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Germania, cercasi mamma perduta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 25 settembre 2021

Più che una competizione politica, la campagna elettorale tedesca è stata una lunga, stremata cerimonia degli addii.

Addio ai 16 anni di Angela Merkel, eulogia sterminata delle sue ineguagliabili doti, necrologio che da mesi si sovrappone malinconicamente alle analisi su passato, presente e futuro. Non pianto, ma rimpianto che inonda ogni pensiero, paralizzando in anticipo chiunque sia chiamato a succederle alla cancelleria: forse il socialdemocratico Olaf Scholz, forse il democristiano Armin Laschet, in fondo non sembra importare molto. Forse di nuovo alleati, forse invece coalizzati ciascuno con altri partiti: Verdi o Liberali. Con la sinistra – la Linke – le coalizioni restano improbabili: il “nemico rosso” già governa in regioni e città, ma critica troppo la Nato. La logica dell’obituario esige che tutto resti così com’è. Come se ancora ci fosse lei: Mutti come la chiamano i tedeschi – Mamma. Di Mamma ce n’è una sola.

Scialbi tutti e due, Scholz e Laschet, non perché la natura li abbia fatti così, ma perché questa è la legge del necrologio cui si attengono quasi tutti i commentatori, soprattutto fuori dalla Germania. È commisurando le caratteristiche dei candidati al mirabile profilo della Merkel che il commentatore giudica, azzarda ipotesi di coalizioni, di politiche. L’occhio sgranato dei celebranti non vede quel che guarda. Vede solo quello di cui ha fin d’ora nostalgia, l’attimo che vorrebbe fermare perché così bello.

L’attimo di Angela Merkel non è stato eroico. Non è stato nemmeno carismatico, come ricorda lo storico Heinrich August Winkler. Gli attributi che sintetizzano i 16 anni di governo, e che si ripetono con impressionante monotonia, sono: pragmatismo in primis, e uso parsimonioso della parola, senso dell’utile, del management, della modestia.

Questo si cerca oggi di trovare, nei successori e anche ai vertici degli Stati europei: un sosia della Merkel.

Scholz e Laschet vanno bene se la imiteranno, se continueranno a disarmare l’immaginazione, se non saranno lì per risolvere le grandi crisi, ma per arrangiarsi e cavarsela nel breve termine (durchwursteln è l’ottimo verbo tedesco).

Sono anni che Angela Merkel è descritta come egemone in Europa, e oggi più che mai. La modestia pratica elude le ideologie, le visioni di lungo periodo, le scelte trasformatrici che durano nel tempo. Angela era così anche quando viveva nella Repubblica Democratica Tedesca: silenziosa e ligia. Quando i tedeschi dell’Est sfilavano nelle piazze lei non c’era. Fece capolino ben dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Kohl la scelse come pupilla.

Il management delle crisi è la dote merkeliana cui oggi si anela, ovunque. Anche quando si espresse con ferocia, e Berlino impartì le direttive alla trojka che piegarono e umiliarono la Grecia, riducendola quasi alla fame con l’assistenza della Banca centrale europea e della Commissione europea.

A volte la monotonia pragmatica s’interruppe, e Mutti improvvisò condotte inedite. Accadde quando annunciò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima, ma accrescendo poi la dipendenza da carbone e gas. E accadde soprattutto nel 2015, durante quella che viene chiamata crisi migratoria e fu invece crisi europea sulle migrazioni. La Merkel d’un colpo spalancò le porte ai migranti, soprattutto siriani. Furono circa 1 milione a entrare. Ma durò poco, tanto quanto bastava per ringiovanire un Paese sempre più vecchio. Le porte si richiusero, e Berlino fu la prima nell’Unione a imporre un accordo con la Turchia cui si chiese di non far partire i rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro.

Un’altra interruzione dell’utilitarismo pragmatico fu la messa in comune del debito europeo, al culmine della pandemia Covid: una soluzione sempre osteggiata dal dissimulato nazionalismo tedesco. Nato in Germania, l’ordoliberismo esigeva che ogni Paese membro “facesse i compiti in casa” prima di ricevere assistenza dall’Unione ed ecco che d’un tratto Merkel sconfessava gli ordoliberisti, accettava la lettera che Giuseppe Conte aveva scritto assieme ad altri otto leader dell’Unione in favore di una nuova solidarietà europea. Ne nacque il Recovery Plan, particolarmente generoso verso Italia e Spagna.

