A oggi il fondatore è tra i responsabili del Conticidio 

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 giugno 2021

Per come ha saputo gestire l’emergenza Covid, primo in Occidente, e ottenere un Recovery Fund finanziato dall’indebitamento comune degli Stati Ue (qualcosa di impensabile prima di lui, e probabilmente irripetibile) Giuseppe Conte era, e resta, l’uomo più adatto a rifondare e guidare il Movimento 5 Stelle. Il più adatto a preservare la scabrosa alleanza con il Pd, in un’epoca che sotto la guida di Draghi sta appiattendo/azzerando tutti i partiti e quasi tutta la stampa. Sono in tanti, nel Pd, a esultare più o meno segretamente di fronte all’autodafé dei Cinque Stelle, prima forza politica in Parlamento e componente cruciale di un fronte alternativo alle destre.
L’idiozia dei demolitori – Grillo in primis, oggi – è senza fine e lascia trasecolati. S’illude chi pensa ci sia del metodo, nell’offensiva autolesionista sferrata da chi ieri definiva Draghi un grillino, e ora vede in Conte un usurpatore. Il Conticidio di Travaglio include da oggi la figura di Grillo, nella lista dei potenziali accoltellatori.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Russia e Cina, i nemici ritrovati

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 giugno 2021

Quando illustrò in Parlamento il suo programma di governo, a febbraio, Mario Draghi non disse nulla su politica estera e difesa, ma si limitò a proclamarsi “convintamente europeista e atlantista”. Era un po’ di tempo che i due aggettivi non s’accoppiavano con tanta disinvoltura, e d’un tratto ecco che l’equivalenza veniva ribadita quasi fosse legge di natura.

Essere europei significa automaticamente essere più attivi nella Nato, e viceversa. Nessun bisogno di spiegare il perché di quest’apodittica certezza. Basta dire che Trump è finito e che Biden ha iniziato la felice retromarcia.

In realtà Biden non ha cambiato marcia nei rapporti con Putin, ma incontrando quest’ultimo a Ginevra ha solo evitato il surriscaldamento delle tensioni. Nei giorni precedenti in Cornovaglia i governi Nato avevano in effetti chiarito quel che nel discorso di Draghi restava velato: la guerra fredda ricomincia, e la Nato ha di nuovo i nemici che le servono per vivere e operare. Ne ha addirittura due: Cina e Russia. Ambedue sono dichiarati “minacce per la sicurezza dell’Occidente”. Ambedue svolgono il ruolo, prezioso per le industrie militari-industriali, di “nemici esistenziali” o “sistemici”.

L’euforia è di rigore, non solo nei governi ma anche – in Italia – nei giornali che applaudono l’armonia atlantica ritrovata (eufemismo per egemonia statunitense). Rilanciare la Nato vuol dire riaccendere gli animi, giustificare guerre che hanno ucciso civili, non imparare alcunché dai fallimenti in Afghanistan, Iraq, Somalia, Siria, Libia, e per quanto riguarda Parigi nel Sahel e nel Sahara. All’inizio di giugno l’operazione francese Barkhane, cui si erano associati nel 2018 alcuni Paesi Ue, è stata sospesa.

Restano da indagare gli impegni di riarmo assunti nell’epoca Conte, ma di certo il successore ha impresso una svolta nella politica estera italiana. Si moltiplicano le critiche di Palazzo Chigi alla strategia cinese dei governi Conte: nel mirino l’adesione alla Via della Seta, invisa negli ambienti Nato. I tecnici più fedeli a Draghi incitano a un indurimento dei rapporti con Mosca, anche quando non hanno alcuna esperienza diplomatica (è il caso del banchiere Franco Bernabè, intervistato a Otto e Mezzo). Completano l’opera la promessa di ulteriori aiuti alle guardie costiere libiche, e l’appoggio incondizionato a quella che Biden chiama la “sacra obbligazione” dell’Alleanza atlantica (alleanza che “consente agli Stati Uniti di avere un posto a tavola anche quando si tratta di affari europei”, scrive opportunamente Sergio Romano sul «Corriere»).

