L’oscena resa dei conti ai danni dell’antimafia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 settembre 2021

La parola d’ordine è aspettare le motivazioni, cosa che in Italia dura almeno tre mesi. Un buon motivo per risparmiarsi, nell’immediato, la lettura dei due fogli che contengono il dispositivo della sentenza d’appello sulle trattative Stato-mafia, pronunciata il 23 settembre. Se solo venisse letta, da chi oggi ha l’impressione di prendersi una bella rivincita politico-giornalistica e dichiara morto quel che ha denunciato per anni – il cosiddetto teorema della trattativa Stato-mafia, la “gran mattana”, la “parte molto rumorosa del giornalismo” – si capirebbe subito che per i giudici la trattativa c’è stata, tra mafia e pezzi dello Stato. E che il fatto non solo sussiste (la “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” che caratterizzò la trattativa), ma è giudicato criminale, visto che gli interlocutori mafiosi del negoziato vedono confermate le condanne in primo grado: 27 anni di carcere per Leoluca Bagarella invece di 28; 12 anni per Antonino Cinà, il “postino” che prese in consegna i messaggi del Ros a Vito Ciancimino, li portò a Riina e ne ricevette il papello perché i contraenti statali venissero a conoscenza delle condizioni poste dalla mafia per fermare le stragi in corso. Stragi che non si fermarono, anzi si moltiplicarono, anche se oggi non manca chi definisce utile la trattativa.

Se fosse una serie tv o un film, questa cronistoria dominata dalla lotta alla mafia e dalla sua trasformazione in malavita dedita a lucrare sui disastri economici italiani si concluderebbe con scene inquietanti, ominose: non l’Italia liberata dalla mafia e uno Stato integralmente innocente, ma un Paese che conserva qualcosa di veramente marcio, dove colletti bianchi e politica colludono non invisibilmente con la mafia, specie in questi tempi di pandemia.

La Corte d’appello ne trae conclusioni abbastanza sconcertanti, almeno per ora: non rifiuta il legame nefasto fra trattativa e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, ma condanna solo i mafiosi. Coloro che erano all’altro lato del tavolo negoziale – tre ufficiali del Ros – sono assolti perché il fatto criminoso c’è e tuttavia per loro (solo per loro) “non costituisce reato”.

Ma quel che colpisce ancor più della sentenza è l’indecenza della resa dei conti – minacciosa, soddisfatta, saccente – che avviene sui giornali. Nel mirino: tutti coloro che da decenni denunciano le collusioni fra mafia e pezzi dello Stato, nei processi, nei libri o nei giornali. Avrebbero indagato e denunciato per costruire carriere o fondare giornali e partiti. Sono i cattivi demiurghi dell’ossessione mafiosa: i 5Stelle, Marco Travaglio e altri non meno nefandi. S’abbatte sul loro capo la mannaia: è finito il “teorema” sulle collusioni mafia-pezzi dello Stato, finito il “pensiero unico fatto di niente” (Enrico Deaglio su «Domani»). Finita – sulla scia della sentenza – la narrazione capziosa e distruttiva dell’ascesa di Berlusconi, coadiuvato dalla collusione fra il suo luogotenente Marcello Dell’Utri e mafiosi come Stefano Bontade, Totò Riina, Bernardo Provenzano, e poi scendendo per li rami con postini come Cinà e Mangano. Fa impressione vedere come Dell’Utri esca immacolato dal processo Stato-mafia (“non ha commesso il fatto”) e come cada nel dimenticatoio, per gran parte dei commentatori, la sentenza definitiva che inchiodando sia lui sia indirettamente Berlusconi ha condannato in via definitiva Dell’Utri a sette anni di carcere, nel 2014, per concorso esterno in associazione mafiosa e intermediazione fra mafia e Berlusconi. Fa impressione il silenzio sulle azioni malavitose che proseguirono nonostante la trattativa. Per motivi ancora opachi (forse legati alla successione di Mattarella) si diffonde l’opinione, anzi la notizia che, grazie ai governi berlusconiani, la mafia fu sconfitta (Enrico Deaglio).

