”.

Swedish MEP, Malin Björk, expressed the possibility of an alternative policy: “The Nordic left parties have presented an alternative solution to these repressive measures. A new Nordic Model with better cooperation between our countries, more pressure for a humanitarian EU refugee policy and a dismantling of fortress Europe.”

*Background
The draft law to be passed tomorrow by the Danish Parliament has several different components that will all have a devastating impact on the lives of asylum-seekers, including a 3-year waiting period to access family reunification for beneficiaries of temporary protection, tightening of criteria to obtain permanent residence permits, tightening of rules for revoking refugees’ residence permits, search by police of asylum-seekers and their belongings with a view to confiscating money and valuables to cover the costs of asylum-seekers’ stay, reduction of economic benefits by 10% and the obligation to be housed in asylum centres.

This draft law has been condemned by the UNHCR and Danish NGOs including the Danish Refugee Council. The Council of Europe Commissioner for Human Rights sent a letter to the Danish government on January 9, 2016 condemning these restrictive changes as ‘raising serious concerns of conformity with human rights standards’ asking the Danish government to reconsider these changes to ‘ensure that law and practice fully comply with Denmark’s obligation to uphold refugee protection standards’.  

This new proposal must also be read in conjunction with the amendments to the Aliens Act introduced last November which increased the possibilities of detaining asylum-seekers under ‘special circumstances’ and weaken the judicial review of detention. 

During the debate, the Danish Minister for Immigration insisted despite reference to criticism from the CoE and UNHCR that their proposals ‘live up to all conventions’ and reminded the Committee that the four largest groups of the European Parliament will vote in favour of the law tomorrow.

Turchia, un massacro deliberato e pianificato

Strasburgo, 20 gennaio 2016. Intervento di Barbara Spinelli in plenaria.

TITOLO: Situazione nella Turchia sudorientale

Commissario presente in rappresentanza del vicepresidente Federica Mogherini: Johannes Hahn, Commissario per l’allargamento e la politica di vicinato

Ho co-firmato l’appello dei 1820 accademici turchi, e confermo che una solidarietà mondiale s’è creata con il popolo curdo, colpito da un massacro deliberato e pianificato. In decine di città della Turchia sud-orientale il coprifuoco è permanente da mesi. Mancano cibo, medicine, ambulanze. Sono assalite anche città senza alcuna barricata. A centinaia di uccisi si nega la sepoltura. I firmatari dell’appello sono considerati complici del terrorismo e subiscono vessazioni. Sono violate la Costituzione turca e le leggi internazionali.

La lotta al terrorismo è puro pretesto. Lo scopo è spezzare un popolo che aspira solo a essere riconosciuto come parte del proprio paese. Migliaia di turchi sperano in una mediazione dell’Alto Rappresentante e dell’Onu: per ottenere che si riapra il negoziato tra governo e ribelli curdi che Erdogan ha interrotto. Perché cessi l’eccidio subito.

Rispondendo proprio oggi a una mia interrogazione scritta, la Signora Mogherini dice che Erdogan è nostro alleato sui migranti e contro l’Isis, L’argomentazione non tiene neanche un minuto.


Si veda anche:

1128 accademici turchi contro i crimini di Erdogan in Kurdistan

Interrogazione scritta: violazioni dei diritti umani ai danni del popolo curdo da parte delle forze turche

 

Situazione nel Mediterraneo e necessità di un approccio globale in materia di immigrazione

Strasburgo, 18 gennaio 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra, nel corso della riunione straordinaria della commissione Libertà civili, giustizia e affari interni.

Punto in agenda:

Situazione nel Mediterraneo e necessità di un approccio globale dell’UE in materia di immigrazione

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Co-Relatori: Roberta Metsola (PPE – Malta), Kashetu Kyenge (S&D – Italia)
Relatore per Gruppo GUE/NGL: Barbara Spinelli

Ringrazio innanzitutto le relatrici per l’importante lavoro che hanno svolto.

Tuttavia, avendo ricevuto il progetto di relazione abbastanza tardi, posso reagire solo con un’opinione parziale, per punti.

C’è sicuramente una base solida da cui partire ed elementi che trovo apprezzabili. Penso alla necessità, come avete sottolineato nella Relazione, di dotarsi di un sistema permanente e robusto di search and rescue; alle vie legali di accesso all’Unione, tra cui la possibilità di rivedere la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea in modo da stabilire corridoi umanitari veri; e alla proposta di un meccanismo permanente e vincolante di resettlement. Ritengo giusto che abbiate evidenziato come le differenti forme di aiuto umanitario non debbano essere criminalizzate, anche se non sono molto d’accordo sul fatto che lo smuggling continui a essere giudicato secondo criteri troppo sommari, dunque negativi.

