Esito del referendum nel Regno Unito

di mercoledì, Giugno 29, 2016 0 No tags Permalink

P8_TA-PROV(2016)0294

Esito del referendum nel Regno Unito

Risoluzione del Parlamento europeo del 28 giugno 2016 sulla decisione di recedere dall’UE a seguito del referendum nel Regno Unito (2016/2800(RSP)). Il testo è stato approvato con 395 voti a favore, 200 contrari e 71 astenuti. Il seguente § 12 è stato cancellato:

Indica che il contributo del Parlamento a questa riforma sarà basato in particolare sulle sue relazioni riguardanti il miglioramento del funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona, la capacità di bilancio della zona euro, nonché la possibile evoluzione e l’adeguamento dell’attuale struttura istituzionale dell’Unione europea

Il Parlamento europeo,

– visto l’articolo 123, paragrafo 2, del suo regolamento,

1. prende atto del desiderio dei cittadini del Regno Unito di uscire dall’UE; sottolinea che la volontà espressa dalla popolazione deve essere pienamente rispettata, procedendo non appena possibile all’applicazione dell’articolo 50 del trattato sull’Unione europea (TUE);

2. sottolinea che si tratta di un momento cruciale per l’UE e che gli interessi e le aspettative dei cittadini dell’Unione devono essere nuovamente posti al centro del dibattito; indica che è giunta l’ora di rilanciare il progetto europeo;

3. sottolinea che la volontà di una maggioranza dei cittadini del Regno Unito dovrebbe essere rispettata attraverso un’attuazione rapida e coerente della procedura di recesso;

4. sottolinea che i negoziati a norma dell’articolo 50 TUE concernenti il recesso del Regno Unito dall’UE dovranno iniziare non appena sarà stata comunicata la notifica ufficiale;

5. avverte che, al fine di prevenire incertezze negative per tutti e di tutelare l’integrità dell’Unione, la notifica a norma dell’articolo 50 TUE deve avvenire il prima possibile; si attende che il Primo ministro del Regno Unito notifichi l’esito del referendum al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno; indica che tale notifica segnerà l’avvio della procedura di recesso;

6. ricorda che l’intesa convenuta dai capi di Stato e di governo nel febbraio 2016 subordinava la sua entrata in vigore alla decisione del Regno Unito di rimanere nell’UE; indica che tale intesa è pertanto nulla;

7. ricorda che non si potrà decidere in merito alle eventuali nuove relazioni tra il Regno Unito e l’UE prima della conclusione dell’accordo di recesso;

8. ricorda che a norma dei trattati è richiesta l’approvazione del Parlamento europeo e che tale Istituzione deve essere pienamente coinvolta in tutte le fasi delle varie procedure concernenti l’accordo di recesso e le relazioni future;

9. invita il Consiglio a designare la Commissione quale negoziatore sull’articolo 50 TUE;

10. sottolinea che le sfide attuali richiedono una riflessione sul futuro dell’UE e che è necessario riformare l’Unione migliorandola e rendendola più democratica; osserva che, sebbene alcuni Stati membri possano decidere di procedere a un’integrazione più lenta o meno approfondita, il nucleo fondamentale dell’UE deve essere rafforzato e occorre evitare le soluzioni à la carte; ritiene che la necessità di promuovere i nostri valori comuni, di creare stabilità, giustizia sociale, sostenibilità, crescita e posti di lavoro, di superare la persistente incertezza economica e sociale, di proteggere i cittadini e di far fronte alla sfida della migrazione impone, in particolare, lo sviluppo e la democratizzazione dell’Unione economica e monetaria e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nonché il rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune; ritiene pertanto che dalle riforme debba scaturire un’Unione che sia all’altezza delle aspettative dei cittadini;

11. chiede che venga definita una tabella di marcia verso un’Unione migliore, avvalendosi appieno delle opportunità offerte dal trattato di Lisbona, da integrare con una revisione dei trattati;

12. intende realizzare cambiamenti nella propria organizzazione interna per tener conto della volontà di una maggioranza dei cittadini del Regno Unito di recedere dall’Unione europea;

13. prende atto delle dimissioni del Commissario del Regno Unito e della riassegnazione del suo portafoglio;

14. invita il Consiglio a modificare l’ordine delle sue Presidenze onde evitare che il processo di recesso pregiudichi la gestione delle attività correnti dell’Unione;

15. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio europeo, al Consiglio, alla Commissione, alla Banca centrale europea, ai parlamenti nazionali e al governo del Regno Unito.


