Lettera a Juncker sulla rule of law

di venerdì, Novembre 25, 2016 0 , , Permalink

Mr Juncker, be Bob the Builder

By Frank Engel, György Schöpflin, Birgit Sippel, Sophie in ‘t Veld, Barbara Spinelli, Ulrike Lunacek

The European Commission’s repeated admonishments of the Polish government for not respecting EU standards on the rule of law have done little this year.

Warning at the end of July of a systemic threat to the rule of law in Poland, the commission gave the Polish government three months to respond, or else.

But there’s the rub.

The Polish government has no intention of taking the measures required by the commission.

But that leaves the only tool left in the toolbox for making member states uphold democracy, the rule of law and fundamental rights, the all or nothing “nuclear” option, of triggering the Article 7 procedure, that may ultimately lead to sanctions, such as suspension of voting rights.

The commission has the power to propose the activation of Article 7, which will be decided by four-fifths of the council, after obtaining the European Parliament’s consent by a two-thirds majority.

Given the seriousness of the conclusion of the commission: a “systemic threat to the rule of law,” you would expect the commission to take the biggest of the few instruments available.

Although Poland is currently in the sights of the commission, “systemic threats” to the rule of law are not confined to Poland alone.

There is nothing like inconsistency in the application of rules to undermine trust and respect for the rule of law.

There isn’t even a lack of capacity to monitor member states evenhandedly.


Two ways of looking at a problem

A recent interview with Belgian newspaper Le Soir, commission president Jean-Claude Juncker shows he’s thrown in the towel.

He says, “things have slipped in a number of countries and we do not know where they would take us. In the European treaties, Article 7 provides possible sanctions against countries which would go awry with respect to the EU’s universal principles.”

“It is a ‘nuclear option’. But there are already some member states which are saying that they will refuse to use it. This a priori refusal cancels de-facto Article 7,” he went on to say,

“I note this with sadness and disappointment. I hope that people will not give free rein to those who will, in the end, harm them”.

But at last month’s plenary, first vice president Timmermans gave a very different message when debating a proposal of the parliament for an EU pact on democracy, the rule of law and fundamental rights (DRF Pact).

He was confident the existing toolkit is sufficient to tackle serious threats and breaches of the core values and standards of the EU.

“We have a range of existing tools and actors that already provide a set of complementary and effective means to address rule of law issues,” he said.

“The existing treaties give us the tools, so let us use them. At the end of the day, this is a very political process.”

In essence, Juncker says: we have no more tools.

Timmermans, on the other hand, says: we have all the tools we need.

This makes the two out to be more Laurel and Hardy, than Bob the Builder.


Juncker has the power

But Juncker is not as helpless and empty-handed as he thinks himself.

He has the right and the duty, as custodian of the treaties, to use Article 7 if his commission notes a serious threat to the rule of law in one of the member states, independently of the positions in council or parliament.

He should embrace the proposal put forward by the parliament for a DRF Pact.

The DRF Pact foresees the monitoring of all member states on an equal footing, on an ongoing basis, rather than crisis-driven.

The annual “DRF health check” will closely involve the national parliaments, consult with a variety of independent experts and civil society and make use of a wide range of sources.

The proposal for an EU pact on democracy, rule of law and fundamental rights has the support of a broad and solid majority in the parliament (405 Members in favour, 171 against and 39 abstained).

In addition, the council is discussing options for strengthening the council rule of law dialogue.

Its deliberations reflect many of the principles underlying the parliament proposal.

There is even a group of 13 member states, dubbed “Friends of the Rule of Law group”, taking a lead role in the evaluation.

So far from being helpless, Juncker has a more complete toolkit within reach and support in parliament and council.

All he needs to do is follow the momentum, put forward a proposal in response to the parliament’s report, and give us new and effective ways to uphold democracy, the rule of law and fundamental rights.

Jean-Claude Juncker, you can fix it!

Turchia: cosa può fare l’Unione

Bruxelles, 16 novembre 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Riunione del Gruppo GUE/NGL.

Punto in Agenda: La repressione in Turchia dell’opposizione. Relatori per il Gruppo GUE/NGL: Takis Hadjigeorgiou e Marie-Christine Vergiat.

Considerati gli ultimi avvenimenti in Turchia, e la nuova offensiva del governo Erdogan contro l’opposizione parlamentare dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli) si pone la questione del “che fare”, come gruppo politico e come Unione europea. Sono tre a mio parere i punti su cui converrà concentrarsi.