Per quel che riguarda la mancanza di solidarietà tra Stati membri, personalmente proporrei il rafforzamento delle sanzioni agli Stati che non applicano il diritto europeo o si rifiutano di collaborare sulla base dell’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Ci sono invece alcuni punti su cui sono in totale disaccordo: sui rimpatri, sul rapporto con i Paesi terzi e soprattutto sulla questione Turchia e, di conseguenza, sulla lista dei “Stati d’origine sicuri”. Ancora, non condivido il ruolo attribuito a Frontex e il giudizio sugli “hotspot”. In quest’ultimo caso, il punto di vista della Commissione mi sembra sia stato accolto troppo acriticamente.

Il problema della democrazia in Polonia

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Sessione Plenaria di Strasburgo, 19 gennaio 2016

Punto in agenda:

Situazione in Polonia

  • Dichiarazioni di Consiglio e Commissione

Presenti:

  • Bert Koenders, ministro degli affari esteri dei Paesi Bassi, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio.
  • Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione e Commissario per la qualità della legislazione, relazioni interistituzionali, Stato di diritto e Carta dei diritti fondamentali.
  • Beata Szydło, Primo Ministro della Repubblica di Polonia.

Condivido la preoccupazione di molti colleghi. Il neonazionalismo che il partito di governo lusinga, i provvedimenti che secondo tanti polacchi limitano i poteri della Corte costituzionale e dei media: tutto ciò è in contrasto con i principi che fondano il progetto europeo. Al tempo stesso vorrei ricordare questo: se la Polonia ha votato un governo così critico dell’Unione, è perché l’Unione stessa, con le sue politiche di austerità, ha creato in quel paese disuguaglianze gravissime, e un risentimento sociale che solo la destra ha saputo intercettare. Anche la giustizia sociale è un diritto europeo, iscritto nei Trattati.

Invito infine l’Unione a non usare criteri diversi in Ungheria, in Polonia. I governi vanno trattati allo stesso modo, e la Polonia non deve pagare un prezzo più alto solo perché il partito al governo fa parte di un gruppo meno potente del Partito popolare.

Grazie.

Interrogazione scritta: violazioni dei diritti umani ai danni del popolo curdo da parte delle forze turche

Interrogazione con richiesta di risposta scritta P-012088/2015
alla Commissione (Vicepresidente / Alto rappresentante)
Articolo 130 del regolamento
Barbara Spinelli (GUE/NGL), Martina Anderson (GUE/NGL), Lynn Boylan (GUE/NGL), Liadh Ní Riada (GUE/NGL), Matt Carthy (GUE/NGL), Elly Schlein (S&D), Stelios Kouloglou (GUE/NGL) e Tania González Peñas (GUE/NGL)

Oggetto: VP/HR – Violazioni dei diritti umani ai danni del popolo curdo da parte delle forze turche

La Turchia fa parte dei 47 membri del Consiglio d’Europa ed è uno dei paesi che hanno presentato domanda di adesione all’Unione europea. Gli attacchi contro la popolazione curda al confine con la Siria e con l’Iraq in atto dal luglio 2015 obbligano l’UE a monitorare e controllare le operazioni della Turchia alla luce degli obblighi internazionali ed europei in relazione ai diritti umani. Tali attacchi vengono condotti simultaneamente al nuovo impegno militare della Turchia nella guerra contro lo Stato islamico (Daesh), portata avanti dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Il Parlamento sta rafforzando le proprie azioni in materia di diritti umani al fine di garantire che i diritti umani e la democrazia siano il punto focale degli interventi e delle politiche dell’UE.
1.    Le operazioni militari turche sono conformi a tutti gli strumenti e obblighi europei concernenti la tutela dei diritti umani, in particolare alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sugli articoli 1, 3 e 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
2.    La guerra contro lo Stato islamico giustifica il fatto che i curdi che combattono contro il Daesh vengano abbandonati e che ci si dimentichi completamente della battaglia che essi hanno combattuto a Kobane?
3.    Come garantisce l’Unione europea la protezione dei civili curdi nelle aree colpite?


 

P-012088/2015
Risposta della vicepresidente Mogherini
a nome della Commissione
(20.1.2016)

La Turchia è un partner chiave nella coalizione internazionale contro il Da’esh, come riconosciuto nelle conclusioni del Consiglio “Affari esteri” del 9 febbraio 2015. Il paese ora accoglie inoltre il più elevato numero di profughi al mondo, costituito da oltre 2 milioni di persone fuggite dalle zone di conflitto nella regione, compresi i curdi. Le autorità turche stimano di aver sostenuto circa 8 miliardi di dollari di costi diretti per gli aiuti ai profughi.

La situazione in Siria e in Iraq richiede maggiore dialogo e cooperazione tra la Turchia e l’UE nel campo della politica estera. L’UE incoraggia costantemente la Turchia a definire la sua politica estera in modo complementare e coordinato con l’Unione, allineandosi progressivamente alle strategie e alle posizioni dell’UE. Al vertice UE-Turchia del 29 novembre 2015, l’UE ha convenuto di ampliare e intensificare il dialogo politico in tutti i settori, compresi quelli della politica estera e di sicurezza, della migrazione e della lotta contro il terrorismo.