C’è un punto tuttavia in cui l’indecenza stinge nell’osceno. La resa dei conti precipita nella polvere magistrati o giornalisti che hanno un peso e un seguito. È abbattuta perfino la statua di Nino Di Matteo, con gesto trionfale, nonostante le parole intercettate di Riina che ne commissionava l’assassinio. Ma stranamente, le esecuzioni risparmiano le tante associazioni di cittadini nate sull’onda delle stragi. Una mano colpisce e l’altra resta sospesa in aria, perché non si sporchi troppo. Questo è osceno nella resa dei conti. Di fatto sono punite anche le associazioni ma cum juicio, la lotta è tra potentati politici e mediatici e ha scopi solo politico-mediatici. Di qui il silenzio sui tanti movimenti che combattono le collusioni tra mafia, colletti bianchi, pezzi dello Stato: dall’associazione “Scorte civiche” nata nel 2014 su iniziativa di Salvatore Borsellino alle sue Agende Rosse al movimento “Addiopizzo”. Sono associazioni che indagano non su teoremi, ma su fatti che feriscono ancora i cittadini e la parte migliore, non contaminata, del loro Stato.

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Germania, cercasi mamma perduta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 25 settembre 2021

Più che una competizione politica, la campagna elettorale tedesca è stata una lunga, stremata cerimonia degli addii.

Addio ai 16 anni di Angela Merkel, eulogia sterminata delle sue ineguagliabili doti, necrologio che da mesi si sovrappone malinconicamente alle analisi su passato, presente e futuro. Non pianto, ma rimpianto che inonda ogni pensiero, paralizzando in anticipo chiunque sia chiamato a succederle alla cancelleria: forse il socialdemocratico Olaf Scholz, forse il democristiano Armin Laschet, in fondo non sembra importare molto. Forse di nuovo alleati, forse invece coalizzati ciascuno con altri partiti: Verdi o Liberali. Con la sinistra – la Linke – le coalizioni restano improbabili: il “nemico rosso” già governa in regioni e città, ma critica troppo la Nato. La logica dell’obituario esige che tutto resti così com’è. Come se ancora ci fosse lei: Mutti come la chiamano i tedeschi – Mamma. Di Mamma ce n’è una sola.

Scialbi tutti e due, Scholz e Laschet, non perché la natura li abbia fatti così, ma perché questa è la legge del necrologio cui si attengono quasi tutti i commentatori, soprattutto fuori dalla Germania. È commisurando le caratteristiche dei candidati al mirabile profilo della Merkel che il commentatore giudica, azzarda ipotesi di coalizioni, di politiche. L’occhio sgranato dei celebranti non vede quel che guarda. Vede solo quello di cui ha fin d’ora nostalgia, l’attimo che vorrebbe fermare perché così bello.

L’attimo di Angela Merkel non è stato eroico. Non è stato nemmeno carismatico, come ricorda lo storico Heinrich August Winkler. Gli attributi che sintetizzano i 16 anni di governo, e che si ripetono con impressionante monotonia, sono: pragmatismo in primis, e uso parsimonioso della parola, senso dell’utile, del management, della modestia.

Questo si cerca oggi di trovare, nei successori e anche ai vertici degli Stati europei: un sosia della Merkel.

Scholz e Laschet vanno bene se la imiteranno, se continueranno a disarmare l’immaginazione, se non saranno lì per risolvere le grandi crisi, ma per arrangiarsi e cavarsela nel breve termine (durchwursteln è l’ottimo verbo tedesco).

Sono anni che Angela Merkel è descritta come egemone in Europa, e oggi più che mai. La modestia pratica elude le ideologie, le visioni di lungo periodo, le scelte trasformatrici che durano nel tempo. Angela era così anche quando viveva nella Repubblica Democratica Tedesca: silenziosa e ligia. Quando i tedeschi dell’Est sfilavano nelle piazze lei non c’era. Fece capolino ben dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Kohl la scelse come pupilla.