Ma Mutti non disse mai che la soluzione sarebbe stata strutturale, permanente, e tale da abolire i rigidi parametri fissati a Maastricht e inseriti nei Trattati dell’Unione. Fu un’iniziativa necessaria ma di eccezione, fece capire. E così dicono i successori: da Laschet il democristiano agli aspiranti Tesorieri nei futuri governi di coalizione (tra gli altri: il democristiano Friedrich Merz o il liberale Christian Lindner). Lo stesso Scholz, che forse favorirebbe il superamento di parametri che risalgono agli anni Novanta, non ha mai preconizzato a chiare lettere la loro riscrittura. Lo spettro dell’Unione delle Elargizioni (“Transfer Union”), di cui profitterebbero gli “sperperatori intrappolati nel debito” del Sud Europa, continua a ossessionare le élite tedesche, dalla Banca centrale nazionale all’Unione industriali: una paura cavalcata per anni dalla nuova destra impersonata da Alternativa per la Germania (Afd), nata nel 2013 durante la crisi greca.

Si è anche molto parlato dell’asse fra Macron e Merkel. Ma Berlino in realtà fa da sé, sia nei rapporti con Mosca (di volta in volta freddi e caldi) sia in quelli con la Cina.

La Cancelliera non ha sprecato molte parole neppure quando Emmanuel Macron ha ricevuto da Joe Biden la formidabile sberla che è consistita nell’accordo Usa-Australia-Regno Unito per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare, che ha affossato l’accordo franco-australiano con una mossa imperiale che smentisce ogni ipotesi sul declino Usa dopo il ritiro dall’Afghanistan. Troppo presto è stato scritto che lo schiaffo colpisce l’intera Unione, proprio mentre quest’ultima discute di comune difesa e perfino di autonomia strategica da Washington.

Non ci sarà mai accordo su simile autonomia, fino a quando Parigi non “europeizzerà” la propria atomica e fino a quando gli avamposti orientali dell’Unione (Polonia, Baltici) preferiranno la protezione militare statunitense garantita dalla Nato.

Berlino stessa, di fronte a una scelta radicale, non si farà trascinare in prove autentiche di indipendenza. Adenauer fu messo davanti a questa scelta da De Gaulle, alla fine degli anni Cinquanta, e rispose con un secco No.

Forse verrà il giorno in cui Berlino guiderà la trasformazione dell’Unione. Ma l’Eliseo dovrà cambiare rotta, e per smuoverlo non basterà di certo il pragmatismo tedesco.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 maggio 2020

Nella maggior parte dei paesi europei i governi hanno deciso un’uscita minimalista dal lockdown. La cautela è stata consigliata loro da esperti scientifici (virologi, epidemiologi, ecc.) e da importanti istituti di ricerca. Quando sono seri, e non si contraddicono con eccessiva frequenza, gli esperti hanno una sapienza specifica e uno sguardo lungo che i politici in genere non possiedono (tra gli esperti più prestigiosi internazionalmente: in Italia Massimo Galli; in Germania Christian Drosten, direttore dell’Istituto virologico nell’ospedale Charité a Berlino).

Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.

Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.

Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto R0 – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se R0 scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.

In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.

L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.

Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e R0) scenderanno significativamente.

Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al «Guardian». Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).

Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Risoluzione sulla Carta dei diritti fondamentali UE

Strasburgo, 11 febbraio 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.  

Punto in agenda:

  • Discussione congiunta – Attuazione di disposizioni del trattato

Presenti al dibattito:

  • Frans Timmermans – Primo vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di Relatore, per il Parlamento europeo, della Relazione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE.

Intervento di Apertura – Presentazione del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei spiegare quali sono stati gli obiettivi di fondo che ho perseguito, nel lungo lavoro sulla relazione riguardante l’attuazione della Carta dei diritti fondamentali.

C’è un punto sul quale ho insistito in modo particolare ed è che l’Unione non deve avere un atteggiamento passivo verso i diritti sanciti dalla Carta: non deve limitarsi a scongiurare eventuali violazioni di tali diritti, ma deve adoperarsi attivamente per la loro promozione e il loro sistematico e preliminare accorpamento in tutti i provvedimenti e le decisioni adottati dall’Unione. Non si tratta solo di un obbligo discendente dal diritto internazionale dei diritti umani, ma di un dovere espressamente sancito nella Carta stessa.

