Le Pen sconfitta, Macron non ride

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 aprile 2022

Strana e perturbante vittoria, quella di Emmanuel Macron domenica sera. Marine Le Pen è stata sconfitta in maniera netta, visto che il presidente uscente ha ottenuto il 58,5% dei suffragi, ma non esce stremata dalla prova: la vetta che ha raggiunto è senza precedenti nella storia dell’estrema destra francese (41,5%). Sconcertante anche l’alto numero di schede bianche e nulle – circa 3 milioni di elettori – e quello degli astensionisti (le tre categorie insieme rappresentano oltre il 34% dei voti, più di 16,7 milioni).

Quando vinse alle Presidenziali del 2017, Macron aveva fatto una promessa: farò indietreggiare la destra estrema. Non è stato di parola. Ha vinto e perso al tempo stesso. Ormai è chiaro che la Francia non intende votare nessun candidato che abbia il nome di Le Pen, ma nessuno può escludere che in futuro scelga come approdo l’estrema destra che Jean Marie e Marine hanno incarnato per vent’anni.

Il futuro di cui parliamo potrebbe essere vicinissimo: il 12 e 19 giugno i francesi torneranno alle urne per eleggere la maggioranza parlamentare di cui Macron potrà disporre per governare e tradurre in realtà un programma che peraltro non ha mai veramente presentato agli elettori. Non ha sentito il bisogno di presentarlo perché fin dall’inizio ha scommesso sulla carta più comoda: il duello con Le Pen al secondo turno. Non ha nemmeno sentito il bisogno di fare campagna elettorale, se non fra il primo e il secondo turno quando i giochi erano fatti. Non ha neppure garantito l’adozione dello scrutinio proporzionale che a parole dice di favorire. Sapeva che i francesi lo avrebbero in gran parte votato non perché convinti dal suo regno o perché impauriti dall’alternanza al potere ma perché ostili all’alternativa lepenista (i convinti non superano di molto il 27,8% strappato al primo turno).

Questo significa che i giochi sono tutt’altro che fatti e che la terra continua a tremare sotto l’Eliseo: subito dopo il secondo turno delle Presidenziali ci sarà il terzo turno delle Legislative e forse un quarto nelle piazze, in autunno. Rieletto con una maggioranza forte ma profondamente equivoca, Macron continua a essere oggetto di un vasto rifiuto: che comprende non solo le destre estreme in ascesa ma anche e non secondariamente la sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che al primo turno delle presidenziali ha ottenuto un successo insperato, distanziando Le Pen di poco più di un punto. Fin da domenica sera Mélenchon ha dato inizio alla campagna delle legislative presentandosi come l’unico, autentico leader dell’opposizione a Macron, l’unico garante credibile di future alternanze. La lotta decisiva, alle elezioni di giugno, sarà tra lui e Le Pen. Ambedue aspirano a questa leadership. Ambedue hanno come scopo la conquista di una maggioranza in Parlamento che costringa Macron a governare con l’estrema destra o con la sinistra.

Naturalmente le élite francesi e i giornali non dicono “sinistra”, quando menzionano Mélenchon. Dicono “estrema sinistra”, generando in questo modo un distorcente parallelismo fra i due aspiranti capi dell’opposizione e lusingando quello che Macron magnifica come “estremo centro”: un luogo della politica più che impreciso, dove sono invitati a confluire i minuscoli frammenti del Partito socialista, dei Verdi, dei Repubblicani a destra, tutti disintegrati al primo turno delle presidenziali.

In realtà Mélenchon rappresenta l’unica sinistra rimasta in piedi dopo i due terremoti che hanno creato il fenomeno Macron nel 2017 e 2022. I socialisti sono estinti, avendo raccolto l’1,7%. I Verdi hanno raggranellato il 4,6. È il motivo per cui l’Unione Popolare di Mélenchon si è mossa con cautela fra i due turni, promettendo rivincite ma sconsigliando il voto a Le Pen con insistenza accresciuta rispetto al 2017. Appena saputo che Macron aveva vinto, Mélenchon è rimontato a cavallo e ha annunciato l’inizio della battaglia per il terzo turno. Lo stesso ha fatto Le Pen, che ha parlato ai suoi elettori senza condividerne le delusioni ma anzi spronandoli a inforcare subito i cavalli e ripartire per vincere davvero.

