Giustizia sociale per salvare l’Ue

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 26 maggio 2020

Fra non molto sapremo cosa succederà al Recovery Fund che Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno proposto il 18 maggio: 500 miliardi di euro per sostenere i Paesi più colpiti dal Covid-19, erogati sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti che aumenterebbero il debito e la dipendenza di Stati come l’Italia Sarebbe l’Unione a indebitarsi collettivamente sui mercati, accollandosi prestiti a lunga scadenza, rimborsabili sulla base delle quote di ripartizione previste nel bilancio europeo (i Paesi che più ne beneficerebbero non dovrebbero pagare di più). Grazie all’insistenza di Italia e Spagna la Merkel ha infine accettato il principio di un debito condiviso – fino a ieri un’eresia in Germania – ma basta un solo Paese membro per bloccare l’iniziativa: già ce ne sono quattro a opporsi (Austria, Olanda, Svezia, Danimarca) cui si aggiungeranno alcuni Paesi dell’Est.

Sicché il Recovery Fund vedrà forse la luce, ma ancora più smilzo (il fabbisogno indicato a suo tempo da Gentiloni era di 1.500 miliardi) e con una preminenza di prestiti condizionati.

Si dirà che questa è in fin dei conti l’Unione: un contratto revocabile, se c’è chi non si fida. Che le divergenze fra nord e sud non sono nuove, essendosi già manifestate sulla migrazione, quando Italia e Grecia furono lasciate sole a fronteggiarla e l’Unione rispose mettendo la politica d’asilo in mano a Turchia e Libia. Che toccherà adattarsi e accettare quel che offre la ditta (“col cappello in mano”) viste le rovinose condizioni in cui versano Paesi come l’Italia o la Spagna.

Si dirà tuttavia il falso, perché l’Unione non nacque per essere un contratto fra creditori e debitori, fra ricchi e impoveriti, fra vincitori e vinti. Nacque per evitare proprio questo rapporto di forze – la balance of power che regnò in Europa per secoli – e per scongiurare gli effetti della grande crisi del ’29: risentimento dei popoli, nazionalismi totalitari, guerra. La nostra Costituzione lo dice chiaramente, nell’articolo 11: la guerra è ripudiata, e le limitazioni di sovranità sono consentite alla sola condizione che assicurino “pace e giustizia fra le nazioni”. Oggi questa giustizia non c’è, la crisi economica derivata dal Covid viene equiparata da Draghi alle rovine della guerra, e l’Unione pur offrendo aiuti di vario genere tergiversa e agonizza.

Le parole usate in queste settimane occultano quest’agonia, essendo in genere false. Ne citeremo alcune.

Si annuncia ad esempio l’avvento di un piano Marshall, del tutto a sproposito. Gli aiuti all’Europa postbellica erano composti per oltre il 70% di donazioni, non di prestiti più o meno agevolati. Non meno sconcertante la seconda dimenticanza: il piano si inseriva in una strategia più vasta, che comprendeva il condono dei debiti europei, in prima linea tedeschi. La cancellazione dei debiti contratti dalla Germania fra il 1919 e il 1945 fu approvata nel 1953 nella conferenza di Londra. Tra coloro che rinunciarono alla riscossione c’era l’Italia, oltre a una ventina di altri paesi.

In qualche modo fu la vittoria di Lord Keynes, che fin dal primo dopoguerra aveva messo in guardia i vincitori del ’14-’18: le riparazioni chieste alla Germania avrebbero distrutto la giovane Repubblica di Weimar, ed equivalevano a uno strozzinaggio foriero di odio e guerre, come puntualmente avvenne con l’ascesa di Hitler. Con i suoi esitanti e lenti aiuti post-Covid, l’Unione sembra tornata non al secondo dopoguerra ma al primo.