Primo punto: bisogna cominciare a riflettere seriamente su un piano B, nel caso l’accordo UE-Turchia sui migranti venisse revocato, da parte dell’Unione oppure del governo turco, visto che anche quest’ipotesi è stata prospettata da Erdogan, sotto forma di minaccia. Secondo me è necessario sin da ora non solo far capire ai cittadini europei che la Turchia non può essere considerato uno Stato “sicuro” dal punto di vista dei rimpatri, ma che la rottura dell’accordo non è la catastrofe da molti temuta. Questo perché in realtà il piano di riammissione non sta funzionando perfettamente, come pretende la Commissione. I rimpatri dalla Grecia alla Turchia sono stati finora 1.600: una cifra bassa, se paragonata ai 2 milioni e settecentomila rifugiati che già si trovano in Turchia. La maggior parte dei rifugiati approdati a suo tempo in Grecia sono tuttora intrappolati nei Balcani occidentali (circa 73.000) dopo la chiusura di quella rotta di fuga. Il Piano B, ovvero l’alternativa all’accordo con la Turchia, consiste in misure concrete che dovranno essere adottate ma dovrà comportare al tempo stesso una campagna di informazione intesa a far capire che la paura su cui scommette l’estrema destra è in parte esagerata.

Secondo punto: la sospensione dei negoziati di adesione all’Unione europea. Per quanto mi riguarda sono favorevole a tale sospensione, e ritengo non ci sia bisogno di aspettare la reintroduzione della pena di morte per una decisione del genere, ma il messaggio deve essere molto chiaro: è auspicabile che i negoziati si riaprano subito, non appena la rule of law e la libertà di espressione saranno restaurate in Turchia. La nostra posizione dovrebbe tener vive le speranze dei democratici turchi, che sull’Unione europea continuano a contare molto, e fare di tutto perché non sia identificata con quella sostenuta dalle estreme destre (e da buona parte del centro-destra), le quali non mancano di ripetere: “Noi eravamo contrari all’ingresso della Turchia comunque e sin dall’inizio”.

Terzo e ultimo punto: molti democratici in Turchia, con cui sono in contatto, insistono affinché l’Unione europea sospenda, invece, il rinegoziato sull’abbassamento delle tariffe doganali e il commercio. Si tratta di una trattativa che dovrebbe estendere gli accordi sulle industrie manifatturiere ai servizi, all’agricoltura e agli appalti pubblici. A mio parere si può agire su questo rinegoziato, che interessa molto Erdogan perché influenza in modo sostanziale la struttura commerciale del suo Paese. Si tratta di far capire al governo turco che il rinegoziato sarà sospeso fino a quando non saranno ristabiliti la rule of law, il rispetto delle opposizioni, e in particolare la pace civile in Kurdistan.

Qualche domanda a Frontex

Bruxelles, 17 novembre 2016

Oggi al Parlamento europeo, in una riunione della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (LIBE) si è tenuto un interessante dibattito tra Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex (divenuta Guardia Costiera e di Frontiera europea) e i membri della Commissione parlamentare.

Barbara Spinelli ha posto diverse domande al dottor Leggeri a proposito degli incidenti in mare e della violazione dei diritti umani verificatisi negli ultimi mesi e denunciati da diverse ONG:

«Grazie, dottor Leggeri, per la presentazione. Ho alcune domande su episodi specifici di uso della forza. Il primo è quello citato da Ska Keller sul pushback illegale dalla Grecia alla Turchia alla presenza di due navi Frontex, denunciato dalla rete «Watch the Med Alarm Phone» l’11 giugno scorso. Siccome Frontex ha reagito affermando che la decisione è stata presa dal centro di coordinamento regionale greco in linea con la legislazione Search and Rescue sulla base di una “valutazione approfondita”, quello che vorrei chiederle è qual è la responsabilità, comunque, di Frontex, e che cosa, in questa valutazione approfondita, vi ha convinti a considerare legale questa espulsione?

«La seconda domanda riguarda la denuncia di Amnesty International sull’uso della violenza e anche della tortura in una serie di hotspot italiani. Le autorità italiane responsabili tacciono e sicuramente sono responsabili in via prioritaria, ma la questione di fondo è che Frontex assiste i funzionari addetti al prelievo delle impronte digitali, e chi assiste ha una responsabilità, almeno secondo me, ma forse lei ha un’altra opinione?