L’UE continuerà inoltre a erogare aiuti umanitari ai profughi e a mirare a una soluzione a lungo termine per il loro reinsediamento. Il piano d’azione comune è stato attivato e la Commissione ha adottato lo strumento per la Turchia a favore dei rifugiati, con il quale si prefigge di raccogliere fondi per un valore di 3 miliardi di euro. Inoltre, è stato annunciato lo stanziamento di un miliardo di euro, nel periodo 2015-2016, per attuare la “strategia dell’UE relativa alla Siria e all’Iraq e alla minaccia rappresentata dal Da’esh”, convenuta in occasione del Consiglio Affari esteri del 16 marzo 2015.

Risolvere la questione curda, che ha provocato decine di migliaia di vittime negli ultimi 30 anni, rappresenterebbe un punto di svolta nella storia della Turchia moderna. Saranno necessari il coraggio di tutte le parti e riforme concrete volte a rafforzare i diritti sociali, culturali e democratici. L’Unione europea ribadisce l’importanza della continuazione di tale processo ed è pronta a sostenere una strategia globale per una soluzione duratura, anche mediante assistenza finanziaria nella fase di preadesione.

Polonia, l’ascesa della destra e le responsabilità dell’Unione

di martedì, Gennaio 19, 2016 0 , , Permalink

Strasburgo, 18 gennaio 2016. Intervento di Barbara Spinelli come relatore del gruppo nella riunione del GUE/NGL

English version

È già molto tempo che discutiamo, in Parlamento, su quel che l’Unione europea possa fare di fronte a più o meno palesi violazioni dei diritti nei Paesi membri. Se ne è già discusso nel caso ungherese, e ora se ne parlerà a proposito del nuovo governo polacco. Ci si domanderà se l’Unione sia attrezzata, visto che ha ottenuto poco in passato. Se funzioni il meccanismo di verifica del rispetto della rule of law, attivato in questi giorni dalla Commissione. Se l’articolo 7 vada rivisto, perché le procedure sono complicate e difficilmente tutti gli Stati membri si pronunceranno contro uno solo di essi. Nuovi meccanismi di autocorrezione sono in discussione, a difesa della rule of law.

Tutto questo è necessario e opportuno, ma quel che vorrei qui analizzare va oltre le procedure e non entra nel loro merito. Sono le radici di questi fenomeni e di queste nuove destre che interessano. È l’assenza di una forte rappresentanza di sinistra che importa capire. Avendo speso frequentato l’Est europeo durante il comunismo e nell’epoca della transizione, proverò a esporvi qualche idea su questo tema.

Innanzitutto, quel che accade in Polonia non è un caso isolato, né cade dal cielo come una brutta sorpresa. La crisi economica, unita a quella dei rifugiati, ha scoperchiato una realtà che le élite europee hanno per lungo tempo volutamente nascosto. L’intero fronte Est dell’Unione dà l’impressione di franare, dal punto di vista della democrazia fondata sui diritti e sulla separazione dei poteri (compreso il quarto potere, quello della stampa indipendente): penso all’Ungheria, alla Repubblica ceca, alle chiusure etniche e russofobiche nei Paesi baltici, e alla Polonia, dove la destra xenofoba e nazionalista ha vinto due volte, nel 2005 e oggi con Jarosław Kaczyński, fratello di Lech che è stato Presidente della repubblica ed è morto nell’incidente aereo del 2010.

Perché frana in questo modo? A mio parere perché la transizione dal comunismo alla democrazia costituzionale non ha funzionato, perché l’allargamento è stato del tutto mal concepito, e perché le élite liberali polacche hanno governato nell’ignoranza di quel che la propria società chiedeva o soffriva. Alcuni parlano di equivoco: i vecchi Stati membri e le istituzioni non avrebbero chiarito, nei negoziati di allargamento, che il progetto europeo non è solo un progetto economico neoliberale, che ha al suo centro il mercato senza freni. In realtà più che di equivoco si dovrebbe parlare di una strategia portata avanti deliberatamente, con una coscienza che crede di essere corretta ma non conosce i propri limiti e le proprie deficienze: cioè con quella che Marx chiama una falsa coscienza. L’Europa dell’ultimo trentennio ha volutamente promosso il trionfo di un’Unione riconfigurata come mercato unico neoliberale, con il risultato che la transizione è stata non dal comunismo allo stato di diritto e a una democrazia costituzionale e inclusiva, ma dal comunismo a quella che Clinton ha chiamato, nel 1992-93, democrazia di mercato. Secondo alcuni la vittoria di tale democrazia metteva addirittura fine alla storia, il che vuol dire: la questione sociale apparteneva ormai ai due secoli scorsi, la lotta di classe pure, la rabbia degli esclusi poteva essere ignorata.