Questa invece la proposta di risoluzione di Gabriele Zimmer, Martina Anderson e Barbara Spinelli a nome del gruppo GUE/NGL:

B8-0840/2016

Risoluzione del Parlamento europeo sull’esito del referendum nel Regno Unito

(2016/2800(RSP))

Il Parlamento europeo,

– visto l’articolo 123, paragrafo 2, del suo regolamento,

A. considerando che il popolo di uno Stato membro ha preso la decisione storica di uscire dall’Unione europea a seguito di un referendum;

B. considerando l’esito del referendum in cui il popolo britannico ha chiaramente votato a favore della Brexit; considerando altresì che le crescenti critiche nei confronti dell’UE non solo non possono essere ignorate, ma dovrebbero essere affrontate mediante un’agenda di riforma di ampia portata, che garantisca trasparenza, apertura e
democratizzazione, nonché una più forte partecipazione dei cittadini;

C. considerando che l’esito del referendum dimostra che le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche fra gli Stati membri e in seno ad essi rappresentano una delle principali minacce alla stabilità e alla coesione dell’UE;

D. considerando che l’articolo 50 del trattato sull’Unione europea (TUE) prevede che uno Stato membro possa recedere dall’Unione;

E. considerando che l’intesa raggiunta in occasione del Consiglio europeo del febbraio 2016 tra David Cameron, a nome del governo britannico, e l’Unione europea, è ormai nulla;

1. rispetta la decisione del popolo britannico, che dovrebbe essere vista come uno stimolo a costruire un’altra Europa;

2. chiede che l’articolo 50 TUE sia immediatamente applicato;

3. ricorda che l’articolo 50 TUE prevede che il Parlamento dia la sua approvazione e chiede che tale istituzione sia coinvolta in tutte le fasi dei negoziati riguardanti l’accordo di recesso;

4. rammenta che tutte le decisioni riguardanti le relazioni future tra l’UE e il Regno Unito, dopo l’uscita di quest’ultimo, devono essere il risultato di un processo democratico e coinvolgere sia il Parlamento europeo che i parlamenti nazionali;

5. sottolinea che l’esito del referendum dimostra che è necessaria un’altra Europa, la quale dovrà essere costruita con l’accordo dei cittadini, che si aspettano decisioni concrete su questioni sociali quali l’occupazione, la trasparenza e il welfare, e il rifiuto delle misure di austerità;

6. sottolinea che l’esito del referendum e la decisione del popolo britannico dimostrano chiaramente che l’UE sta attraversando una profonda crisi, che è il risultato delle politiche neoliberali e di austerità, e dell’erosione della democrazia; ritiene pertanto che per l’UE sia giunto il momento di affrontare i problemi reali dei cittadini per il tramite di un profondo cambiamento di politica atto a soddisfare le loro aspettative;

7. ribadisce la difesa di valori quali la democrazia, la pace, la tolleranza, il progresso e la solidarietà, nonché la cooperazione fra i popoli; condanna le forze nazionaliste di destra in ascesa ed evidenzia il fatto che la via da seguire deve essere quella di un’Europa che si assume maggiori responsabilità quanto all’accoglienza dei rifugiati, anziché chiudere le proprie frontiere a coloro che fuggono guerre e conflitti;

8. osserva che i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno scelto di rimanere nell’UE; è del parere che il governo britannico abbia perso ogni mandato a rappresentare gli interessi dei cittadini dell’Irlanda del Nord in relazione all’UE;

9. ritiene che vi sia l’esigenza democratica di tenere un referendum sull’unità irlandese, quale previsto dall’Accordo del Venerdì santo;

10. invita l’UE a continuare a sostenere il processo di pace in Irlanda;

11. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione nonché ai governi e ai parlamenti degli Stati membri.