«L’ultima domanda riguarda l’uso delle armi da fuoco su imbarcazioni di migranti in Grecia, denunciato da “The Intercept” nell’agosto di quest’anno. A una mia lettera, lei ha risposto che «non c’erano navi Frontex», e può darsi che abbia ragione, ma il giornalista che ha indagato per poter salire sulle navi che erano presenti ha dovuto chiedere il permesso a Frontex. Quindi c’erano navi Frontex o non c’erano? Grazie».

Dalle risposte di Fabrice Leggeri si evince che, nell’ambito dei rimpatri, l’agenzia opera secondo la normativa europea, ovvero la Direttiva rimpatri, e adempie gli obblighi del regolamento Schengen.

Per quanto riguarda gli incidenti in mare e i casi di uso delle armi da fuoco – ha specificato il direttore esecutivo di Frontex – gli incidenti hanno portato al ferimento anche delle guardie costiere, e nei casi riportati da diversi reportage, avvenuti in Grecia nel 2015, Frontex ha agito secondo le leggi greche e per motivi di legittima difesa rispondendo al fuoco aperto dai trafficanti (fatto, questo, smentito dal reporter di “The Intercept”).

Circa il rapporto di Amnesty International che denuncia violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani, Leggeri comunica di non aver mai ricevuto rapporti di denuncia in proposito da parte di agenti di Frontex.

Lettera sulla situazione dei bambini rifugiati in Turchia

COMUNICATO STAMPA

Barbara Spinelli e 54 deputati del Parlamento europeo denunciano l’incapacità della Turchia di offrire protezione ai rifugiati

Bruxelles, 14 novembre 2015

Barbara Spinelli, insieme a 54 deputati del Parlamento europeo, ha inviato in data odierna una lettera al Vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, all’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, al Commissario responsabile per il Mercato interno, l’industria, l’imprenditoria e le PMI Elżbieta Bieńkowska, e al  Commissario per la Politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento dell’Ue Johannes Hahn, in cui si denuncia lo sfruttamento del lavoro minorile in Turchia dei bambini rifugiati siriani.

La lettera è nata da un reportage effettuato dai giornalisti Valentina Petrini e Gabriele Zagni (“La7”) dal quale emerge lo sfruttamento del lavoro minorile nella produzione di scarpe e di abbigliamento in Turchia, tramite l’impiego di bambini rifugiati dalla Siria.

L’obiettivo è denunciare non solo il dilagante fenomeno dello sfruttamento del lavoro minorile in Turchia ma anche lo stato di abbandono e degrado cui sono consegnati i rifugiati siriani che vivono fuori dai campi adibiti a trattenerli, senza alcun sostegno socio-economico.

Solo il 15% dei bambini siriani frequenta la scuola, il restante essendo impiegato come manodopera sottopagata e sfruttata nelle fabbriche del distretto tessile turco. Considerando che, in media, un lavoratore adulto guadagna 30 lire turche al giorno, i proprietari delle fabbriche preferiscono impiegare i bambini. Questi ultimi lavorano in condizioni dolorose, in stretto contatto con una vasta gamma di prodotti chimici tossici e altre sostanze pericolose, come l’acido cloridrico. I loro corpi mostrano segni di sfruttamento e gravi maltrattamenti fisici: le mani sono danneggiate da queste sostanze e la pelle assume il colore degli abiti che producono a causa dei coloranti tossici che maneggiano ogni giorno.

Alla luce di quanto è emerso, la Turchia non è stata in grado di offrire accesso all’istruzione ai bambini e di garantire standard di vita dignitosi alle famiglie rifugiate. Per questo motivo Barbara Spinelli e i cofirmatari della lettera ritengono che il governo turco non sia in grado di proteggere i diritti e gli interessi dei rifugiati – in particolare delle categorie più vulnerabili – e chiedono che siano interrotti i rimpatri dei migranti verso la Turchia, Paese evidentemente non “sicuro”.

Testo della lettera con l’elenco dei firmatari (file .pdf)

Le oligarchie e il suicidio delle vecchie sinistre

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 12 novembre 2016

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. Il loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.

Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Donald Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’establishment globalizzato, delle politiche che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle, e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. Hillary Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Allo stesso tempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana [dalle lotte della classe media], e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.

Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di ben 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders dello scorso marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Stati Uniti avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.

Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettorati. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a essere qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente” degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto JP Morgan è diventato lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby non solo nazionali ma transnazionali. Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico americano, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.

È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Mario Monti contro il Parlamento italiano e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora Presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegel e senza remore dichiarò: «Capisco che [i governi] debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles». Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro bilaterale a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto […] Siamo in una fase pericolosa […] In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.

Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.

