L’Unione Europea e il deficit di democrazia

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Mercoledì 13 gennaio nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles si è svolta la conferenza “The Shield of Europe: the EU Charter of Fundamental Rights”, organizzata da Barbara Spinelli con il GUE/NGL.

Intervento di Barbara Spinelli:

L’Unione Europea e il deficit di democrazia

Questo seminario è stato pensato in occasione di quella che viene comunemente soprannominata crisi del debito greco, e che sin dall’inizio sarebbe stato meglio chiamare, in osservanza del principio di realtà: crisi e addirittura tracollo dell’intero progetto di unificazione europea. Le imprecisioni linguistiche non sono mai casuali. Sono deliberatamente usate per nascondere quel che sta accadendo, per scongiurare una rimessa in questione troppo difficile o costosa per le élite dominanti. Sono gli ingredienti di una strategia di evitamento. Circoscrivere la crisi concentrandola sul debito greco neutralizza le responsabilità e gli errori dell’Unione, serve a spoliticizzare quest’ultima. Ingrandisce i poteri di una governance sempre più incontrollata e sopprime in parallelo quelli dei cittadini, che non sanno più a quale governo rivolgersi né dove sia la sovranità (governance non è governo: è potere senza imputabilità).

Il progetto europeo era nato per restaurare le democrazie costituzionali dopo due conflitti mondiali, per dare a esse basi più durevoli, per unire le forze col proposito di curare i due mali che avevano distrutto il continente nella prima metà del Novecento: l’ingiustizia sociale e l’ostilità reciproca fra Stati del continente. Oggi dobbiamo constatare che ambedue i fini non sono raggiunti: l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale va crescendo da circa 40 anni, l’ostilità fra Stati si estende, e dalla crisi scoppiata nel 2007-2008 usciamo con un divario netto fra esigenze delle democrazie nazionali e precetti delle istituzioni europee, nonché degli innumerevoli organismi ad hoc creati fuori dai Trattati.

Quel che è accaduto dopo la vicenda greca conferma al tempo stesso la crisi del progetto e la cecità delle élite che guidano l’Europa. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere che si alzano ovunque e caoticamente dentro lo spazio dell’Unione, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali: ecco la risposta che viene data, non si sa più in nome di quale mandato, ai fenomeni migratori, al terrorismo, alle guerre che imperversano ai confini sud ed est dell’Europa. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e sono anni che l’Unione resta impigliata in una sua presunzione fatale: che le ricette adottate durante la crisi siano l’unica e ideale soluzione, che le istituzioni comunitarie non necessitino cambiamenti radicali. O meglio: che le istituzioni vadano cambiate surrettiziamente, dall’alto, dando vita appunto a un grande potere senza imputabilità. Che l’unica vera sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività, anche se sono molti ormai gli economisti – da Paul Krugman a Martin Wolf a Robert Reich – a negare la natura indispensabile della competitività nei sistemi di tassazione o nei mercati del lavoro, e la coincidenza tra le regole che valgono per un’azienda e le regole che valgono per uno Stato. Per la verità le istituzioni non restano immobili: cambiano, e non marginalmente visto che si svuotano di democrazia.

Volutamente uso il termine coniato da Friedrich Hayek per definire il progetto sovietico e socialista: la presunzione fatale – fatal conceit – è quella che caratterizza i difensori dei dogmi e delle svolte autoritarie, e non stupisce che aumentino nell’Unione i politici e governanti attratti da modelli più efficaci e rapidi di quelli sin qui difesi dall’Unione. Modelli come quello del Pc cinese, o dello statista di Singapore Lee Kuan Yew. L’allargamento a Est dell’Unione ha rafforzato il fascino nemmeno molto segreto esercitato dall’autoritarismo. Ricordo che una parte consistente di Solidarnosc, sul finire del regime comunista, tesseva l’elogio delle ardite e competitive strategie economiche di Pinochet. L’allargamento è stato fatto senza che questi equivoci siano stati fugati, sempre che di equivoci si sia trattato. La svolta antidemocratica è più diffusa di quanto ammettano i detrattori di Budapest e Varsavia.