Si parla di New Deal e Roosevelt, ma nulla di simile è in vista. Non una sistematica lotta alla povertà, non la solidarietà con le classi e le regioni più afflitte dal virus, non il superamento del dogma del laissez-faire, del mercato che aggiusta gli squilibri grazie alla non ingerenza e sottomissione degli Stati. Il Patto di stabilità è sospeso, non abolito. Poi ci sono imprese che addirittura chiedono allo Stato di garantire prestiti ingenti pur di poter versare agli azionisti i ricchi dividendi che hanno promesso (è il caso di Fiat-Chrysler, e ha fatto bene Andrea Orlando a indignarsene).

L’Unione è figlia del New Deal, del Piano Marshall, ma soprattutto del Welfare State: una protezione sociale universale concepita non dopo il riordino delle finanze nazionali ma nel mezzo della guerra, quando Churchill affidò a Lord Beveridge il compito di elaborare un piano che curasse alle radici il risentimento sociale sfociato nell’esperienza nazi-fascista. Beveridge è ricordato per il servizio sanitario pubblico e i sussidi ai disoccupati cui diede vita, e per la parallela militanza in favore di un’Europa unificata su queste basi.

Un’altra parola usata a casaccio è sovranismo, confuso con nazionalismo e antieuropeismo. Sovranità è l’indispensabile capacità di decidere presto nelle emergenze, e nell’Unione solo la Banca centrale la possiede, non senza difficoltà da quando la Corte costituzionale tedesca l’ha criticata con argomenti giuridicamente nefasti (il diritto europeo viene gravemente leso) ma non del tutto immotivati nella sostanza: la Bce – dice la sentenza del 5 maggio – non può avere come unico scopo i prezzi stabili, e dovrà meglio valutare gli effetti economico-sociali del proprio agire.

Alle prese con il Covid-19, l’Unione sembra aver perso forza centripeta, è lenta e tuttora fautrice di riforme strutturali che lungo i decenni hanno messo in ginocchio i nostri servizi sanitari. Quando New Orleans finì sott’acqua, nel 2005, Washington non disse che lo Stato della Louisiana doveva “far ordine in casa propria” prima di ricevere aiuti, come usa preconizzare l’Unione.

Gli unici che potrebbero muoversi sono i suoi cittadini, cui è stato affidato un ruolo determinante e assolutamente inedito durante il lockdown. Disciplinando se stessi, sono di fatto diventati i governanti della lotta al Covid. Lo spiega bene il filosofo Fabio Frosini, in un saggio pubblicato il 19 aprile nel sito Dinamopress, descrivendo la “mobilitazione totale della popolazione” generata da una pandemia gestita come guerra. Mobilitazioni simili possono generare ordini nuovi più giusti o disastri, a seconda. Dipenderà dagli Stati, dall’Unione, e dalla ridefinizione delle rispettive sovranità.

Il 10 aprile scorso, Giuseppe Conte annunciò che si sarebbe presentato al vertice europeo “con la dignità e la forza di un popolo”. Se l’Unione vuole riprendersi è da questa consapevolezza che potrà ripartire. Per citare ancora Keynes: dovrà abbandonare l’idea che la giustizia sociale sia un male, e l’ingiustizia una cosa utile per l’economia.

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Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 maggio 2020

Nella maggior parte dei paesi europei i governi hanno deciso un’uscita minimalista dal lockdown. La cautela è stata consigliata loro da esperti scientifici (virologi, epidemiologi, ecc.) e da importanti istituti di ricerca. Quando sono seri, e non si contraddicono con eccessiva frequenza, gli esperti hanno una sapienza specifica e uno sguardo lungo che i politici in genere non possiedono (tra gli esperti più prestigiosi internazionalmente: in Italia Massimo Galli; in Germania Christian Drosten, direttore dell’Istituto virologico nell’ospedale Charité a Berlino).

Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.

Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.

Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto R0 – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se R0 scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.

In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.

L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.

Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e R0) scenderanno significativamente.

Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al «Guardian». Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).

Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.

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