Un’ultima considerazione sul movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’establishment, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Unione dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma comunque democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.

Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Žižek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”. Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede di incarnare la ragione e di essere più sveglia di tutti gli altri.

Il finto federalismo del Rapporto Verhofstadt

Bruxelles, 8 novembre 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “Possibile evoluzione e adeguamento dell’attuale struttura istituzionale dell’Unione europea” (Relatore Guy Verhofstadt – ALDE, Belgio) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).

Punto in agenda:

  • Esame degli emendamenti

Ringrazio il relatore per il lavoro fatto con questa bozza di risoluzione. Dico subito che ci sono passaggi che apprezzo: sulla sicurezza interna, che non deve trasformarsi in pretesto per evitare politiche più coraggiose di asilo e inclusione; sull’opportunità che la Corte di giustizia passi al vaglio la politica estera dell’Unione; sul metodo comunitario che non deve esser soppiantato da quello intergovernativo. Giusto anche chiedere l’estensione di precisi diritti del Parlamento europeo: in prima linea il diritto di iniziativa legislativa e il diritto di inchiesta.

Come già anticipato nella riunione del 12 luglio, ho tuttavia una serie di riserve, che esprimerò negli emendamenti. Cercherò di spiegarne alcuni, facendone una sintesi.

In prima linea non concordo sulle premesse, cioè sui recital che giustificano vari articoli della risoluzione. Quello di cui sento più la mancanza è un’analisi critica e autocritica della crisi dell’Unione, che a mio avviso ha toccato l’acme durante il negoziato greco ed è sfociata per forza di cose nel Brexit – i due eventi sono a mio parere legati. Se siamo giunti a questo punto, non è perché le istituzioni funzionino male, o non si coordinino, o non siano abbastanza “federali”. Il federalismo ha senso se esiste una comunità solidale, se vengono adottate politiche che non dividono le nostre società e non generano, sempre più, disgusto verso il progetto stesso di unione. Il federalismo non è una tecnica, e non basta quest’ultima a ridare ai cittadini la fiducia e il senso di appartenenza che hanno perso. Non basta nemmeno citare Eurobarometro, che non rispecchia il loro vero stato d’animo essendo un istituto di sondaggio troppo dipendente dalla Commissione, dunque con forti conflitti d’interesse.

Non mi convince nemmeno l’analisi delle crisi – la “‘polycrisis” descritta nel rapporto: il più delle volte la crisi è dell’Europa. Non è dei modi formali in cui essa risponde alle sfide, ma della natura stessa della risposta. Ad esempio: non c’è “crisi della migrazione”, ma crisi dell’Unione davanti a flussi di profughi e migranti che al momento rappresentano lo 0,2 per cento delle popolazioni europee. Non c’è solo crisi del debito, ma crisi di Paesi che essendo in surplus non espandono la propria economia. Più generalmente, c’è crisi della solidarietà e della democrazia all’interno dell’Unione. La mia impressione è che il rapporto avalli e sostenga politiche che hanno fatto fallimento. Non basta dire che siamo di fronte a un euroscetticismo senza precedenti e un ritorno dei nazionalismi, senza indicare l’insieme di politiche sbagliate che hanno causato e causano diffusa sfiducia.

Vengo ora agli emendamenti sull’articolato, e ne cito solo alcuni che mi sembrano importanti.

Fin dal primo articolo, si chiede una modernizzazione della governance dell’Unione: cioè più efficienza, più rapidità. Non si va alla sostanza della crisi: la spettacolare mancanza di giustizia sociale, il venir meno di diritti (e di precisi articoli del Trattato come il 2, il 3, il 6, l’11); il riemergere in Europa di una politica di balance of powers, di potenze nazionali più o meno forti che si guardano in cagnesco l’un l’altra. La tecnica ancora una volta prende il sopravvento. Dovremmo sapere, da Heidegger, che “l’essenza della tecnica non è mai tecnica”.

Passo all’articolo 13, in cui si denuncia la mancanza di convergenza e di competitività. Anche qui, nessun accenno alle diseguaglianze sociali e al senso di dis-empowerment dei cittadini, e di impoverimento generalizzato delle classi medie: che sono poi le vere ragioni dell’ondata di sfiducia verso l’Europa.

Nell’ articolo 14, si dice giustamente che né il Patto di Stabilità e crescita né la clausola “no bail-out” hanno fornito le soluzioni volute, ma non si fanno proprie le critiche sempre più diffuse che vengono espresse verso le ricette di austerità non solo da parte di accademici, ma dello stesso Fondo Monetario internazionale. Il malfunzionamento, secondo la relazione Verhofstadt, viene fatto risalire alle troppe infrazioni del Patto. Constato un ritardo diagnostico di almeno dieci anni nell’analisi delle politiche economiche europee.