I leader di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 29 giugno 2016

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit, è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione.) Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato – né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2. Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto, tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari.
Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élite fin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioni e dalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

Brexit e le colpe dell’Unione

di lunedì, Giugno 27, 2016 0 , , , Permalink

Bruxelles, 27 giugno 2016. Riunione straordinaria del gruppo GUE/NGL. Dibattito sul Referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea. 

Intervento di Barbara Spinelli nella qualità di co-relatore ombra con Martina Anderson (Sinn Fein).

Premetto che la mia scelta personale, come membro del gruppo e al tempo stesso della Commissione affari costituzionali, va nella direzione di un rifiuto netto della Joint motion resolution, confezionata subito dopo il referendum inglese dai gruppi centrali del Parlamento europeo. Quel che innanzitutto colpisce, nella loro reazione alla defezione britannica, è l’assenza di qualsiasi autocritica, di qualsiasi memoria storica, di qualsiasi allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. Perché non va dimenticato il fatto che stiamo parlando di un Paese che è ancora membro dell’Unione a tutti gli effetti.

Vado per punti, che corrisponderanno a precisi passaggi della Risoluzione congiunta.

Primo. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità dell’Unione: il riconoscimento esplicito, e preliminare, del fallimento monumentale delle istituzioni europee (Commissione, Consiglio europeo, e anche Parlamento) nonché dei dirigenti politici dei Paesi membri: tutti. In ambedue i casi la cecità è totale, devastante e volontaria. Sono anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, che istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Sono anni che disprezzano e soffocano i segnali di uno scontento popolare crescente, così come esso si manifesta in elezioni e referendum. Lo stesso FMI, lo stesso governatore della Banca centrale greca, cominciano a criticare l’accanimento terapeutico di un risanamento economico che tutto fa tranne risanare, pur continuando a esserne i gestori e promotori. Nel proprio cervello, queste élite non hanno nessuna memoria del passato – né quello lontano né quello vicino: non si pongono domanda alcuna su quel che fu Weimar e sul disastro prodotto dai negoziati UE-Grecia. È come se non avessero imparato né potessero imparare nulla. Sono come gli uomini vuoti, gli «hollow men» di Eliot : «Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia – stuffed men. Leaning together. Headpiece filled with straw». La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. La colpa è degli elettori, – «l’immenso pericolo viene dai populisti o estremisti», ha detto Hollande. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno di università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono esclusivamente addebitabili a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

Secondo. Nessun legame consequenziale viene stabilito, nella mozione congiunta e nelle reazioni di Juncker o Tusk, tra il Brexit e l’evento disgregante che è stato l’esperimento con la Grecia, fin dall’inizio e ancor più dopo la vittoria di Tsipras. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto con una grandissima maggioranza il memorandum della troika, eufemisticamente chiamata oggi «le istituzioni». Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite al comando in Europa si è fatto più che mai vasto, tangibile e diffuso nell’Unione. L’Inghilterra, con più peso evidentemente della Grecia, ha infine posto la questione centrale della sovranità democratica da riprendersi: le argomentazioni sono naturalmente differenti, ma la questione della sovranità è presente in entrambi i casi. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sul Grexit inevitabilmente hanno prodotto il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato evidente e ripetutamente ostentato. Questo dovremmo dirlo a chiare lettere nella nostra mozione, visto che pochi nelle élite lo ricordano. Nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa delle presenti élite che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Stati Uniti è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli sbagliati di Bruxelles.