La realtà era ed è completamente diversa. Le politiche economiche che le élite liberali polacche hanno adottato in obbedienza alla dottrina centrale dell’Unione continuano a produrre rabbia sociale. La lotta di classe è tutt’altro che morta, essendo d’altronde un fenomeno intrinseco al capitalismo, non al comunismo. Se essa viene negata, e soprattutto privata della sua natura economico-sociale, la lotta tende a esprimersi comunque, ma secondo linee di divisione deturpate e distruttive. Si esprime lungo linee di divisione nazionaliste, o religiose, o anche moralistiche, come spiega assai bene il sociologo David Ost. [1] Le diseguaglianze sociali prodotte dal neoliberismo crescono, e la rabbia trova le destre estreme ad accoglierla e a snaturarla, trasformandola in odio del diverso, in ricerca del capro espiatorio: odio del diverso etnico, razziale, religioso, morale (penso ad esempio al disoccupato descritto come moralmente condannabile perché pigro). È quello che è accaduto in tutto il fronte Est, ma non dobbiamo nasconderci che accade – da decenni – anche a ovest dell’Unione.

Perché non c’è una sinistra forte in Polonia (né in altri Paesi dell’Est), capace di rappresentare gli interessi dei lavoratori e di chi ha pagato un alto prezzo sull’altare della terapia choc (il famoso Piano Balcerowicz) decisa a Varsavia dopo l’89? Perché tra il gruppo dirigente di Solidarnosc e il Partito comunista c’era accordo di fondo soprattutto su questo: sulla transizione verso la “democrazia di mercato”. A ciò si aggiunga che gli eredi del Pc occupavano per intero l’ala sinistra in Parlamento, ed erano favorevoli in pieno alla “terapia choc”. Spazio per un’altra sinistra non c’era.

Molto prima dell’89 i dirigenti di Solidarnosc – parlo in particolare di Adam Michnik e Lech Walesa – erano convinti che il Paese aveva bisogno di riforme economiche di tipo neo-liberale, e che il pericolo più grande fosse rappresentato dalla lotta di classe e da un sindacato indipendente e rivendicativo. Vorrei citare quanto detto da Walesa nel settembre dell’89: “Non riusciremo a entrare e contare in Europa se costruiamo un sindacato forte (…) Non possiamo avere un sindacato forte fino a quando non avremo un’economia forte”. Secondo un certo numero di analisti, tra cui David Ost, la “tavola rotonda” con il Partito comunista nell’88-’89 fu possibile proprio per questo: perché il sindacato Solidarnosc aveva deciso, già da tempo, di suicidarsi come sindacato. Ricordo una serie di colloqui che ebbi con alcuni rappresentanti di Solidarnosc, prima dell’89: molti di essi non esitavano a tessere l’elogio della politica economica di Pinochet, il modello era quello. Discorsi simili sulla transizione cilena li ascoltai in quel periodo in Ungheria e nei Paesi baltici. L’élite liberale polacca è figlia di Solidarnosc, anche se Solidarnosc ha molti figli, tra cui i fratelli Kaczyński.

Vorrei a questo punto dare alcuni dati sulla situazione socio-economica polacca.

La Polonia è oggi caratterizzata, anche quando cresce economicamente, da un tasso altissimo di disuguaglianza, da povertà diffusa e da una mancanza grave di protezione sociale. Meno della metà della popolazione attiva ha un impiego stabile, il 27 per cento degli occupati sono precari (10 anni fa era il 15 per cento). Il 9 per cento dei giovani sotto i 18 anni vive in povertà assoluta, il 19 per cento lavora dovendo pagare con i propri soldi le assicurazioni sociali, solo il 16 percento degli attivi riceve sussidi di disoccupazione. Nel settore privato, solo il 2 percento è sindacalizzato. Lo Stato si è ritirato da settori chiave, praticamente liquidati (Welfare, ferrovie, ospedali, poste).

Quel che colpisce, in una serie di Paesi dell’Est, è il giudizio che viene dato dalle loro élite liberali delle lotte sindacali. Sono da temere e occultare, non da ascoltare e integrare come ingredienti essenziali di un sistema sociale che diventi inclusivo. Anche in questo caso l’Europa non aiuta: il Welfare è smantellato anche qui, le rappresentanze sindacali sono viste anche qui come un intralcio. Quanto ai Paesi entrati in Europa dopo la transizione, la verità è che sono entrati praticamente sprovvisti di Welfare. È accaduto così che le destre estreme hanno sequestrato la rabbia popolare suscitata dalle politiche di austerità iniziate negli anni ’90, presentandosi come i portavoce dei cittadini più oppressi.

L’Unione europea fa mostra di preoccuparsi di queste involuzioni, ma a mio parere ha contribuito a questo sequestro e snaturamento del conflitto sociale, e l’ha anzi favorito. Essendo fautrice essa stessa di una democrazia ridotta al libero mercato, le principali condizioni che ha posto per l’adesione sono state, nella sostanza, di carattere neo-liberale. Ha chiesto, è vero, che alcune regole dello Stato di diritto venissero rispettate, nei cosiddetti criteri di Copenhagen, ma la sua visione della democrazia è stata essenzialmente procedurale.