In questo ambito, mi dispiace che non vi sia neppure un accenno alle proposte di un New Deal europeo. In un emendamento aggiuntivo all’articolo 13, ne propongo uno – ma le idee sono moltefinanziato dalla Banca europea degli Investimenti e da nuove risorse proprie alimentate da una tassa patrimoniale comune, dalla tassa sulle transazioni finanziarie e da una carbon tax.

Altra proposta che va in questa direzione: l’adesione dell’Unione alla Carta Sociale, e comunque l’inclusione dei criteri della Carta nella definizione della politica economica.

A proposito del Rapporto dei cinque Presidenti (articolo 16): il Rapporto Verhofstadt lo condivide in pieno. Io non lo condivido. Nel mio emendamento esprimo una forte critica del rapporto, e delle cosiddette riforme strutturali: basate su codici di competitività che hanno come principale fondamento la ristrutturazione del mercato del lavoro e livellamenti verso il basso dei salari. Non mi sembra la ricetta per uscire dalla recessione.

Per tutte queste ragioni non accolgo la proposta – che in altri tempi e con altre politiche sarebbe stata positiva – di istituire un comune Ministro dell’Economia (e un Ministro degli Esteri). Il rischio è di ripetere l’errore fatto con l’euro. Parlo dell’illusione gradualista secondo cui creando istituzioni comuni parziali si arriverà necessariamente e provvidenzialmente all’unità politica dell’Europa.

Mi si obietterà che non è questo lo scopo di questo rapporto, né di quello dei colleghi Mercedes Bresso e Elmar Brok su quello che si può fare senza cambiare i Trattati. Che è in gioco il quadro costituzionale, non le politiche immesse in tale quadro. Ma ambedue i rapporti fanno proprie precise linee politiche, e questo spiega come mai – non essendo per appunto tecnica, la natura della tecnica – parlo di sostanza politica anch’io.

Rapporto Bresso-Brok: il fiscal compact inserito nei Trattati

Bruxelles, 8 novembre 2016. Intervento (non pronunciato) di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona” (Relatori Mercedes Bresso, S&D – Italia, Elmar Brok, PPE – Germania) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).

Punto in agenda:

  • Esame degli emendamenti

Ringrazio i relatori di questo rapporto, anche se purtroppo ho constatato l’impossibilità di un confronto che sia serio e rispettoso con i relatori ombra.

Come già sottolineato nel corso della precedente discussione sulla Relazione Verhofstadt, quello che mi lascia più perplessa è la visione di fondo dei due documenti, ossia la scelta di cambiare la struttura, la tecnica – la “capacità di agire” a più livelli, rapidamente ed efficacemente, come è scritto nel rapporto – per lasciare essenzialmente invariata la sostanza. Un esempio tra tutti è il Fiscal Compact. Uno strumento figlio di politiche dell’austerità i cui contenuti ed effetti sono stati ampiamente criticati da noti economisti e, ultimamente, persino dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Piuttosto che modificarlo o scegliere soluzioni alternative, la strada percorsa è quella di legittimarlo completamente, incorporandone le parti più rilevanti all’interno del Trattato e rendendolo di conseguenza elemento strutturale della politica economica europea.  È quello che più ci viene contestato dai cittadini: la miopia, la sordità di fronte ad una richiesta di cambiamento che riguarda esattamente il fondo delle nostre scelte e non l’involucro tecnico all’interno del quale le presentiamo.

Penso anch’io, come i relatori, che i Trattati hanno limiti evidenti ma ci offrano già chiare indicazioni su una possibile via alternativa, ed è alla luce di tali indicazioni che dovremmo procedere per “sfruttarne le potenzialità”. È la direzione che ho tentato di seguire con gli emendamenti che ho presentato. Mi riferisco in particolare agli articoli iniziali del Trattato sull’Unione Europea: l’articolo 2 sui cosiddetti “valori” dell’Unione (mi piacerebbe che in una futura Costituzione si parlasse di norme e di diritti – i valori per definizione sono opinabili); l’articolo 3 sugli obiettivi dell’Unione – tra cui la creazione di un’economia sociale di mercato non solo competitiva, ma che miri – cito – alla piena occupazione e al progresso sociale, e a un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente; l’articolo 6 sui diritti fondamentali o l’articolo 11 sulla partecipazione dei cittadini al processo decisionale – solo per citarne alcuni. A rinforzo dei trattati abbiamo anche creato uno strumento unico, la Carta dei diritti fondamentali, che chiede solo di essere innalzata a reale parametro di azione. Si tratta ovviamente di standard generali che necessitano di norme che ne diano concreta attuazione, ma sono anche quei parametri che abbiamo scelto e deciso di inserire nei Trattati quali disposizioni comuni e presupposti del progetto di integrazione europea. Ritengo sia giunto il momento di darne concreta attuazione con politiche che non ne infrangano, come accade oggi quasi quotidianamente, l’essenza.