Mélenchon, in particolare, scommette sugli astenuti e sulle tante schede bianche e nulle che hanno rifiutato un secondo duello snaturato e mistificatore, tra Macron e Le Pen. Tra loro c’è chi voterebbe sinistra, che già l’ha fatto al primo turno, che ha quasi visto venire quel che molti democratici desideravano, non solo in Francia: un duello decente, non storpiato, fra Macron e Mélenchon. Sono anche da convincere non pochi suffragi popolari che solo provvisoriamente, forse, hanno votato estrema destra.

Marine Le Pen, da parte sua, punta a estendere quel che ha conquistato. Il nucleo più fedele al suo partito si esprime nel nazionalismo, specie quello xenofobo di Eric Zemmour. Ma la sua vera forza di attrazione, quella che le ha fatto fare il balzo in avanti, non è tutta qui: è nella rabbia e nello scontento delle classi popolari e degli impoveriti, il cui potere d’acquisto è oggi tartassato. Ed è nelle classi di età intermedie, dei cittadini “attivi” (Macron raccoglie consensi soprattutto nelle “classi” dei giovani e anziani, oltre che nelle grandi città).

Questa Francia grandemente frantumata, questi esiti così complessi della campagna di Le Pen e di Mélenchon, sono stati mal compresi e interpretati ancor peggio in Italia. Si è mostrato impreparato e miope soprattutto il Pd di Letta, che ha subito sposato la tesi di Macron sul doppio estremismo da combattere, di destra e sinistra. Il Pd si rifiuta ottusamente di dare a Mélenchon la patente di sinistra, di constatare e ripensare la morte del vecchio socialismo francese e l’inconsistenza dei Verdi. Non ha visto l’enorme rigetto di Macron, espresso dalle classi popolari che in massa hanno scelto Le Pen, o che si sono astenuti o hanno votato scheda bianca e nulla.

Il degrado mentale italiano si è rivelato con evidenza quando Giuseppe Conte è stato accusato di non indicare chiaramente la preferenza per Macron, quando si è limitato a dire (come Mélenchon) che dietro il voto lepenista c’è una collera sociale che va meglio analizzata e riguadagnata. Lo stesso Macron ha ammesso che questo è il messaggio del secondo turno e che ne terrà conto. Si è guardato dall’inveire, come ha fatto Letta, contro chi votando Le Pen “dà la vittoria a Putin”. Strana e perturbante è dunque la Francia. Ma non meno strani e perturbanti gli italiani macronisti che nel desiderio di emarginare Conte girano il mondo con gli insulti facili e gli occhi bendati.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

A Kiev l’Ue fa harakiri

di Barbara Spinelli, «TPI – The Post Internazionale», 14 aprile 2022

Come altri Paesi dell’Est Europa che per decenni hanno vissuto ingabbiati nel Patto di Varsavia, i governanti dell’Ucraina avevano in mente come assoluta priorità l’ingresso nella Nato: l’unico punto d’arrivo che dava loro la sensazione di un cambio di pagina decisivo – una volta dissolta l’Unione sovietica assieme al suo impero – e che offriva un ombrello di protezione militare almeno in apparenza automatico (l’articolo 42,7 del Trattato di Lisbona è ritenuto troppo labile in proposito: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”).

L’adesione all’Unione europea era giudicata come un primo passo verso l’orizzonte atlantico, una sorta di corridoio in grado di connettere l’Est europeo alla ben più cruciale America del Nord, oltre che al Regno Unito. Questa era l’Europa sognata in gran parte delle società postcomuniste: non un fine ma un mezzo, non l’abitudine alla convivenza tra popoli che lungo i secoli si erano combattuti in scontri sanguinosi (i fondatori che sono Germania, Francia e Italia in primis) ma una base d’appoggio per spiccare il salvifico, risolutivo salto oltre l’Atlantico.