La Carta ha certamente rappresentato un punto di svolta nell’integrazione europea, ma la sua adozione non può e non deve essere considerata come traguardo finale: la natura della Carta è evolutiva, influenzata dalle leggi internazionali e dalla giurisprudenza delle Corti europee. È la piena concretizzazione dei diritti in essa sanciti l’obiettivo cui bisogna ambire costantemente.

Non dico questo a caso. Lo dico partendo dalla convinzione che la crisi dell’Unione è troppo vasta, e il divario creatosi fra cittadini e istituzioni europee troppo profondo, perché non si faccia il punto della situazione partendo proprio dai cittadini, dal loro malcontento, dalla loro sensazione di essere ignorati nei loro diritti. In molte politiche europee, i diritti elencati nella Carta non hanno lo spazio che viene formalmente garantito loro dalla legge europea oltre che dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Spesso sono addirittura ignorati, soprattutto quando sono in gioco i diritti sociali e il rapporto fra questi ultimi e le esigenze legate alla competitività nel mercato unico. Sono ignorati anche i diritti di chi, non importa se irregolarmente o regolarmente, entra e risiede nel territorio dell’Unione e dunque è parte del nostro sistema giuridico. Di qui il mio appello a porre in essere sistematiche valutazioni di impatto sui diritti, preliminari ed ex post, ogni volta che vengono adottate politiche in aree cruciali come le politiche di stabilità economica – specie nell’eurozona – le politiche commerciali e gli accordi con Paesi terzi firmati dall’Unione, la politica migratoria. Questioni in parte già presenti nella relazione ma che ripropongo in alcuni emendamenti per la plenaria, tanto sulla cosiddetta governance economica quanto sui rifugiati e migranti, il cui diritto al non-refoulement siamo chiamati a rispettare per legge.

L’obiettivo di questo testo è di chiarire il ruolo della Carta, mettendo in luce le difficoltà che continuano a sorgere nella sua attuazione piena. Lo stress test è uno strumento usato per sondare la tenuta delle banche. Dovremmo cominciare a usare test analoghi anche per la tenuta dei diritti fondamentali. Il mio intento è fornire spunti e proposte che non dovrebbero essere controversi, e che possano consolidare la promessa solenne fatta ai nostri cittadini con l’adozione della Carta quale fondamento normativo dell’Unione e indispensabile complemento dei trattati: la promessa di costruire una comunità fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani.

***

Intervento di chiusura a conclusione del dibattito – Replica del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei concludere insistendo sulla crisi dell’ultimo decennio. Essa ha accentuato poteri di indirizzo e controllo della Commissione che in molti Stati membri non sono sempre ritenuti legittimi e democratici. Si tratta di restituirle questa legittimità, molto fragile senza un più sistematico riferimento alla Carta.

Il Commissario Malmström ha detto una volta che, nel negoziare il TTIP, l’esecutivo europeo non poteva tener conto delle obiezioni provenienti dalla società civile. Disse: “Non ho ricevuto un mandato dal popolo europeo”. Ovvio che in questo modo le istituzioni UE appaiano lontane, ostili ai movimenti dal basso.

Alla sfida del sovranismo occorre rispondere con una sovranità che sia condivisa, sì, ma fondata sulle esigenze dei vari popoli di veder rispettati i propri diritti sociali e civili. Se non ne teniamo conto, se creiamo a uso elettorale una contrapposizione fra sovranisti ed europeisti, per forza cadremo nel linguaggio non più politico ma teologico in cui è caduto Donald Tusk, secondo cui ci sarebbe uno speciale posto all’inferno per chi in Gran Bretagna negozia male l’uscita dall’Unione. Dimenticheremo che al centro della questione Brexit ci sono i diritti e la legge primaria europea, come spiegato molto bene dalla collega Julie Ward (gruppo S&D), non una specie di giudizio universale realizzato nella storia, e prima del tempo.

***

In data 12 febbraio 2019 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE, Relatore Barbara Spinelli (GUE/NGL).  

La Relazione è stata adottata con 349 voti a favore, 157 voti contrari e 170 astensioni.