Terzo. Ci sono alcuni punti nella Risoluzione congiunta che hanno uno stretto rapporto con i lavori che svolgo nella Commissione affari costituzionali. Mi riferisco in particolare ai punti 10, 11, 12. Il paragrafo 10 prospetta come via d’uscita una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso («the core of the EU must be reinforced»). Sarà interamente dominato dalla Germania. Verso quale approdo procede? Lo stesso di sempre: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti a esso connessi, e per quanto riguarda il commercio internazionale – mi riferisco ai negoziati su TTIP, TISA, CETA – piena libertà data alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi costitutivi delle democrazie costituzionali come la giustizia, i Parlamenti e le volontà popolari (referendum sull’acqua in Italia). I punti 11 e 12 scelgono come bussole su cui orientarsi due rapporti di Afco che sto seguendo come “shadow” per il gruppo: quello sullo sfruttamento delle potenzialità di Lisbona (Rapporto Bresso-Brok) e il Rapporto Verhofstadt sulle “evoluzioni e gli aggiustamenti” (la parola “trasformazione” è accuratamente evitata) del presente Trattato. Questo secondo rapporto è ancora dormiente, e penso andrà nella direzione del “nucleo centrale” cui accennavo. Per quanto riguarda il primo, posso testimoniare che lo status quo è difeso con accanimento e autocompiacimento: mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare da salvaguardare, sulla sovranità cittadina da rispettare, sui fallimenti delle terapie di austerità. Parlare di adesione dell’UE alla Carta Sociale di Torino è visto come una blasfemia. Altri rapporti sono stati discussi in questo Parlamento (cito solo quello sulla trasparenza) ma non vengono neanche ricordati.

Quarto. La migrazione e i rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il leave (sono guardati con sospetto sia rifugiati e migranti che vengono da fuori, sia quelli intra-europei), ma l’argomento è appena menzionato, in maniera perfida, nel punto 10 della Risoluzione. Si parla di «affrontare la sfida della migrazione» per concludere che occorre sviluppare l’Unione economica e monetaria e le politiche di sicurezza interna. Perché questo silenzio? Perché le politiche dell’Unione già hanno incorporato le argomentazioni delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia – e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan – e non hanno argomenti da contrapporre alla campagna dell’UKIP contro la presunta invasione degli stranieri. Il Brexit da questo punto di vista è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le forze di estrema destra che non esitano a proporre i respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all’accordo dello scorso febbraio tra UE e Cameron. È un punto, questo su rifugiati e migrazione, che dovrebbe figurare a chiare lettere nella nostra mozione. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine, e hanno dato le ali alla xenofobia che si è espressa in buona parte della campagna per il leave.

Quinto. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi dice di voler recuperare. È un punto che mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento dell’Unione. L’Unione doveva essere un baluardo, per i suoi cittadini, contro l’arbitrio e il dominio dei mercati e della globalizzazione. Questa scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite di quanto già lo fossero e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo – con le sue leggi e norme, con le sue capacità di solidarietà, con il modello sociale del Welfare, con la sua Carta dei diritti – ma il semplice portavoce dei mercati globalizzati. Questa globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione che teme ogni riforma-controllo del capitalismo e ogni espressione di scontento popolare, che si avvale del Trattato di Lisbona e che affida tutti i poteri a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Cito fra le molte dichiarazioni dei rappresentanti di quest’oligarchia la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a John Hilary, che l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: «Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo». Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élite fin dagli anni ’70 (il vero inizio della crisi, economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità (governability). L’idea del cittadino o dei popoli «governabili» è del tutto passiva.

Sesto. L’intera discussione sul Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive dell’Unione: la visione distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioni, e dalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos in Spagna, nel cui successo domenica scorsa speravo, e che purtroppo non è stata premiata. E anche su questa contrattura o stagnazione dovremo porci delle domande. Anche questa tripolarità è assente dalla Risoluzione congiunta, e deve essere sottolineata nella nostra.

Settimo. Dobbiamo a mio parere distinguere bene tra sovranità popolare e sovranità nazionale. Questo referendum ha espresso una sovranità popolare che nei fatti entra in contraddizione con l’idea di sovranità nazionale. Il Regno Unito si ridurrà alla sua parte britannica. Scozia e Irlanda del Nord avendo votato remain potrebbero congedarsi prima o poi dal Regno Unito: con un nuovo referendum sull’indipendenza in Scozia, con uno o due referendum in Irlanda del Nord (sul nuovo confine tra Inghilterra e Irlanda del Nord, sull’unificazione nordirlandese con l’Irlanda). La distinzione fra sovranità popolare e nazionale è essenziale, e mi porta a dire che anche i paragrafi 1, 2 e 7 della Joint Resolution sono da cancellare. Viene presupposto infatti che il Regno Unito nella sua interezza territoriale ha votato l’exit, quando non è stato così.