Adesso che siamo in piena guerra tra Kiev e Mosca l’aspirazione ucraina inevitabilmente si ridimensiona. Il principale obiettivo di Mosca era la neutralità dell’Ucraina e la rinuncia di Kiev all’ingresso nella Nato, ed è stato raggiunto, così come dopo il ’45 fu raggiunto neutralizzando Finlandia e Austria. Ambedue le grandi potenze nucleari vogliono avere attorno a sé una cintura di Stati neutrali, non armati da Paesi avversari o lontani, e lo squilibrio fra Russia e Nord America creatosi con l’allargamento a Est della Nato non poteva durare. La cintura dell’una come dell’altra potenza è chiamata anche sfera di interesse. In America del Nord prende il nome di Dottrina Monroe. La dottrina fu annunciata negli anni Venti dell’800, dopo le guerre napoleoniche: vietava l’intromissione di forze esterne in tutta l’America Latina, isole comprese, e ancor oggi è sacrosanta per le amministrazioni Usa. Carlo Emilio Gadda la chiamò nel 1929 il “campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato” (in realtà non fu affatto leggiadro, come si vide poi in Cile o Venezuela o Nicaragua o Cuba). Il filo spinato che proteggeva l’URSS e il Patto di Varsavia era spaventoso ma nelle menti dei governanti russi l’idea di una “cintura” neutrale anche se non più spaventosa continua a esistere, e continuerà presumibilmente a esistere anche dopo Putin.

Questo l’equivoco che il primo grande allargamento a Est dell’Unione europea non ha risolto (otto Paesi in tutto, tra il 2004 e il 2013) e che sempre più ha avvelenato le sue relazioni interne, la sua idea di stato di diritto, il progetto pacifico che nel secondo dopoguerra era stato il cemento prima del Mercato Comune poi della Comunità infine dell’Unione. La promessa di includere al più presto l’Ucraina, e contemporaneamente anche la Georgia e la Moldavia che hanno presentato la loro domanda di candidatura il 3 marzo, tre giorni dopo la domanda di Kiev, rappresenta un radicale sbilanciamento dell’Unione a Est, con conseguenze enormi che andranno ben analizzate e se possibile contrastate e riaggiustate, se si vuole che l’UE sopravviva come progetto pacifico i cui interessi non possono eternamente coincidere con quelli oltreatlantici.

L’adesione di Ucraina, Moldavia e Georgia aggiungerebbe agli abitanti dell’Unione circa 51 milioni (ben più degli abitanti polacchi), tutti appartenenti a Paesi che o vivono in piena guerra come nel caso di Kiev, o sono dotati di confini incandescenti con Mosca e immersi in conflitti congelati come Georgia e Moldavia. L’ingresso di Cipro nel 2004 già fu una scelta avventata dei dirigenti UE, se si considera il fatto che l’isola era lungi dall’aver superato il conflitto territoriale con la Turchia. Prossimamente, con l’aggiunta di Ucraina, Georgia e Moldavia, sarebbero ben quattro gli Stati non ancora pacifici che entreranno nell’Unione con un’idea calda delle guerre fredde e con confini instabili oltre che controversi. La natura e l’immagine dell’Unione ne verrebbero alterate in maniera drastica.

Già oggi i Paesi dell’Est – Polonia e Baltici in prima linea – sono nell’Unione con l’idea di cambiarne propositi e ragion d’essere. Non riconoscono pienamente la Carta dei diritti fondamentali, che pure è giuridicamente vincolante essendo iscritta nei Trattati. Non mancano di sottolineare – ogni volta che prendono la parola nel Parlamento europeo o nel Consiglio – che principi e diritti contenuti nella Carta e nei Trattati sono soggettivi, la cui portata giuridica è opinabile. Sempre vedono, nell’Unione, i possibili e temibili tratti del Patto di Varsavia. Era questa d’altronde la posizione congiunta del gruppo di Visegrad, ultimamente sfasciatosi perché l’Ungheria, pur condividendo i giudizi di Polonia e Baltici sui diritti, si è rifiutata di entrare in rotta di collisione con Mosca durante la guerra in Ucraina, e non partecipa né alle sanzioni né a possibili blocchi delle importazioni di gas e petrolio.

L’ingresso dell’Ucraina (il paese più popoloso tra i nuovi candidati) accentuerebbe questa divisione tra “Vecchia” e “Nuova Europa”. Divisione su cui scommise con forza l’amministrazione di George W. Bush, nel 2003 in occasione della guerra in Iraq. Come scriveva Dario Fabbri nel dicembre 2017, su «Limes», tale era la “Nuova Europa nella bellicosa dizione di Donald Rumsfeld, da contrapporre alla censurabile mollezza dell’altra metà del continente. Estesa dalla Slesia al bassopiano sarmatico, dal Baltico al Mar Nero, dai Carpazi alla Bessarabia. Composta da molteplici etnie e confessioni, eppure universo reso culturalmente coeso dalla passata appartenenza all’impero sovietico”.

