E-democracy: non aver paura delle alternative

Bruxelles, 12 ottobre 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “e-democrazia nell’Unione europea: potenziale e sfide” (Relatore Ramón Jáuregui Atondo – S&D Spagna) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).

Punto in agenda: Esame del progetto di relazione

Ringrazio il collega Atondo per il documento presentato. A differenza del collega Preda (PPE – Romania) che mi ha preceduto, trovo particolarmente importante, giusta e aderente alla realtà la premessa contenuta nel Considerando A della Relazione, ossia il richiamo alla crisi grave della democrazia nell’Unione e alla rappresentanza sempre più inadeguata dei cittadini.

Apprezzo molto i paragrafi relativi al digital divide, laddove si sottolinea non solo la necessità della formazione e dell’educazione ma anche la questione geografica. In tal caso, si tratta di potenziare le infrastrutture per arrivare in territori non coperti dal digitale.

È anche degno di nota il paragrafo 16 della Relazione, in cui si fa riferimento alla protezione dei dati personali e, in particolare, al fatto che le esigenze di sicurezza non possono diventare un deterrente contro l’inclusione di individui e gruppi nel processo democratico.

Vi sono altre parti su cui invece nutro alcuni dubbi e che diverranno probabilmente oggetto di miei emendamenti.

In primo luogo ritengo che a seguito di una premessa così pertinente, le conseguenze che se ne traggono siano, in alcuni casi, di tenore abbastanza generico. Vorrei menzionare innanzitutto il paragrafo 3, letto in combinazione con il precedente paragrafo 1, laddove si parla di obiettivi dell’e-democracy e si assicura che lo scopo non è di cercare alternative all’ordinamento attuale della democrazia. Personalmente non avrei così paura di parlare di alternative ai nostri presenti ordinamenti. L’alternativa non è la rivoluzione, non è l’assalto della Bastiglia. E’ giusto un’alternativa. In democrazia è sempre positivo quando, in presenza di fallimenti o di difetti evidenti, si tentano strade alternative, anche se complementari al sistema rappresentativo. È il motivo per cui non vedrei la e-democracy soltanto come “support and enhancement of traditional democracy” se, è vero, come dice lo stesso collega Atondo nelle premesse, che la democrazia tradizionale è oggi in stato di crisi profonda.

Suggerirei inoltre di modificare lo stesso paragrafo 1 e, in particolare, la terminologia citizens’ enablement. Parlerei piuttosto di citizens’ empowerment. Si tratta di un concetto politicamente più incisivo, su cui l’economista Amartya Sen ha lungamente lavorato: sarebbe interessante vederlo riflesso in questa relazione.

Tra gli altri punti che vorrei sollevare vi è sicuramente la parte relativa all’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). Sono molto più critica del collega Atondo rispetto alle risposte fornite dalla Commissione (“è troppo presto per introdurre modifiche all’ICE”, così ha risposto alla recente risoluzione Schöpflin) e soprattutto verso l’atteggiamento massimamente restrittivo mostrato sull’ammissibilità delle Iniziative.

Sempre in tema di digital divide, mi piacerebbe che fosse integrato un richiamo più esplicito ai diritti della persona anche in campo digitale e, nello specifico: il principio di non-discriminazione, la libertà di espressione e informazione, il diritto all’educazione. Al contempo farei anche un richiamo esplicito al diritto allo sviluppo e ai diritti sociali, che sono fondamentali al fine di superare effettivamente il digital divide.

Vorrei fare infine un ultimo accenno alla possibilità di redigere una Carta europea dei diritti in internet modellata sull’analogo strumento italiano. Quest’ultimo era espressamente richiamato nel documento di lavoro preparatorio che ha preceduto la Relazione, ma di esso non vi è più traccia. Capisco che la Relazione ha uno spazio limitato, ma il riferimento alla Carta approvata dal Parlamento italiano nel luglio 2015 potrà essere reintrodotto negli emendamenti.

Ricordo solo che la Carta italiana integra una serie di diritti già citati dai colleghi che mi hanno preceduto, tra cui il diritto all’oblio e la necessità di superare ogni forma di divario digitale, sia esso legato alle diseguaglianze sociali, geografiche o anche di età. In un continente che invecchia, la formazione digitale è certo importante per le giovani generazioni, ma lo è in misura non minore per gli anziani.

I leader di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 29 giugno 2016

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit, è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione.) Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato – né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2. Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto, tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari.
Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élite fin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioni e dalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

E-democracy contro comando dall’alto nell’Unione

Bruxelles, 15 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “e-democrazia nell’Unione europea: potenziale e sfide” (Relatore Ramón Jáuregui Atondo – S&D Spagna) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO). 