Per la verità è da tempo che i governi dell’Unione europea partecipano alla resurrezione dell’Alleanza, del tutto anomala se si considera che la Nato nacque per contenere l’Urss e che quest’ultima s’è dissolta nel 1991 assieme al Patto di Varsavia. Nei Trattati è scritto che l’Ue “promuove la pace” (articolo 3), ma il rappresentante della sua politica estera Josep Borrell ha detto nel 2020 che “per silenziare i fucili abbiamo sfortunatamente bisogno di fucili […] La sicurezza dei nostri amici africani è la nostra sicurezza”.

Biden ha riscoperto la centralità strategico-militare dell’Europa e quel che le chiede è chiaro: resistenza all’espansione commerciale o militare di Cina e Russia; allineamento incondizionato a future iniziative statunitensi di regime change a Est dell’Unione (Ucraina, Bielorussia, Georgia); partecipazione a missioni antiterrorismo dopo il ritiro dall’Afghanistan. Draghi sembra deciso ad assecondare la nuova guerra fredda, dopo aver appeso nel vuoto i suoi due “pilastri”: europeismo e atlantismo.

Lo strumento cui l’Ue ricorrerà per contribuire a queste strategie di allineamento si chiama European Peace Facility (EPF), adottato il 22 marzo dal Consiglio europeo. L’investimento iniziale ammonta a 5 miliardi di euro. Si tratta, scrive Michael Peel sul «Financial Times», dell’“espansione più significativa sin qui operata negli sforzi europei di proiettare hard power e influenzare i conflitti alle frontiere dell’Est e in Africa”.

I giornali e i notiziari tv non possiedono neanche un grammo di memoria e di prudenza politica, dunque esultano davanti alla doppia resurrezione: quella della Nato, data per “cerebralmente morta” da Macron nel 2019, e quella dei nemici “sistemici” di cui la Nato ha bisogno per continuare a esistere, cioè Russia e Cina. Per adattarsi a quest’ennesima restaurazione il Movimento 5 Stelle che in passato aveva criticato la Nato si ravvede, e quasi quotidianamente si proclama europeista e atlantista.

Eppure non era sempre questo il clima, quando finì la prima guerra fredda. Nel 1998, 10 senatori Democratici e 9 Repubblicani americani si opposero ai primi allargamenti della Nato a est dell’Europa. Washington e Berlino avevano promesso a Gorbaciov di non estendere l’Alleanza, in cambio della pacifica riunificazione tedesca, ma i patti furono presto violati. Fu la prima goccia di veleno iniettata nei nostri rapporti con il Cremlino. Un veleno che oggi non serve ad altro che a rafforzare l’alleanza Mosca-Pechino.

Russia e Cina sono osteggiate per diversi motivi: la Cina è la seconda potenza economico-finanziaria del pianeta, la Russia ha perfezionato i propri armamenti dopo l’espulsione dal G-8 e l’interventismo occidentale ai propri confini, in Georgia e Ucraina. A ciò si aggiunga la selettiva offensiva Nato sui diritti umani (la persecuzione dei musulmani Uiguri in Cina è un crimine, ma non lo è quella dei musulmani nel Kashmir indiano). Russia e Cina sono inoltre accusate di interferire nei processi democratici – elezioni Usa, Brexit – come se la vittoria di Trump e dei Brexiteers fosse colpa di hacker russi e cinesi e non frutto inevitabile del declino delle democrazie e di precisi fallimenti dell’Ue.