La divisione è oggi meno visibile, visto che anche la vecchia Europa si è appiattita sulle volontà della Nato e dell’amministrazione Usa, ma nel medio periodo potrebbe tornare a essere non solo visibile ma distruttiva e autodistruttiva. Le prime avvisaglie già sono percepibili: la decisione di Zelensky di rifiutare la visita a Kiev del Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, considerato “persona non grata” per le passate posizioni favorevoli al gasdotto Nord Stream 2, le critiche dei dirigenti ucraini ai governi europei troppo poco bellicosi o non bellicosi con Mosca, la predilezione evidente di Kiev per l’alleanza con la Gran Bretagna, che pure non è più parte dell’Unione: sono tutti segni che il cambio di rotta nella storia europea è già cominciato. Tra Paesi potenzialmente così diversi una difesa comune e indipendente da Nato e Washington sarà sempre più ardua, e quasi impossibile una comune politica estera su cui fondare ed ergere l’esercito europeo che tanti anelano nel nostro continente senza ben sapere di cosa stanno parlando.

© 2022 The Post International (TPI)

Il muro contro Mélenchon

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2022

In apparenza si è ripetuto il copione delle penultime Presidenziali, domenica sera: Emmanuel Macron e Marine Le Pen arrivano in testa al primo turno (27,84% e 23,15), sicché la sfida per la conquista dell’Eliseo sarà fra loro due.

Subito dopo, terzo nella lista, si è imposto il leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon (21,95%). Lo scarto che lo separa da Le Pen è esiguo, bastava poco più di un punto e Macron avrebbe battagliato con lui. Senza crederci un granché, non pochi speravano in questo risultato, che avrebbe messo fuori gioco Le Pen producendo uno scontro ben più fecondo e meno lacerante, fra il centrodestra di Macron e la sinistra di Mélenchon.

Quel che lacera gli elettori che ora temono un trionfo di Le Pen (e l’influenza che eserciterebbe su di lei Éric Zemmour, il candidato che la voleva sorpassare) è dover ancora una volta – la terza dal 2002 – votare un candidato aspramente combattuto. Una scelta terribile, come ha ricordato domenica Mélenchon, che pure ha esortato a “non dare neanche un voto” a Le Pen. L’indicazione era obbligata ma non semplicissima: se in politica estera e sull’Ucraina le posizioni di Macron e Mélenchon sono abbastanza simili, se il reiterato tentativo presidenziale di negoziare con Putin e distanziarsi dalla bellicosità Usa riscuote vasti consensi, compresi quelli lepenisti, il giudizio complessivo sul Presidente resta più che negativo. Sono sotto accusa la solitudine del comando; i favori fiscali ai più abbienti tanto contestati dai Gilet gialli, il ricorso massiccio ai consulenti di McKinsey e Accenture (1 miliardo di euro versati nel 2021 da Parigi), spesso l’arroganza, infine il rifiuto di ogni dibattito prima del primo turno.

A differenza di quanto accadde al primo turno del 2017, Macron appare oggi preoccupato, perché gli esiti del duello sono meno sicuri. In questi anni Le Pen si è mostrata più moderata: grazie anche a Zemmour, più xenofobo e agitato di lei. Con astuzia si è concentrata sulle ingiustizie sociali, anziché sull’immigrazione che pure resta un suo punto forte. In piena guerra ucraina la vicinanza a Putin la svantaggia, ma Marine ha condannato l’aggressione russa in nome del sovranismo e dell’intangibilità delle frontiere. Al secondo turno può contare sugli elettori di Zemmour, sull’ala destra di parte dei Repubblicani (corrente di Éric Ciotti, presenza influente a Sud) e anche su un numero consistente di elettori di Mélenchon, esasperati dal tragico “ricatto” del secondo turno.

Quanto a Macron, potrà contare sul voto dei socialisti, dei verdi, dei comunisti. Ma son briciole, e neanche sicure in blocco. Le astensioni e le schede bianche sono un suo incubo. Come nel 2017, Macron ha fatto di tutto perché attorno a lui s’estendesse il deserto e perché Le Pen fosse la rivale unica. È morto il partito socialista (1,7%), si sfracellano i Repubblicani a destra (4,7), i Verdi (4,6) e i comunisti (2,2). I voti di cui Macron ha prioritariamente bisogno sono dunque quelli di Mélenchon, cui si è rivolto domenica sera alla Porte de Versailles. È lui l’arbitro del secondo turno, assieme al suo partito (France Insoumise-Francia Insubordinata).