Un’ultima osservazione sulla politica di immigrazione e di asilo. Considerata l’involuzione sempre più autoritaria in Turchia, considerata la natura dittatoriale di regimi come quello eritreo e sudanese, e il caos che regna in Afghanistan e in Libia, considero impossibile – e indifendibile sul piano legale – la strategia dei cosiddetti “Paesi sicuri”, e ritengo che non vadano firmati accordi con Paesi terzi che sono tutt’altro che sicuri,  al solo fine di rimpatriare migranti e profughi, e di ridurre i flussi migratori prima che i migranti arrivino alle nostre frontiere.

Rapporto di Amnesty International: la verità sui maltrattamenti negli hotspot italiani

Bruxelles, 7 novembre 2016

Barbara Spinelli ha appena inviato una lettera al Presidente del Consiglio Matteo Renzi – e per conoscenza al Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e al ministro dell’Interno Angelino Alfano, chiedendo la verità sui maltrattamenti negli hotspot italiani denunciati nel rapporto di Amnesty International pubblicato lo scorso 3 novembre. La traduzione della lettera in inglese è disponibile sul sito Statewatch a questo indirizzo.

Alla cortese attenzione

del Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana
Sig. Matteo Renzi

e per conoscenza:

al Ministro dell’Interno
On. Angelino Alfano

al Presidente della Commissione Europea
Sig. Jean-Claude Juncker


Bruxelles, 7 novembre 2016

Gentile Sig. Presidente del Consiglio,

mi rivolgo a Lei in merito al rapporto di Amnesty International [1], che raccoglie testimonianze coerenti e concordanti di arresti arbitrari, intimidazioni e uso eccessivo della forza su migranti e rifugiati negli hotspot e nei centri di accoglienza di Roma, Palermo, Agrigento, Catania, Lampedusa, Taranto, Bari, Agrigento, Genova, Ventimiglia e Como – al fine di costringere uomini, donne e persino bambini a rilasciare le impronte digitali. Il rapporto parla di pestaggi, scosse somministrate con bastoni elettrici, umiliazioni sessuali e dolore inflitto con pinze agli organi genitali.

Benché il rapporto certifichi che la maggior parte degli agenti di polizia conduce impeccabilmente il proprio lavoro, le testimonianze raccolte avvallano e situano in un quadro sistemico le ripetute denunce di trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o addirittura tortura, praticati in centri di identificazione, hotspot e questure. Tali denunce cominciano a essere raccolte anche da ong di altri Stati membri, nei quali giungono migranti e rifugiati che sono riusciti a lasciare l’Italia.

«Nel cercare di raggiungere “un tasso di identificazione del 100%”, l’approccio hotspot ha spinto le autorità italiane ai limiti, e oltre, di ciò che è ammissibile secondo il diritto internazionale dei diritti umani”, si legge nelle conclusioni del rapporto. Sono consapevole che tale approccio ha aumentato anziché diminuire la pressione sugli Stati di frontiera dell’Unione. Così come sono consapevole degli sforzi compiuti dalle Guardie costiere italiane nelle operazioni di ricerca e salvataggio di migranti e profughi che rischiano il naufragio. Resta il fatto che le centosettantaquattro testimonianze raccolte da Amnesty International non sono un insieme di «cretinaggini» e «falsità» costruite a Londra, come affermato dal capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Viminale. Sono un gravissimo segnale d’allarme che riguarda noi tutti in Italia. Benché l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento continui a essere inspiegabilmente rinviata, l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura nel 1988. Per questo ci attendiamo da Lei un sollecito accertamento delle responsabilità tramite indagini indipendenti.

In attesa di una gentile risposta e ringraziandoLa in anticipo, invio distinti saluti

Barbara Spinelli
Membro del Parlamento europeo

[1] Amnesty International, Hotspot Italia: come le politiche dell’Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti, 3 novembre 2016.