Questo vale per una serie di Paesi dell’Est, considerati ottimi scolari perché applicano le politiche di austerità. Ora la Commissione e il Presidente del Parlamento europeo si indignano, ma hanno fatto poco per difendere un progetto europeo che abbandonasse la falsa coscienza di una fine della storia e si accorgesse che la questione sociale è più viva che mai. In altre parole, la svolta di destra in Polonia o in Ungheria non andrebbe considerata un’anomalia: “ha radici forti nella pratica e nell’ideologia che ha dominato l’Europa nell’ultimo quarto di secolo”. [2]

Altro errore dell’Unione è stato lasciare che la questione della pace e della guerra fosse pensata e in parte gestita dai propri Paesi di frontiera, a Est e nei Paesi baltici (la stessa cosa è avvenuta con la Repubblica federale durante la guerra fredda: era il baluardo dell’Occidente). Il risultato è stato che l’Ungheria ha cercato un proprio rapporto con la Russia, e tutti gli altri hanno deciso di fidarsi più degli Stati Uniti e della Nato che dell’Unione. All’origine di questo sbandamento, un grave peccato di omissione: è mancata e manca una politica seria verso la Russia, indipendente da Stati Uniti e Nato, e si è lasciato che rinascesse, a Est della nuova Unione allargata, la mentalità del baluardo – questa volta anti-russo – che aveva caratterizzato durante la guerra fredda le marche di confine della vecchia Comunità. Il più recente segnale lanciato in questo senso è la domanda, presentata nei giorni scorsi dal governo di Varsavia, di ottenere sul proprio territorio, al più presto, una base militare durevole e una difesa antiaerea permanente della Nato, per difendersi dalle minacce di Mosca.

Concludo ricordando che non mancano in Polonia forze di sinistra che avversano fortemente le politiche adottate finora, molto critiche della destra estrema come delle élite liberali che hanno governato negli anni scorsi. Penso in modo speciale al movimento Razem (“Insieme”), che si ispira a Podemos. È una forza ancora esigua, e non presente in Parlamento. Varrà la pena invitare i suoi rappresentanti a spiegare le loro posizioni e la situazione del loro Paese nel nostro gruppo, e di sostenerli se lo riterremo opportuno.

[1] David Ost, Defeat of Solidarity: Anger and Politics in Postcommunist Europe, Cornell University Press, 2006.

[2] Cfr. Gavin Rae, http://beyondthetransition.blogspot.be/2015/12/the-liberal-roots-of-polish-conservatism.html

Poland, the rising of the far-right and the responsibilities of the Union

Speech of Barbara Spinelli, shadow rapporteur of GUE/NGL, during the group meeting
Strasbourg, 18 January 2016

Versione italiana

It is already a long time that we are discussing, in the European Parliament, on what the Union should do when facing with clear violations of fundamental rights in Member States. We already raised this issue with regard to Hungary, and we are now considering it again talking of the new Polish government. We ask ourselves if the Union will be able to deal with this situation, considering that it did not get much in the past; if the rule of law mechanism, triggered in these days by the Commission, will really work; if article 7 needs to be revised, since the procedures provided therein are complex and unlikely the Member States will unanimously apply it against one of them. New mechanisms for the protection of the rule of law are currently under discussion.

This analysis is undoubtedly appropriate and necessary but, in this context, I would like now to focus on something different that goes beyond the procedures and their content i.e. the roots of those phenomena and the rising of far-rights movements. The absence of a strong left-wing representation is equally a matter to understand. Having often frequented eastern European countries during the communist period and the transition, I will try to expose some ideas on this issue.

First of all, what is happening in Poland is neither an isolated incident nor an unwelcome surprise falling from heaven. The economic crisis, together with the refugees’ crisis, has uncovered a reality which the European élite wanted to hide for long time. The entire eastern European area seems on the verge of collapsing from the point of view of the principle of democracy founded on human rights and separation of powers (including the fourth power i.e. the independence of the media): I am thinking of Hungary, Czech Republic, Slovakia, the ethnic and russophobic closures in the Baltic countries, and of Poland, where the xenophobic and nationalist right-wing won for two times in 2005 and today with Jarosław Kaczyński – the brother of Lech, who was President and died in the plane crash in 2010.

Why the system is collapsing in this way? In my view it is happening because the transition from communism to constitutional democracy did not work, the enlargement was misconceived and the Polish liberal élites ruled the country without considering what their society demanded or suffered. Some speak of misunderstanding: the old Member States and the European Institutions did not clarify, during the accession negotiations, that the European project is not a merely neoliberal economic project based on an unbridled market. In reality, rather than misunderstanding we should speak about a deliberate strategy, carried out on the basis of a conscience which believes to be correct but, on the contrary, does not perceive its own limitations and deficiencies: a false consciousness, quoting Karl Marx. Europe, in the last thirty years and more, has intentionally reshaped the idea of Union as a neoliberal single market, with the result that the transition moved from the communism to the market democracy – as Clinton named it in 1992-93 – rather than from communism to the rule of law and a constitutional and inclusive democracy. Some argued that a victory against communism had produced an End of History, which means: the social issue belonged already to the past two centuries, the class struggle too; the rage of those left apart could be ignored.