Gli Insubordinati sono imprevedibili: in gran parte si asterranno, in parte voteranno Macron ma con la disperazione nell’animo, in parte eleggeranno Le Pen mescolando disperazione e rabbia.

France Insoumise è la sinistra che rimane. Potrebbe riesumare una dialettica politica meno tormentosa e più costruttiva, se non esistesse un pensiero quasi unico, in Francia come in Europa, che in Mélenchon vede lo specchio di Marine Le Pen, l’altra faccia del populismo sovranista e antieuropeo, il pericolo di riforme istituzionali che renderebbero meno monarchica la Quinta Repubblica. Non è quello che pensano gli elettori, evidentemente: se Mélenchon si rafforza mentre scompaiono socialisti, comunisti e verdi vuol dire che molti di loro hanno votato “utile” fin da domenica, scegliendo Mélenchon. È quello che consigliavano tra l’altro Ségolène Royal, candidata socialista alle presidenziali del 2007, e Christiane Taubira, popolare ministro della Giustizia sotto la presidenza Hollande.

La teoria dei doppi estremismi, di destra e sinistra, ritrova la forza che ebbe negli anni 70. È la vulgata conformista che domina nelle élite e nei giornali francesi. Oltrepassa i confini lambendo anche l’Italia, dove Le Pen e Mélenchon sono quasi sempre messi sullo stesso piano (alcuni giungono sino a dire: “Quasi meglio Marine di lui”).

C’è qualcosa di misterioso e impenetrabile nel muro innalzato contro Mélenchon. Il quale ha certo numerosi difetti e ha fatto parecchie giravolte in passato (a suo tempo fu socialista). Inoltre ha sistematicamente respinto alleanze con altre sinistre, anche se bisogna dire che il rifiuto veniva piuttosto da queste ultime: socialisti e verdi sono polverizzati da Macron, che è un animale politico anfibio, ma la colpa del deserto cui sono ora ridotti è soprattutto merito loro.

Quello che andrebbe analizzato con maggiore precisione e senza cadere nei luoghi comuni sugli “opposti estremismi” è come mai esista un astio così profondo, infrangibile, viscerale, contro Mélenchon. Non sono comprensibili sino in fondo le lamentazioni urlanti, la stizza che scatta come fosse un misirizzi se solo ci si azzarda a fare il suo nome, la collera e gli occhi che roteano verso il cielo se solo fai un piccolo striminzito accenno alla sua campagna, ai suoi argomenti, alla sua oratoria (la migliore nelle due ultime campagne presidenziali). Di certo non sono mancati suoi sbagli e scemenze, così come non mancavano sbagli, scemenze e imbrogli per attirare l’attenzione nella pluriennale campagna elettorale di Mitterrand sfociata nella conquista finale dell’Eliseo. Ma questa sorta di esclusione a priori della Francia Insubordinata, al limite e non di rado più inacidita ancora che nei confronti di Le Pen, rappresenta un intralcio che già due volte ha creato il caos elettorale in Francia.

Mélenchon arriva in testa in alcune grandi città: a Parigi e Lione è primo o secondo, a Marsiglia è primo. È piuttosto insensato considerarlo un estremista da demonizzare. Troppo comodo, comunque, per i partiti in Europa che si richiamano al socialismo, alla socialdemocrazia o al postcomunismo – Pd in Italia – e sono oggi sensibili solo ai richiami della Nato (le marchette di cui parla Cacciari) e non alla propria storia. Ovvio che Marine Le Pen trovi spazio nelle periferie e nei territori socialmente disastrati dove loro non mettono più piede.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Perché Biden vuole una guerra lunga

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 aprile 2022

Ci sono delle grandi trasformazioni che si fanno a caldo, nel mezzo di guerre e di propagande feroci e prolungate.

Solo dopo molto tempo le trasformazioni o rivoluzioni vengono considerate inevitabili, e in alcuni casi necessarie. Parliamo della fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti, del possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro, infine di un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto in caso di blocco delle forniture russe (il Gnl è a tutt’oggi il più costoso e il più inquinante che esista).

Tutto questo sarà possibile se la guerra in Ucraina continua a lungo, come ha ufficialmente auspicato Biden quando non si è limitato a chiamare Putin un macellaio, ma ha anche indicato le aspettative della sua amministrazione (non degli europei e dei civili ucraini, che in un conflitto protratto hanno tutto da perdere): “Per vincere questa guerra – così Biden a Varsavia – non ci vorranno giorni o mesi. Sarà una lunga lotta”, per come somiglia alla “battaglia per la libertà contro l’Urss, che durò non giorni o mesi ma anni e decenni”.

