Ricominciare dall’economia sociale e solidale

Barbara Spinelli ha tenuto un discorso di inaugurazione del Forum europeo dell’Economia Sociale e Solidale organizzato a Bruxelles il 28 gennaio 2015 dal gruppo GUE-NGL. A dare il benvenuto ai partecipanti erano presenti i deputati Miguel Urbán Crespo (Podemos), Kostadinka Kuneva (SYRIZA) e Luke “Ming” Flanagan (Gue/NGL Indipendente), il vicepresidente di Social Economy Europe Alain Coheur, Josette Combes di RIPESS e Agnès Mathis di Cooperatives Europe. Il Forum europeo dell’Economia Sociale e Solidale è stato organizzato da nove delegazioni del GUE/NGL: Die Linke (Helmut Scholz), SYRIZA (Stelios Kouloglou e Kostadinka Kuneva), Bloco de Esquerda (Marisa Matias), Front de Gauche (Marie-Christine Vergiat), l’Altra Europa con Tsipras (Eleonora Forenza), Luke “Ming” Flanagan (Gue/NGL Indipendente), Podemos (Miguel Urban Crespo), Barbara Spinelli (Gue/NGL Indipendente), Eh Bildu (Josu Juaristi).

Intervento di Barbara Spinelli

Sessione plenaria di apertura

Cos’è l’economia Sociale e Solidale (ESS)? È al tempo stesso un rimedio alla crisi in cui siamo immersi da quasi dieci anni e un rivelatore di “grandi trasformazioni” – penso alle grandi trasformazioni di cui parlava Karl Polanyi. Continuiamo a parlare infatti di crisi, ma dobbiamo affrontarla sapendo, grazie a Polanyi, che di trasformazione si tratta.

Fu così nella rivoluzione industriale, quando per la prima volta apparve il termine “economia sociale”, intorno al 1830, e già prima, nella seconda metà del Settecento, quando nacquero organizzazioni di “aiuto e sostegno mutualistico” che davano voce e spazio ai gruppi sociali più colpiti dalle nuove condizioni lavorative.

Fu così all’inizio del secolo. Esperienze simili erano diffuse in Gran Bretagna, Spagna, Francia, Italia, fin dall’800. La Germania le conobbe dopo la prima guerra mondiale e negli anni della recessione che, non essendo combattuta, sfociarono nella vittoria di Hitler.

Ora ci troviamo in una situazione simile: alla recessione, l’establishment europeo reagisce esaltando la competitività nei sistemi fiscali e nel mercato del lavoro – una competitività che attizza i nazionalismi e fa crescere precise imprese ma non l’insieme della società, come spiegano economisti di prestigio come Martin Wolf, Paul Krugman, Robert Reich. Ancora una volta, manca una vera lotta alla recessione.

La questione sociale e la lotta di classe non sono defunte, come pretende il neo-liberalismo quando dice che la storia è finita. Sono vive più che mai. Ed è bene che sia così, se si vuole sostituire una democrazia inclusiva alla “democrazia di mercato” teorizzata da Clinton nel ’93, dopo la fine della guerra fredda. La lotta di classe d’altronde, anche se oggi assume aspetti diversi dal passato, è intrinseca al capitalismo, non al comunismo.

L’economia sociale e solidale ci restituisce esperienze apparentemente sepolte, che risalgono al ‘700, all’800, al ‘900. Nel suo essere rivelatore di grandi trasformazioni si comporta come un fiume carsico che a tratti si inabissa diminuendo la propria portata: quando nel secondo dopoguerra si affermò un Welfare forte, l’economia sociale vide il proprio peso diminuire. È ripartita con forza non appena – nella seconda metà degli anni ’70 – il Welfare cominciò a essere smantellato. [1]

Nel nostro primo incontro, dissi che l’economia sociale e solidale somiglia al minority report di Spielberg. Una parte della nostra storia resta regolarmente minoranza. Si tratta di farla divenire maggioritaria e governante, come chiedeva Pablo Echenique (Podemos) che tra i primi pensò questo Forum.

L’economia sociale e solidale va oltre il tutto-Stato, oltre il tutto-mercato. Per quanto mi riguarda, la parola che la riassume meglio è empowerment: dare potere a chi non ce l’ha, come suggerisce Amartya Sen nei suoi scritti. Penso che l’ora di reagire sia adesso, perché veniamo da quarant’anni di progressiva demolizione del Welfare e di politiche fallimentari, se guardiamo alle diseguaglianze che hanno creato e di cui sono espressione.

Questa economia si è comportata spesso come un settore di nicchia, che fatica a trovare i propri spazi. Penso che oggi debba presentarsi con aspirazioni maggioritarie, mettere “in rete” le esperienze, inventare nuove forme di produzione e distribuzione solidali.

Per concludere vorrei dire che il nuovo, se è rivelatore di una trasformazione e non una disperata reazione alla crisi, deve includere oggi i rifugiati. Si tratta di predisporre una politica che liberi quelli che saranno milioni di nuovi cittadini europei da forme schiavistiche di sfruttamento – in Italia gestite da mafie e caporalati – e di inserirli sempre più in settori come agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, riassetto del territorio, assistenza delle persone in difficoltà. In altre parole, elementi centrali della trasformazione dovrano essere la rule of law, la legalità, il rispetto dei diritti sociali e civili. Tutelando diritti e legalità, penso che si darà un primo contributo alla democrazia inclusiva che ci si prefigge come obiettivo.

[1] Come documenta il Ciriec International (l’istituto che analizza e classifica il settore) il 6,5 per cento dell’occupazione nei paesi dell’Unione europea (che sale al 40 per cento se si considera il solo settore privato), pari a 14 milioni di lavoratori e al 10 per cento delle imprese, è attribuibile all’economia sociale e solidale, volontari esclusi. Otto nazioni hanno già legiferato in materia (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, Lussemburgo), così come alcune regioni come la Catalogna e, in Italia, in attesa che il Senato sblocchi la legge delega per la riforma del Terzo settore, l’Emilia Romagna, il Trentino, la Puglia e il Lazio.
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