The reality was and is completely different. The economic policies adopted by the Polish liberal élites, abiding by the Union’s central doctrine, still produce social anger. The class struggle is far from being dead – after all it is intrinsic to capitalism and not to communism. If denied – and especially deprived of its social-economic nature – the class struggle tends to appear in any case, following however spoiled and destructive dividing lines. It will express itself along nationalistic or religious or even moralistic dividing lines, as well described by the sociologist David Ost.[1] As long as social inequalities produced by neoliberalism increase, the anger falls in the arms of the far-right, which converts it into hatred towards the different, into research of a scapegoat: hatred for the ethnic, racial, religious, moral “Other” (for instance, think about the unemployed described as “morally lazy”). This is what happened in the “Eastern front”. But it is also what is happening for decades in the Western part of the Union. We cannot hide this.

How to explain the absence of a strong left-wing, capable of representing the interests of workers and of those who have paid a high price as a result of the choc therapy (the so-called Balcerowicz Plan) adopted in Warsaw after the ’89? The answer is that there was a basic agreement between the leadership of Solidarnosc and the Communist Party to move towards a “market democracy”. Additionally, the heirs of the Communist Party were occupying entirely the left area of the Parliament and were completely in favour of the “choc therapy”. There was no place for another left wing.

Long before 1989, the leadership of Solidarnosc – I refer particularly to Adam Michnik and Lech Walesa – was convinced that the country needed ultra-liberal economic reforms. For them, the greatest danger was represented by the class struggle and an independent and demanding trade union. I would like to quote what Walesa said in ’89: “We will not catch up to Europe if we build a strong trade union (…) We cannot have a strong trade union until we have a strong economy”. [2]

According to some analysts, including David Ost, the “round table” negotiations with the Communist Party in ’88-’89 was possible precisely for these reasons: Solidarnosc had preliminarily decided to commit suicide, abandoning its nature of trade union. I remember some conversation I had with representatives of Solidarnosc just before the ’89: many of them did not hesitate to sing the praises of the economic policy of Pinochet. That seemed to be the model. During the same period, I heard similar arguments concerning the “Chilean transition” in Hungary and in the Baltic countries. The Polish liberal élite is a child of Solidarnosc, albeit one thing must be said: Solidarnosc has many children, including the Kaczyński brothers.

I would like now to provide you with some data regarding the socio-economic situation in Poland.

Today, Poland is characterised – even in a period of economic growth – by a very high rate of inequality, widespread poverty and a serious lack of social protection. Less than a half of the working population has a stable employment, 27 per cent of the workforce is temporary (ten years ago the percentage was 15). 9 per cent of the young population under 18 lives in absolute poverty. 19 per cent of the active population works for paying, through its own income, social insurances, and only 16 per cent of them receive unemployment benefits. In the private sector, only 2 per cent of the working population is member of a trade union. The State has abandoned and practically liquidated key sectors (welfare, rail system, health care, postal services). What strikes me with regard to some Eastern European countries is the opinion that liberal élites have about trade union’s actions. These actions are from their point of view something to fear and hide, and never essential ingredients of an inclusive social system that need to be listened and integrated.

In this case too, the Union does not give any support: the welfare state is experiencing, even in the rest of Europe, the same process of dismantlement, and trade-union representatives are equally perceived as a hindrance. With regard to those States which joined Europe after the transition, the truth is that they acceded almost without any welfare system. In this context, far-right movements have been able to catalyse the anger caused by the austerity policies promoted from the beginning of the ’90, and to present themselves as the spokespersons of the most oppressed citizens.

The European Union appears to be concerned by this involution but – in my view – has actively contributed to the demolition and distortion of the social conflict, even favouring such distortion. The Union was itself the primary promoter of an idea of democracy bent exclusively to the free market, and the main conditions that the Union has created for the accession of new States were based, substantially, on neoliberal features. On one side it is true that Europe has demanded the respect of some rule of law’s criteria – the so-called Copenhagen criteria – in the process of accession but, on the other side, its concept of democracy was minimalistic, i.e. merely procedural.

All of this applies to some Eastern European countries which have been considered excellent pupils for implementing austerity policies.