Ottavo e ultimo. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Se ne discute nella Commissione Afco, e nel gruppo centrale del Parlamento c’è un’ostilità diffusa a questi strumenti, che dopo il Brexit si accentuerà. Dico solo che la democrazia diretta è certo un rischio, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa va fatta risalire al fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

Radicalizzazioni nate in casa

Bruxelles, 22 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli (GUE/NGL) nel corso della sessione Plenaria di Bruxelles.

Punto in agenda: Prevenire la radicalizzazione che conduce all’estremismo violento e al terrorismo

  • Presenti in aula Tibor Navracsics, Commissario europeo per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, e Bert Koenders, ministro degli esteri dei Paesi Bassi, in rappresentanza del Consiglio.

In Francia come in Nord America, siamo di fronte a una mutazione del terrorismo, dunque anche della radicalizzazione. Spesso l’Isis ci mette il cappello, ma gli atti che subiamo nascono in casa: sono nostri concittadini a deciderli, soli. La scelta dell’assassino di Jo Cox di difendere le proprie idee col coltello è stoffa delle nostre città, della nostra cultura. La partecipazione politica è giudicata strumento morto, freddo. Il male violento si banalizza. «Avevo bisogno di riconoscimento», ha detto l’assassino di poliziotti a Magnanville.

Dobbiamo cercare di capire come è avvenuto questo passaggio, senza concentrarci ossessivamente su singoli fattori scatenanti: internet, le prigioni, le scuole. Ancora più deleterio è rispondere con democrazie sempre più sorvegliate, con l’islamofobia, con le guerre ad atti violenti che non sono bellici, ma legati a sradicamenti difficilmente decifrabili.

L’omicidio di Jo Cox ricorda l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando nel giugno 1914. Lo sparo contro un impero multietnico non cade dal cielo: è il risultato di decenni di diserzione politica delle élite. Se al terrorismo si risponde con la politica della paura, avendo paura dei conflitti o di internet o dello straniero, sarà il terrorismo a vincere.

L’Europa chiama populista chi rifiuta le oligarchie

Intervista di Silvia Truzzi a Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 giugno 2016

La parola è populismo. “Queste elezioni rappresentano una svolta che mette in dubbio molte granitiche certezze nella classe politica tradizionale. In particolare confutano slogan che sembravano punti di forza e invece si sono rivelati fragilissimi”, spiega Barbara Spinelli, giornalista, scrittrice ed europarlamentare, Indipendente del gruppo GuE-Ngl (Sinistra unitaria europea). “La prima accusa che in genere viene rivolta al Movimento 5 Stelle è quella di populismo. Ma le urne di domenica ci dicono che il populismo di cui si parla con tanto disprezzo non è in fondo altro che il desiderio, profondo, di restaurare in pieno la sovranità popolare”.

Il populismo è l’altra faccia della governabilità, slogan che sentiamo ripetere continuamente.
Infatti: la governabilità, che ci viene propagandata come il valore massimo, nasconde in realtà un tentativo di accentramento del potere. Del resto “governabilità” ha un significato passivo, vuol dire “essere governati”. Tra
queste due parole, “populismo” e “governabilità”, c’è una connessione stretta: le urne ci hanno detto che il popolo non vuole subire il governo dall’alto. Vuole governi, non governabilità. Questo al netto dell’astensionismo, che però nei ballottaggi è abbastanza fisiologico. L’accusa di populismo in tutta Europa viene utilizzata insistentemente per screditare ogni forma di protesta o di partecipazione dei cittadini, penso per esempio ai referendum. Tutto ciò che dà voce alla volontà dei cittadini viene svilito, eppure in tutta Europa il principio della sovranità popolare è il fondamento della democrazia costituzionale. Qualche settimana fa Junker al G7 ha attaccato i populisti dell’Occidente mettendo sullo stesso piano Beppe Grillo e Donald Trump. Accusa che ha certamente fatto piacere al premier Renzi, ma che indica la cecità della classe dirigente europea rispetto a movimenti sociali sempre più rilevanti.