Come fautori del vecchio progetto europeo, possiamo reagire al presente sfacelo in due modi: alla maniera di Cicerone, come lo racconta Shakespeare nel Giulio Cesare (“Buona notte Casca, questo cielo turbato sconsiglia di andare in giro” – “this disturbed sky 
is not to walk in”). Ma sarebbe rispondere alla strategia dell’evitamento con un comportamento di eguale natura: Cicerone è saggio ma alla lunga non avrà influenza perché semplicemente “si tira fuori”. Oppure si può entrare nella tempesta, denunciare a chiare lettere chi prima ha voluto il predominio disordinato dei mercati poi ne ha profittato per diluire il patrimonio democratico delle nazioni europee, e cercare di influenzare gli eventi chiedendo che l’Unione si dia una costituzione democratica, vincolante non solo per i cittadini e gli Stati ma anche per le istituzioni. E non solo: che rispetti le costituzioni democratiche delle nazioni, spesso più avanzate non solo del Trattato di Lisbona ma anche della Carta europea dei diritti. È l’alternativa di Albert Hirschman che vorrei qui riproporvi: o la strategia dell’exit o quella del voice, della presa di parola critica all’interno della costruzione europea. [1]

Le due strategie non sono opposte, nelle teorie di Hirschman, anche se possono naturalmente diventarlo. La minaccia dell’exit può essere utile e feconda, per risvegliare il desiderio, la forza e l’udibilità della “presa di parola” attiva. Dunque è utile denunciare quel che si è rotto, compreso quel che si è rotto irrimediabilmente, e a questo serve anche il nostro incontro: a connettere la tensione verso l’uscita con il voice, ovvero la presa di parola, la contestazione, e la proposta.

Chi chiede l’exit infatti ha le sue ragioni, e anche se corre dietro una non recuperabile sovranità nazionale assoluta è da molti punti di vista più vicino alla realtà di chi vive nella presunzione fatale di un’Unione funzionante, da correggere ai margini o surrettiziamente. Sono le oligarchie che dominano oggi l’Europa e i singoli governi ad aver perso il rapporto sia con le realtà vissute dai cittadini (basti pensare alla disorganizzazione degli Stati di fronte ad atti di terrorismo o a violenze come quelle accadute in varie città tedesche a Capodanno) sia con il progetto europeo in quanto tale. Sono le oligarchie a ignorare che non si può continuativamente violare i diritti delle persone e le Carte approvate dall’Unione, che non si può sprezzare sistematicamente i verdetti elettorali e le volontà dei popoli senza poi, un giorno, pagare tutto intero un prezzo molto alto e distruttivo.

Quel che dobbiamo sapere, è che i custodi dei dogmi dell’austerità neoliberale e della sorveglianza di massa non sono più al servizio della democrazia costituzionale, fin dagli anni ’70 sono tentati da Costituzioni che accentrano tutti i poteri negli esecutivi, e per quanto riguarda l’establishment di Bruxelles sono già nella logica dei regimi autoritari. Basti qui ricordare la risposta che Cecilia Malmström, commissario responsabile del commercio, ha dato alle domande critiche che John Hilary, direttore esecutivo dell’associazione inglese War on Want, ha mosso al TTIP, il 15 ottobre scorso su “The Independent”. A cosa sono servite le petizioni contro il Trattato transatlantico in vari Paesi europei (circa 4 milioni di firme)? A cosa servono le manifestazioni, spesso spettacolari? La replica della Malmström è stata: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”.

La frase è significativa perché se la Commissione non ha ricevuto un mandato dal popolo, da chi lo riceve? Chi controlla il sempre più potente controllore, se non un insieme di lobby e di grandi banche e multinazionali? E da chi ricevono il mandato la Banca centrale europea, la trojka, l’eurogruppo che è una struttura completamente fuori da ogni controllo parlamentare e che nemmeno tiene i verbali delle proprie riunioni, e Frontex che sempre più presidierà le frontiere europee attivandosi anche nei paesi terzi? Cosa sono queste istituzioni, custodi di uno spazio di non diritto nell’Unione, dove non valgono né le regole della Carta, né gli articoli sociali del Trattato, né le costituzioni nazionali? L’ottimismo panglossiano ha sempre fatto dire, ai responsabili dell’Unione: “L’Unione politica che farà funzionare l’euro e legittimerà i vari organi tecnici dell’attuale governance verrà, perché necessaria”. Non è venuta e non viene. Il presidente della Bundesbank già dice, senza esitare, che non ce n’è più bisogno.