I nemici esistenziali servono a molte cose, anche se promettono più insicurezza per tutti. Tra il 1989 e il 1990, Georgij Arbatov, consigliere diplomatico di molti governi sovietici, ci minacciò: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Aveva visto giusto. Il complesso militare-industriale in Europa e Stati Uniti boccheggiò, disperò. Alcuni governi – tra cui il Conte-2 – trovarono il coraggio di smettere l’invio di armi all’Arabia Saudita, per frenare la guerra in Yemen. Ma la parentesi di “morte cerebrale” non era tollerabile per la Nato e per Washington. I popoli ovviamente non vengono consultati, visto che i cosiddetti populisti sono per ora neutralizzati, almeno in Italia.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Cosa deve fare il leader M5s? Non perdere tempo a scusarsi, anche se si resta al governo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 giugno 2021

Il movimento guidato da Giuseppe Conte non ha bisogno di passare il tempo scusandosi per quel che ha pensato o detto in passato, specie sulla giustizia, la povertà, la costruzione europea da riformare. Non porta fortuna essere riammessi nei salotti che comandano, come dimostrato dalla storia del Pd. Vale invece la pena riprendere le critiche radicali fatte all’Unione europea quando Conte negoziò il Recovery Plan e ottenne dalla Merkel, finalmente, l’accettazione di un debito comune e solidale. Il rischio, oggi, è che la parentesi virtuosa si chiuda, che Berlino torni all’ortodossia ordoliberale, all’austerità, al distruttivo scontro fra Stati creditori e debitori. Il rischio è quello di un’Europa neo-atlantica, che dilatando spese di difesa e commercio di armi si unisca per strategie di regime change. Draghi è un garante di questa Restaurazione post-Covid, auspicata dall’ex ministro del Tesoro Schäuble. Tutto sta a non sprecare il tempo in autocritiche, anche se si resta nel governo.

Draghi, operazione “reconquista”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 2 giugno 2021

Come documentato nell’ultimo libro di Marco Travaglio – I Segreti del Conticidio – l’avvento di Draghi era programmato o comunque desiderato da molto tempo, con un’accelerazione massima subito dopo il successo europeo ottenuto dal suo predecessore (il Recovery Plan).

Conosciamo gli autori del cambio di guardia: la maggioranza di Confindustria, i padroni dei principali giornali, i potentati economici con profilo di multinazionali, Matteo Renzi esecutore finale. Intuiamo anche il motivo del cambio: la gestione/distribuzione del suddetto Recovery Plan, detto anche Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In questi giorni stiamo conoscendo i primi frutti dell’operazione.

Operazione che potremmo chiamare Reconquista, in ricordo della lunghissima guerra di religione che portò all’estromissione della civiltà musulmana in Spagna. La Reconquista, oggi, punta a scalzare uno dopo l’altro gli ostacoli che nell’ultimo decennio hanno insidiato i dogmi neoliberisti: ostacoli sommariamente bollati come populisti. Decisiva fu l’offensiva contro la sinistra greca che andò al potere nel 2015. Altrettanto decisivo il Brexit, che ha provvidenzialmente neutralizzato non solo le uscite dall’Unione ma anche le critiche radicali delle sue regole (torna senza più complessi il motto “Ce lo chiede l’Europa”). Infine il Covid esploso in Europa nel 2020, ultimo ostacolo frapposto alla Reconquista. Non mancarono le promesse di una normalità diversa, non più fondata sulla disuguaglianza sociale e la rovina ambientale. Lo prometteva il governo Conte-2 ed è stato estromesso, con la scusa che “tutta” la classe politica aveva fallito. Le critiche all’Unione europea e ai suoi parametri di austerità ridiventano sospette.

Le recenti scelte di Draghi e alcuni suoi gesti verbali sono tappe evidenti della Reconquista. In economia: la liberalizzazione dei subappalti, solo in parte frenata dai sindacati, con la scusa che è l’Europa a chiederci di semplificare e velocizzare i progetti del Recovery Plan; la fine del blocco dei licenziamenti introdotto durante il Covid, ancora una volta perché lo chiede Bruxelles e prima di aver creato gli ammortizzatori sociali che in altri Paesi Ue attutiscono l’urto dei licenziamenti; l’accentramento delle decisioni sul Pnrr nella figura del presidente del Consiglio e in centinaia di tecnici che erano intollerabili quando li propose Conte; la degradazione dei ministri tecnici a braccidestri di Palazzo Chigi. In politica estera: professione di fedeltà atlantica sin dal discorso inaugurale in Parlamento. Nella giustizia: le nuove regole sulla prescrizione forse non si toccano ma nella proposta Cartabia è il Parlamento e non il potere giudiziario a decidere le priorità delle azioni penali.