Now, both the Commission and the President of the European Parliaments seem outraged by these developments, but they have done little to safeguard a European project including the social question and even the social conflict ad an essential ingredient of the project. Nor did they make the effort to abandon the false consciousness of an “ended history”. In other words, the victory of the far right in Poland and Hungary should not be considered an anomaly: “it is rather rooted in the practice and ideology that have dominated over the past quarter of a century”.[3]

The Union made also another mistake i.e. leaving the issue of peace and war in the hands – both from a conceptual perspective and partially in its management – of its front-line States, namely the Eastern and Baltic countries (the same happened during the Cold War with regard to the Federal Republic of Germany: it represented the bulwark of the West). Consequently, Hungary has chosen to strengthen the partnership with Russia while all other States have decided to place their trust more on the United States and NATO than on the European Union.

The above fragmentation originated from the continuous unwillingness of the Union to develop a real and coherent policy with regard to Russia; a policy aiming to become independent from the strategies adopted by the United Stated and NATO. This failure led to the revival, in the Eastern part of the new enlarged Union, of the “bulwark mentality” – in an anti-Russian perspective – which characterised the borderlands of the ancient Community during the Cold War period.

The recent request of the Polish government of establishing a permanent NATO and US troops’ presence in it’s own territory, to ward off security threats coming from Moscow, represents just the latest example in that sense.

I would like to conclude by recalling that in Poland there are left-wing forces which strongly oppose the policies adopted so far and criticise the far-right as well as the liberal élites who ruled the country in the last years. I am referring particularly to the Razem (“Together”) movement, which is inspired by Podemos. It is a small force, not even represented in the Parliament. It could be suitable to invite its representatives to a Group meeting, in order to give them the possibility to explain their positions and the situation in the country, and to support them if we consider this appropriate.

[1]. David Ost, Defeat of Solidarity: Anger and Politics in Postcommunist Europe, Cornell University Press, 2006.

[2] Ibid. pp. 37, 53.

[3]  Cfr. Gavin Rae, http://beyondthetransition.blogspot.be/2015/12/the-liberal-roots-of-polish-conservatism.html

Intervento in qualità di Relatore ombra nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali del 14 gennaio 2016

Punto in agenda:

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Relatori: Mercedes Bresso (S&D-Italia) – Elmar Brok (PPE-Germania)

Relatore ombra per il gruppo GUE-NGL: Barbara Spinelli

Vorrei fare due considerazioni, una sul merito della bozza di Relazione, l’altra sul metodo che seguiremo tutti assieme, co-relatori e “shadow”.

Quanto al merito, sono rimasta molto colpita dall’intervento del collega Elmar Brok. A mio parere, ha giustamente drammatizzato la situazione dell’Unione, quando ha parlato di “anno del destino”. Sono completamente d’accordo con lui. In effetti questo è l’anno in cui un’ulteriore mancanza di trasparenza, di assunzione di responsabilità, rischia di aggravare più che mai la situazione. Perché è vero, citando ancora il collega Brok, che “quel che il cittadino percepisce è dal suo punto di vista la realtà” e, oggi, la realtà appare quantomeno confusa. E non perché l’Unione europea stia accelerando troppo, come sostengono alcuni anche in questa Commissione – non credo che il cittadino chieda di rallentare il processo di integrazione – ma piuttosto perché ritengo che il cittadino voglia comprendere cosa stia succedendo, voglia sentirsi parte integrante di un progetto, voglia soprattutto essere ascoltato e rispettato quando avanza esigenze.

Credo sia importante che la Relazione riaffermi e renda comprensibile il nostro obiettivo, che dovrebbe restare quello di un’”Unione sempre più stretta” cui molti – governi e partiti – vogliono rinunciare.

Vorrei soffermarmi in questo quadro su alcuni temi precisi. Anch’io, come il Gruppo dei Verdi, sono convinta che sia necessario ricorrere con maggiore frequenza alle cosiddette “clausole passerella”, in modo da passare con più frequenza dal voto all’unanimità al voto a maggioranza. Questo renderebbe molte decisioni meno opache.

Sono inoltre preoccupata per il peso sempre più cospicuo assunto da una serie di organismi che, a mio avviso, rappresentano in modo emblematico l’attuale situazione, caratterizzata da una crescente assenza di trasparenza. Penso in particolare all’Eurogruppo. L’Eurogruppo non risponde davanti al Parlamento europeo, non è trasparente, corrobora una sensazione di non-responsabilità. Praticamente agisce al di fuori dei trattati. Non tiene nemmeno i verbali delle proprie riunioni.

Il rafforzamento del suo ruolo è allarmante, proprio se si tiene a mente la percezione che i cittadini hanno delle attività dell’Unione. Penso cose analoghe di altri soggetti, tipo la Bce o Frontex, cui saranno affidati compiti nuovi, anche in paesi terzi, molto simili a competenze di politica estera.