Per questo all’inizio ho menzionato il caso greco, nel mio tentativo di diagnosi. Perché in quell’occasione si è sperimentata e poi consolidata una sorta di diritto emergenziale permanente, uno stato di eccezione che sfigura ormai in maniera aperta, senza più pudore, il progetto europeo, e non i valori astratti ma i diritti iscritti nella Carta e gli obiettivi fissati negli articoli 2 e 3 del Trattato (pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà, parità tra donne e uomini, e piena occupazione, progresso sociale, sviluppo sostenibile). Tra questi obiettivi e i bisogni dello stato d’emergenza, tra elezioni nazionali e politiche decise a Bruxelles si è creato un divario che tende a divenire incompatibilità fondamentale. Si è creata incompatibilità tra le misure imposte alla Grecia nel memorandum anti-crisi e precisi articoli del Trattato e della Carta, che cessano di essere vincolanti senza che i cittadini ne siano informati. Penso per fare un esempio al titolo IV della Carta – quello sulla solidarietà – e in quest’ambito agli articoli 28, 30, 34, 35, che prevedono il diritto a concludere contratti collettivi, alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 18 in Italia), alla sicurezza sociale e all’assistenza abitativa, a un livello elevato di protezione della salute. Penso, per quanto riguarda i rifugiati, al diritto alla vita e al non respingimento collettivo.

Vorrei chiedervi in queste quattro sessioni come siamo arrivati a questo punto, e soprattutto come può essere riempito il divario tra proclami e politiche concrete. E vorrei richiamare anche la vostra attenzione sull’aspetto internazionale del problema. Il diritto emergenziale si applica in tempi di guerra, e i leader europei dopo gli ultimi attacchi terroristi non esitano a proclamare proprio questo: lo stato di guerra. Alle frontiere c’è un caos che le nostre politiche estere hanno spesso acceso, e che non sanno come spegnere. L’Europa ha subappaltato agli Stati Uniti la gestione della pace e della guerra, ma gli Stati Uniti hanno mostrato di essere non una potenza creatrice di ordine internazionale, ma un impotente artefice di caos globale. In questo senso, l’Europa deve darsi subito una politica razionale e seria verso la Russia: tra le tante sue mancanze, questa è oggi la più vistosa.

L’Europa è nata come un progetto politico di pace tra le nazioni, e anche questa missione è scomparsa, sempre che sia mai nata. Se non fosse così, non assisterebbe passivamente alla politica di distruzione dei curdi operata dal regime turco, per non parlare dell’abbattimento dell’aereo russo avvenuto nel novembre scorso. Abbiamo bisogno della Turchia per tenere a bada e diminuire l’afflusso di rifugiati, e in cambio – come fossimo ricattati – siamo disposti a chiudere tutti e due gli occhi verso le politiche destabilizzanti di Erdogan in Siria e in Iraq. Se Erdogan rimpatria i rifugiati nelle zone di guerra riceve addirittura ricompense, sotto forma di un aiuto di “assistenza” pari a 3 miliardi di euro.

Anche su questi punti chiedo vostre meditazioni e vostre idee. Penso che il nostro incontro dovrebbe essere il primo di una serie. Regolarmente dovremmo incontrarci per vedere a che punto siamo. E se sia possibile evitare, almeno da parte nostra, quella strategia difensiva dell’evitamento che permette all’Europa di non entrare in contatto con ciò che ha suscitato al suo interno prima l’ansia, poi la paura, poi la propensione ad autodistruggersi.

[1]     Otto Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty, 1970.


 

 Si veda anche:

Le promesse tradite dell’Europa che uccide anche con le parole (file .pdf), sintesi dell’intervento pubblicata in forma di articolo su «Il Fatto Quotidiano» del 13 gennaio 2016