C’è un legame con i prossimi appuntamenti, come il referendum costituzionale di ottobre?
Un legame strettissimo. Tutta l’impalcatura oligarchica scricchiola: la riforma del Senato, che non sarà più elettivo, nella misura in cui è abbinato alla nuova legge elettorale, si contrappone a questo tentativo di recupero del principio di rappresentanza e di sovranità. Per essere coerenti, gli anti-populisti dovrebbero eliminare le elezioni: se si considera qualunque alternativa alle politiche proposte come populista, tanto vale non chiamare più i cittadini a esprimersi. Perché le elezioni ti possono dare come risultato il fatto che il popolo sceglie l’alternativa.

Si è detto che con Virginia Raggi e Chiara Appendino il Movimento 5 Stelle ha presentato un volto più rassicurante, più istituzionale.
Ho seguito la campagna elettorale e ho avuto l’impressione che le due candidate siano arrivate molto preparate e con le idee chiare all’appuntamento con le urne. Aggiungo: non ne sono affatto sorpresa. Sono al Parlamento europeo da due anni e seguo attentamente quello che i miei colleghi del Movimento 5 stelle fanno a Bruxelles e Strasburgo: con loro lavoro in modo molto proficuo perché hanno competenza di altissimo livello su questioni specifiche e tecniche. Sono documentati, studiano, sono puntuali negli interventi. Dicono che sono antieuropei, ma non è vero: si battono per un’Europa diversa e questo per me vuol dire essere pro Europa.

Quali sono le sfide che ha davanti il Movimento ora?
Queste elezioni hanno dimostrato la prevalenza della sovranità popolare, ma non basta esprimerla nel momento del voto. Deve essere un processo continuo. Una volta insediati nei municipi, i nuovi sindaci 5 Stelle dovranno continuare ad appellarsi alla sovranità popolare, e avere un legame forte con i cittadini, con la società civile: i poteri forti non si faranno da parte.

Sia Virginia Raggi che Chiara Appendino dopo la vittoria hanno fatto discorsi molto inclusivi.
È un messaggio molto giusto. Non sarà semplice il loro lavoro. Virginia Raggi ha detto di voler mettere un punto e cambiare pagina, dopo gli scontri della campagna elettorale. Ma gli altri, i poteri forti, non credo lo faranno. Anche i cittadini dovranno essere molto vigili, continuando a sostenere il lavoro dei nuovi eletti.

Il Pd ha perso la connessione sentimentale con i ceti più popolari?
Non considero il Pd un partito di sinistra. Quello che i candidati e le candidate dei 5 Stelle dicono sulla povertà e le disuguaglianze sociali sono temi che un tempo erano della sinistra. Anche nella battaglia No Tav io credo che molte persone di sinistra si potrebbero riconoscere.

Commentatori e politici del Pd dicono che Renzi non avrebbe completato il processo di rottamazione e qui starebbero le ragioni della sconfitta.
Renzi rispecchia molto la tendenza oligarchica che c’è negli esecutivi di tutta Europa: è questo modo di governare che va rottamato.

Risposta della Commissione sulle trivellazioni

È giunta la risposta di Karmenu Vella a nome della Commissione all’interrogazione scritta sulle trivellazioni:

IT
P-002962/2016
Risposta di Karmenu Vella
a nome della Commissione
(14.6.2016)

La Commissione ritiene che in questa fase non vi sia una potenziale violazione del diritto ambientale dell’Unione, poiché la decisione, adottata con atto legislativo, di estendere le autorizzazioni per l’estrazione di idrocarburi entro 12 miglia nautiche dalla costa “per la durata di vita utile del giacimento” è di competenza esclusiva delle autorità nazionali.

La Commissione ritiene altresì che non vi sia alcuna violazione delle disposizioni della convenzione di Aarhus[1], in quanto gli obblighi della convenzione relativi alla partecipazione del pubblico non si applicano agli atti legislativi.

Data la modesta produzione di idrocarburi in Italia, tale misura legislativa non dovrebbe peraltro avere un impatto considerevole sulla concorrenza nei mercati internazionali degli idrocarburi. La Commissione ritiene pertanto che non vi sia in questa fase una potenziale violazione della normativa unionale in materia di concorrenza.

Infine, a norma della direttiva 94/22/CE [2] relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, l’Italia deve garantire che la durata delle autorizzazioni non superi il periodo necessario per portare a buon fine le attività per le quali esse sono state concesse. Tuttavia, le autorità competenti possono prorogare la durata delle autorizzazioni se la durata stabilita non è sufficiente per completare l’attività in questione e se l’attività è stata condotta conformemente all’autorizzazione.