Quanto alle politiche – rifugiati, sicurezza, terrorismo, unione monetaria, clima – la cosa a cui invito è di avere un pensiero lungo, non emergenziale. Il lavoro che state facendo, e per cui vi sono grata per il tempo e le energie che avete dedicato alla Relazione, deve essere fondato su una prospettiva di lungo periodo. Ad esempio, quando si parla di rifugiati, è necessario ricordare che accanto alla sicurezza interna e delle frontiere vanno salvaguardati i diritti, e rispettata sino in fondo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Lo stesso vale per quel che riguarda l’unione monetaria e la politica di austerità. Anche in questo caso è in gioco la salvaguardia dei diritti. In materia di politiche sul clima, presto avremo anche rifugiati climatici; nella Relazione sarebbe opportuno un accenno al tema.

Vengo ora al secondo punto, la questione del metodo. Purtroppo, la vostra Relazione è arrivata molto tardi, l’abbiamo ricevuta soltanto ieri. Non sarebbe male avere il tempo di analizzarla nei dettagli e, forse, poter avere nel frattempo anche un incontro tra Relatori principali e Relatori ombra, proprio per l’importanza del documento su cui state lavorando. A questo proposito mi chiedo se non sia utile uno slittamento della scadenza fissata per la presentazione degli emendamenti, per avere il tempo di discutere in maniera più approfondita i vari punti del Rapporto.

Vi ringrazio ancora entrambi per il lavoro che avete fatto.


Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

1128 accademici turchi contro i crimini di Erdogan in Kurdistan

di sabato, Gennaio 16, 2016 0 , , Permalink

Appello firmato da Barbara Spinelli

As academics and researchers of this country, we will not be a party to this crime!

The Turkish state has effectively condemned its citizens in Sur, Silvan, Nusaybin, Cizre, Silopi, and many other towns and neighbourhoods in the Kurdish provinces to hunger through its use of curfews that have been ongoing for weeks. It has attacked these settlements with heavy weapons and equipment that would only be mobilised in wartime. As a result, the right to life, liberty, and security, and in particular the prohibition of torture and ill-treatment protected by the constitution and international conventions have been violated.

This deliberate and planned massacre is in serious violation of Turkey’s own laws and international treaties to which Turkey is a party. These actions are in serious violation of international law.

We demand the state to abandon its deliberate massacre and deportation of Kurdish and other peoples in the region. We also demand the state to lift the curfew, punish those who are responsible for human rights violations, and compensate those citizens who have experienced material and psychological damage. For this purpose we demand that independent national and international observers to be given access to the region and that they be allowed to monitor and report on the incidents.

We demand the government to prepare the conditions for negotiations and create a road map that would lead to a lasting peace which includes the demands of the Kurdish political movement. We demand inclusion of independent observers from broad sections of society in these negotiations. We also declare our willingness to volunteer as observers. We oppose suppression of any kind of the opposition.

We, as academics and researchers working on and/or in Turkey, declare that we will not be a party to this massacre by remaining silent and demand an immediate end to the violence perpetrated by the state. We will continue advocacy with political parties, the parliament, and international public opinion until our demands are met.

***

Nous, enseignants-chercheurs de Turquie, nous ne serons pas complices de ce crime !

L’État turc, en imposant depuis plusieurs semaines le couvre-feu à Sur, Silvan, Nusaybin, Cizre, Silopi et dans de nombreuses villes des provinces kurdes, condamne leurs habitants à la famine. Il bombarde avec des armes lourdes utilisées en temps de guerre. Il viole les droits fondamentaux, pourtant garantis par la Constitution et les conventions internationales dont il est signataire : le droit à la vie, à la liberté et à la sécurité, l’interdiction de la torture et des mauvais traitements.

Ce massacre délibéré et planifié est une violation grave du droit international, des lois turques et des obligations qui incombent à la Turquie en vertu des traités internationaux dont elle est signataire.

Nous exigeons que cessent les massacres et l’exil forcé qui frappent les Kurdes et les peuples de ces régions, la levée des couvre-feux, que soient identifiés et sanctionnés ceux qui se sont rendus coupables de violations des droits de l’homme,  et la réparation des pertes matérielles et morales subies par les citoyens dans les régions sous couvre-feu. A cette fin, nous exigeons que des observateurs indépendants, internationaux et nationaux, puissent se rendre dans ces régions pour des missions d’observation et d’enquête.

Nous exigeons que le gouvernement mette tout en oeuvre pour l’ouverture de négociations et établisse une feuille de route vers une paix durable qui prenne en compte les demandes du mouvement politique kurde. Nous exigeons qu’à ces négociations participent des observateurs indépendants issus de la société civile, et nous sommes volontaires pour en être.  Nous nous opposons à toute mesure visant à réduire l’opposition au silence.

En tant qu’universitaires et chercheurs, en Turquie ou à l’étranger, nous ne cautionnerons pas ce massacre par  notre silence. Nous exigeons que l’Etat mette immédiatement fin aux violences envers ses citoyens. Tant que nos demandes ne seront pas satisfaites, nous ne cesserons d’intervenir auprès de l’opinion publique internationale, de l’Assemblée nationale et des partis politiques.

 

Link alla petizione con elenco delle firme aggiornato al 10 gennaio


Si veda anche:

15 Turkish academics released after questioning