E ancora, sulla migrazione: fallito tentativo di ottenere più solidarietà in Europa, seguito da dichiarazioni sibilline: “Continueremo ad affrontare il problema da soli”. Anche il governo Letta operò in solitudine, dopo il naufragio del 2013 a Lampedusa (368 morti, 20 dispersi), dando vita all’operazione Mare Nostrum, poi abbandonata nel 2014. Nulla di simile oggi.

Tra i gesti verbali potremmo citare la risposta a Enrico Letta sulla proposta di tassare le successioni oltre i 5 milioni di euro per lasciare un’eredità ai giovani. “Non ne abbiamo mai parlato. Non è il momento di prendere i soldi dei cittadini ma di darli”. Non si chiamava Next Generation? Vorrebbe forse essere sprezzatura e somiglia piuttosto a disprezzo.

A ciò si aggiunga, sempre nel Recovery, l’aumento dei fondi per la telemedicina a scapito degli investimenti nella sanità territoriale (gli anziani faticano a telecurarsi, ma non importa). Diminuiscono inoltre rispetto alle bozze di Conte gli investimenti – già considerati esigui dagli scienziati – nella ricerca, soprattutto quella fondamentale (nonostante la sua centralità nello studio di future zoonosi e pandemie).

Draghi segue molte scelte di Conte, senza mai riconoscerne i meriti, ma le discontinuità sono oggi evidenti. Discontinuità mai spiegate nelle nomine o sostituzioni, oltre che nell’economia. Ma più in generale: ripristino di quella che negli anni Ottanta e Novanta si chiamava “disintermediazione”. Mutuata dal linguaggio finanziario, la disintermediazione marginalizza ogni sorta di intermediario/mediatore (sindacati, partiti, giornalisti, parlamenti, magistrati) sistematicamente incriminati di allentare, ostacolare, normare le forze di mercato. L’ultimo nemico da maledire: la burocrazia.

Oltre all’offensiva indistinta contro burocrati e partiti, assistiamo infine a una progressiva, sotterranea squalifica dei maggiori scienziati che ci sono stati accanto nella pandemia, da Andrea Crisanti a Massimo Galli. Il “rischio ragionato” al momento si dimostra vincente, per fortuna. Ma le riaperture non sono irreversibili come afferma Sileri: in Gran Bretagna già si parla di terza ondata e di nuove restrizioni. Il rischio è preferito al principio di precauzione: anche questo fa parte della Reconquista.

La disintermediazione è una macchina di accentramento dei poteri nelle mani del premier e di quelle che Zagrebelsky chiama cerchie ristrette del potere. Contestualmente sono sempre più invise le elezioni: evitarle è cosa buona e giusta. Quando danno risultati sconvenienti subito ci si rincuora dicendo che in ogni caso opera il “pilota automatico”. Subito dopo le elezioni del febbraio 2013 e il primo grande successo del M5S, Draghi presidente dalla Banca centrale europea disse in conferenza stampa: “I mercati sono stati meno impressionati (dall’esito del voto) dei politici e di voi giornalisti. Penso che capiscano che viviamo in democrazie (…) Dovete considerare che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico”. Già allora i giornalisti andarono in estasi, specie quando venivano scherniti per la loro “impressionabilità” (anche qui: fu sprezzatura o disprezzo?).

Con Draghi, il mercato si libera di parecchi controlli – declassati a burocratici. Il desiderio è di chiudere la parentesi della pandemia e restaurare quel che c’era prima. Offerta e domanda devono potersi di nuovo incontrare direttamente, senza intermediari. Fino alla prossima crisi, finanziaria o sanitaria o democratica che sia. O al prossimo crollo di un ponte o una funivia. Si chiama rischio, non disastro. Vince l’osannata resilienza/sopportazione, che sta soppiantando – simile alle varianti virali – le più promettenti nozioni di resistenza e normalità alternativa.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.