Chi vorrebbe d’altronde trattare col Macellaio, anche se un giorno dovrà? In Europa nessun governo, se si escludono Ungheria e Serbia. Fuori dall’Europa invece quasi tutti: in Asia, Africa, Paesi arabi, Israele, America Latina. Nell’Unione europea i popoli sono contrari a sanzioni e invio di armi, ma i governanti se ne infischiano, comportandosi come fossero personalmente in guerra. Draghi per esempio avviluppa l’obiettivo di pace in una delle sue frasi più sibilline e malriuscite: “Non siamo in guerra per seguire un destino bellico”, il che vuol dire che prescindendo dal destino, di cui nessuno di noi sa un granché, l’Italia è in guerra.

Non che i suoi colleghi europei siano meno sibillini, ma pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai. Giustamente Calenda lo invita a ragionamenti meno sgangherati sulla dipendenza italiana dal gas e petrolio russi).

Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c’erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all’inizio.

Abbiamo detto del gas liquefatto nordamericano. Resta da interpretare in questo quadro la richiesta russa di pagare le esportazioni energetiche in rubli e non più in euro o dollari. È una replica alle sanzioni sempre più pesanti subite da Mosca e anche all’intenzione Usa di sostituirsi in Europa ai fornitori russi. Gli europei hanno reagito denunciando giustamente una violazione degli accordi di forniture, ma senza badare a due elementi cruciali. Primo: le vie d’uscita esistono (si paga in due tappe: inizialmente in euro, convertiti poi in rubli). Secondo elemento: è una contromossa che non cade dal cielo, era nell’aria da anni. La posta in gioco è l’egemonia del dollaro come moneta di riserva globale: il suo tramonto potrebbe essere accelerato dalla guerra in Ucraina.

L’inevitabilità di questo declino ha le sue ragioni d’essere. Non si può escludere la Russia da tutte le transazioni finanziarie (sistema Swift), bloccare le riserve della sua Banca centrale (643 miliardi di dollari), comminare sanzioni ad infinitum, puntare a un cambio di regime al Cremlino, senza prevedere che prima o poi questa politica danneggerà il fronte occidentale, Europa in primis, ma anche Washington, che sta infiammando il conflitto sperando che Putin e tutti i filistei cadano d’un sol colpo come colonne spezzate d’un tempio.

Non esiste più da tempo l’ordine creato nel secondo dopoguerra a Bretton Woods, non c’è più fiducia nella stabilità del dollaro come riserva monetaria internazionale, visto che la moneta Usa riflette le volontà e gli interessi statunitensi da quando si è sganciata dall’oro. L’alternativa ancora non c’è. L’unica moneta che oggi ha elementi di stabilità, e che sia pure marginalmente tende a divenire rifugio, è quella cinese: lo yuan.

Si capisce lo sgomento ma non la sorpresa degli europei: l’egemonia del dollaro è messa in questione da almeno 13 anni, e l’euro è troppo schiacciato sulla geopolitica Usa per rappresentare un’alternativa allettante come moneta di riserva internazionale. Già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la “de-dollarizzazione” del sistema monetario internazionale e cioè una diversa unità di conto, che riflettesse l’interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Era una rivolta contro la militarizzazione del dollaro e la domanda di un’unità di conto multipolare: un “paniere” di varie monete, in parte agganciato all’oro.

Ne parlò nel marzo 2009 l’allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che elogiò l’unità di conto (chiamata Bancor) immaginata negli anni 40 da Keynes e affossata poi dagli Usa a Bretton Woods. Il governatore della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definì il dollaro uno “strumento inaffidabile” nel maggio 2019. Anche Brasile e India auspicano la de-dollarizzazione. In Italia ci fu chi appoggiò questa rivoluzione dei rapporti di forza monetari: nel febbraio 2010, Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi, riesumò Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Riserva federale Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.

Dopo le rovine del Covid, la guerra in Ucraina sta cambiando i rapporti tra Stati, con effetti sconquassanti nella Russia che l’ha scatenata e in gran parte del pianeta che ne soffrirà le conseguenze (blocco delle forniture di energia, cibo, concimi, metalli). Ma con effetti tutt’altro che promettenti a Washington, che pretende di dominare il pianeta con quest’ennesima guerra per procura.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.