Il management delle crisi è la dote merkeliana cui oggi si anela, ovunque. Anche quando si espresse con ferocia, e Berlino impartì le direttive alla trojka che piegarono e umiliarono la Grecia, riducendola quasi alla fame con l’assistenza della Banca centrale europea e della Commissione europea.

A volte la monotonia pragmatica s’interruppe, e Mutti improvvisò condotte inedite. Accadde quando annunciò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima, ma accrescendo poi la dipendenza da carbone e gas. E accadde soprattutto nel 2015, durante quella che viene chiamata crisi migratoria e fu invece crisi europea sulle migrazioni. La Merkel d’un colpo spalancò le porte ai migranti, soprattutto siriani. Furono circa 1 milione a entrare. Ma durò poco, tanto quanto bastava per ringiovanire un Paese sempre più vecchio. Le porte si richiusero, e Berlino fu la prima nell’Unione a imporre un accordo con la Turchia cui si chiese di non far partire i rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro.

Un’altra interruzione dell’utilitarismo pragmatico fu la messa in comune del debito europeo, al culmine della pandemia Covid: una soluzione sempre osteggiata dal dissimulato nazionalismo tedesco. Nato in Germania, l’ordoliberismo esigeva che ogni Paese membro “facesse i compiti in casa” prima di ricevere assistenza dall’Unione ed ecco che d’un tratto Merkel sconfessava gli ordoliberisti, accettava la lettera che Giuseppe Conte aveva scritto assieme ad altri otto leader dell’Unione in favore di una nuova solidarietà europea. Ne nacque il Recovery Plan, particolarmente generoso verso Italia e Spagna.

Ma Mutti non disse mai che la soluzione sarebbe stata strutturale, permanente, e tale da abolire i rigidi parametri fissati a Maastricht e inseriti nei Trattati dell’Unione. Fu un’iniziativa necessaria ma di eccezione, fece capire. E così dicono i successori: da Laschet il democristiano agli aspiranti Tesorieri nei futuri governi di coalizione (tra gli altri: il democristiano Friedrich Merz o il liberale Christian Lindner). Lo stesso Scholz, che forse favorirebbe il superamento di parametri che risalgono agli anni Novanta, non ha mai preconizzato a chiare lettere la loro riscrittura. Lo spettro dell’Unione delle Elargizioni (“Transfer Union”), di cui profitterebbero gli “sperperatori intrappolati nel debito” del Sud Europa, continua a ossessionare le élite tedesche, dalla Banca centrale nazionale all’Unione industriali: una paura cavalcata per anni dalla nuova destra impersonata da Alternativa per la Germania (Afd), nata nel 2013 durante la crisi greca.

Si è anche molto parlato dell’asse fra Macron e Merkel. Ma Berlino in realtà fa da sé, sia nei rapporti con Mosca (di volta in volta freddi e caldi) sia in quelli con la Cina.

La Cancelliera non ha sprecato molte parole neppure quando Emmanuel Macron ha ricevuto da Joe Biden la formidabile sberla che è consistita nell’accordo Usa-Australia-Regno Unito per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare, che ha affossato l’accordo franco-australiano con una mossa imperiale che smentisce ogni ipotesi sul declino Usa dopo il ritiro dall’Afghanistan. Troppo presto è stato scritto che lo schiaffo colpisce l’intera Unione, proprio mentre quest’ultima discute di comune difesa e perfino di autonomia strategica da Washington.

Non ci sarà mai accordo su simile autonomia, fino a quando Parigi non “europeizzerà” la propria atomica e fino a quando gli avamposti orientali dell’Unione (Polonia, Baltici) preferiranno la protezione militare statunitense garantita dalla Nato.

Berlino stessa, di fronte a una scelta radicale, non si farà trascinare in prove autentiche di indipendenza. Adenauer fu messo davanti a questa scelta da De Gaulle, alla fine degli anni Cinquanta, e rispose con un secco No.

Forse verrà il giorno in cui Berlino guiderà la trasformazione dell’Unione. Ma l’Eliseo dovrà cambiare rotta, e per smuoverlo non basterà di certo il pragmatismo tedesco.

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