(Il dibattito in Commissione è avvenuto mercoledì mattina, prima dell’uccisione della deputata inglese Helen Jo Cox)

Punto in agenda: Esame del documento di lavoro aggiornato

Ringrazio il collega Atondo per l’eccellente lavoro che ha svolto sulla e-Democracy e sulle opportunità offerte, più generalmente, alla democrazia diretta. Lo ringrazio anche per aver incluso molti punti che avevamo presentato nella riunione dell’aprile scorso. Sinceramente mi dispiace che sia stato ridimensionato il preambolo, laddove richiamava con maggiore precisione le cause della disaffezione dei popoli e che personalmente non consideravo ideologico ma, come già dicevo nella nostra ultima discussione, una fotografia molto veritiera della realtà. La mia opinione è diversa, in proposito, da quella dell’onorevole Preda (PPE).

Proprio su questo punto inviterei il Relatore a essere ancora più esplicito e più allarmato. Siamo alla vigilia del referendum del Regno Unito sull’Unione europea e la maggior parte dei sondaggi ci segnala, da giorni, la possibile vittoria del Brexit. Penso che dobbiamo incorporare nella nostra relazione questa estrema espressione di una disaffezione cittadina che non tocca solo la Gran Bretagna e che tenderà a estendersi, con o senza Brexit, a numerosi Paesi membri. E’ la ragione per cui chiederei al relatore di salvare i ragionamenti del preambolo e di farli emergere lungo tutta risoluzione.

Comincio quindi dalla premessa. Nel documento di lavoro si parla della disillusione e indifferenza dei cittadini, dell’impressione diffusa che essi hanno “di non essere rappresentati dalla politica”, della loro tendenza al distacco e alla non partecipazione. Nella Relazione menzionerei a chiare lettere che siamo di fronte a un rigetto che colpisce il progetto europeo nella sua totalità, più ancora che le istituzioni politiche e la politica stessa in quanto tali. Un rigetto che non chiamerei indifferenza, ma collera e rifiuto. Dargli il nome di populismo equivale, secondo me, a bendarsi gli occhi.

Il rigetto ha una storia al tempo stesso sociale, economica, politica, avendo toccato l’acme ieri nei negoziati tra istituzioni europee e Grecia, oggi nella campagna referendaria sul Brexit. Le due esperienze sono più vicine di quanto si tende a pensare. Nel voto favorevole al Brexit c’è una forte anche se minoritaria corrente di pensiero democratico, cui non possiamo essere indifferenti. La questione della sovranità è posta con forza – non solo sovranità nazionale ma anche sovranità popolare – e il caso Grecia è citato da molti leader inglesi favorevoli all’uscita dall’Unione. Nella democrazia europea si è creato un divario tra “demos” e “kratos”, tra popolo e quella che viene chiamata governance, che è poi comando esercitato dall’alto, praticamente senza controlli. Questo mi sembra il punto dolente da far emergere nella risoluzione.

Passo ad alcune parti propositive, sempre avendo in mente questa premessa cruciale. All’insoddisfazione e alla collera dei cittadini, le istituzioni europee reagiscono come se non fossero interpellate. Per questo insisterei sulla formidabile inadeguatezza mostrata dalla Commissione in tanti suoi comportamenti e, in particolare, nella risposta data al Parlamento in merito alla Risoluzione sull’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). Cito un solo passaggio della risposta in questione: “La Commissione considera che a soli tre anni dalla sua entrata in vigore, sia ancora troppo presto per promuovere una revisione legislativa del regolamento”. Una frase che rivela la sordità della politica e delle istituzioni di fronte alle istanze avanzate dai cittadini attraverso strumenti di democrazia diretta. Quel che la Commissione dice nella sostanza è: “È ancora troppo presto per ascoltare la voce dei cittadini”, dunque per democratizzare l’Unione.

Ancora, entrando nel merito delle proposte e riferendomi al capitolo su “La possibile rotta da seguire”, mi limito per il momento – e in attesa di presentare miei emendamenti – a sottolineare un punto. Quando si dice che la tecnologia digitale potrebbe aiutare a “migliorare la governance nel processo decisionale”, consiglierei al Relatore di non fermarsi qui. Considerata la crisi e il deficit democratico dell’Unione, l’obiettivo non deve essere l’accresciuta efficacia della governance ma, in primo luogo, una partecipazione cittadina che non sia solo un enunciato performativo ma diventi realtà. Altro obiettivo da perseguire: una vera trasparenza delle decisioni comunitarie, che dia ai cittadini il senso di non essere aggirati e lasciati all’oscuro dalle istituzioni europee. E’ il motivo tra l’altro per cui, fin dal 20 aprile, ho insistito sul fatto che la e-Democracy deve essere un processo, non un’esperienza che si riduce al punto terminale rappresentato dal voto.

In conclusione, è la costruzione europea che deve a mio parere trasformarsi, e questa Relazione è una buona occasione per dirlo. Oggi, questa costruzione europea è percepita come un esercizio di potere top-down. Dovrà ripartire dalla sovranità cittadina e dai popoli, e inaugurare nuove pratiche bottom-up. Altrimenti il dramma vissuto ieri sul Grexit e oggi sul Brexit saranno l’inizio della fine del progetto europeo.