[1]     http://ec.europa.eu/environment/aarhus/

[2]     GU L 164 del 30.5.1994, pag. 3.

Hotspot in Italia – galleggianti e non

di sabato, Giugno 18, 2016 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 16 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Attuazione dell’approccio basato sui “punti di crisi” in Italia

  • Presentazione a cura di Olivier Onidi, vicedirettore generale per la migrazione e l’Asilo, DG HOME, Commissione europea

Nel corso della discussione è intervenuta anche Sophie Magennis, capo dell’unità di supporto politico e giuridico dell’ufficio UNHCR per l’Europea, Bruxelles

Ringrazio il dottor Onidi per la sua presentazione. Le domande che vorrei fare sono due:

Per prima cosa vorrei chiedere, sia a lui sia al rappresentante dell’UNHCR, se non esista il rischio che gli hotspot diventino in qualche modo centri di detenzione. Una denuncia molto chiara in questo senso è venuta dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), concernente la Grecia e gli accordi tra Unione europea e Turchia. Un rischio simile esiste anche Italia.

Il secondo punto su cui mi piacerebbe avere una risposta riguarda gli hotspot galleggianti in mare. Sono contenta delle indicazioni che vengono dalla Commissione, circa la forte limitazione dei compiti che avranno gli eventuali hotspot galleggianti, ma mi domando se anche i compiti che lei ha indicato, per esempio la pre-identificazione di migranti e rifugiati, non siano eccessivi e non vadano nella direzione, esclusiva, di accelerare i rimpatri.

Vorrei ricordare che esistono due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’Italia, per l’uso che può essere fatto delle navi su cui vengono trattenuti i migranti (sentenza Hirsi Jamaa, 23 febbraio 2012, sentenza Khlaifia, 1 settembre 2015), e ricordare che solo sulla terraferma i migranti possono essere assistiti nelle loro lingue e fruire del diritto alla difesa. Tutte queste mansioni, anche se si tratta solo di pre-identificazione, sono difficili se non impossibili negli hotspot galleggianti.

Si veda anche:

Comunicato ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) del 19 maggio 2016: È illegittimo qualsiasi hotspot per identificare i migranti in mare

Versione inglese su Statewatch del 9 giugno 2016: Any hotspot to identify migrants at sea is illegal

Integrazione dei migranti e mercato del lavoro

Bruxelles, 15 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Piano d’azione sull’integrazione di cittadini di paesi terzi”

  • Esposizione della Commissione

Vorrei chiedere alla Commissione quale sia il suo pensiero a proposito del rapporto sempre più complicato fra esigenze di integrazione di migranti e rifugiati, difesa del welfare, e leggi che nei vari Paesi dell’Unione regolamentano il mercato del lavoro. Chiedo questo perché molte delle paure che emergono negli Stati membri, e soprattutto nelle classi popolari, nascono dal timore di perdere diritti legati al Welfare state e di subire una sorta di competizione al ribasso tra forze lavoro, collegata all’aumento del fenomeno migratorio. Sono paure che possiamo non condividere, ma che riflettono una realtà con cui urge fare i conti.

Rivolgo questa domanda alla Commissione poiché ritengo che la regolamentazione del mercato del lavoro, e dunque le leggi sul lavoro, non siano più, di fatto, esclusiva competenza degli Stati Membri. Le riforme del mercato del lavoro, e la crescente precarizzazione che esse producono, sono richieste che provengono direttamente dalle istituzioni europee: sia nel corso del cosiddetto “semestre europeo”, sia attraverso le lettere inviate dalla Banca Centrale Europea agli Stati in difficoltà, come è avvenuto in Italia e in altri Paesi dell’Unione negli anni scorsi. Quello che nello specifico viene costantemente chiesto, in tali occasioni, sono appunto riforme del mercato del lavoro che generalmente vanno nella direzione di una precarizzazione crescente. Per questo mi rivolgo alla Commissione, sperando che la risposta non sia: “Queste scelte sono nelle mani degli Stati membri”. Perché non lo sono più.