A seguito del voto Barbara Spinelli ha dichiarato:

«Con l’adozione di questa Relazione il Parlamento europeo ha formalmente riconosciuto la necessità di attribuire maggiore centralità alla Carta dei diritti fondamentali nel processo politico e decisionale dell’Unione e di permettere ai diritti sociali in essa iscritti di uscire dall’ombra, conferendo loro una legittimazione rafforzata.  Mi rammarico tuttavia del fatto che la maggioranza dei gruppi politici, compreso purtroppo il gruppo socialista, non abbia colto appieno questa opportunità per trasmettere un messaggio ancora più forte e incontrovertibile, e abbia deciso di bocciare la maggior parte degli emendamenti presentati congiuntamente dal mio Gruppo politico e dai Verdi/ALE: emendamenti volti tanto a riaffermare gli obblighi positivi discendenti dalla Carta di promozione attiva dei diritti e dei principi in essa contenuti, quanto a estendere il suo ambito di operatività, a sottolineare con maggiore incisività il ruolo che la Carta dovrebbe avere nella governance economica e nella politica migratoria, così come il ruolo dei diritti umani nella politica commerciale, e a rafforzare gli strumenti intesi a garantirne l’osservanza».

Allegati:

Risoluzione del Parlamento europeo del 12 febbraio 2019 sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE (2017/2089(INI))

Emendamenti 003-007

Emendamenti 008-017

La nostra solidarietà a Eleonora e Antonio

di sabato, Settembre 22, 2018 0 No tags Permalink

Eleonora Forenza (GUE/NGL), il suo assistente parlamentare Antonio Perillo e Claudio Riccio sono stati aggrediti da militanti di CasaPound ieri a Bari, al termine di una manifestazione antifascista e antirazzista. Antonio Perillo ha riportato ferite gravi alla testa, inferte da un colpo di catena.
Barbara Spinelli e il suo ufficio esprimono solidarietà e preoccupazione.

Cara Eleonora, Caro Antonio,

abbiamo appreso dell’aggressione violentissima che avete subito, insieme con Claudio Riccio, e vorremmo tutti insieme esprimervi il nostro dolore e la nostra vicinanza. Speriamo in particolar modo che Antonio si riprenda rapidamente, e siamo estremamente preoccupati per il succedersi di aggressioni violente perpetrate da gruppi o individui di estrema destra. Speriamo inoltre che l’aggressione non resterà impunita.

Con i nostri migliori e affettuosi auguri,

Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Alfonsina Ciccarelli, Laura Salzano, Alessandro Manghisi, Fabian Mattheo Iorio

Link:
http://bari.repubblica.it/cronaca/2018/09/21/news/bari_a-207060594/amp/
https://video.repubblica.it/edizione/bari/aggressione-squadrista-a-bari-parla-uno-dei-feriti-cosi-mi-hanno-colpito/314909/315540

Barbara Spinelli si dissocia dalla decisione dell’Ufficio di presidenza sulle spese generali dei parlamentari europei

di martedì, Luglio 3, 2018 0 , Permalink

COMUNICATO STAMPA

Strasburgo, 3 luglio 2018

Ieri sera l’Ufficio di presidenza del Parlamento europeo – composto dal Presidente, dai Vice-Presidenti e dai Questori –  ha respinto le modeste proposte concernenti la gestione del fondo Spese Generali dei deputati, avanzate in precedenza da un gruppo di lavoro incaricato della questione. Le regole del Parlamento europeo prevedono che ogni mese i parlamentari ricevano la somma di € 4.416, esentasse, riservata alla sola gestione amministrativa del proprio ufficio e alla copertura di eventuali spese di rappresentanza. Sebbene siano previste linee guida molto precise sulla loro gestione, l’attuale normativa prevede che tale somma forfettaria sia assegnata al conto del deputato ed esclusivamente sottoposta al suo controllo. Il minimo che ci si possa aspettare è che un revisore dei conti esterno e indipendente verifichi tali spese e che per esse sia istituito un conto bancario separato.

Le proposte bocciate ieri erano il risultato della mediazione raggiunta all’interno del Gruppo di Lavoro per le Spese Generali, composto da un numero ristretto di membri dell’Ufficio di Presidenza. Le proposte erano molto modeste e prevedevano: la creazione di un conto bancario separato per le spese generali, l’ispezione annuale da parte di un supervisore esterno e la restituzione del denaro non speso. A mio parere si tratta di tre proposte minime e per nulla illogiche, anche se il rappresentante del mio gruppo aveva chiesto di più: un elenco esaustivo delle spese ammissibili e la pubblicazione delle spese sostenute sul sito web del Parlamento europeo. Personalmente, pubblico da anni sul mio sito internet un preciso resoconto delle mie spese e ho restituito al Parlamento europeo la somma di € 115.000, ovvero quella parte del fondo che non ho utilizzato dall’inizio del mio mandato.

La decisione adottata dall’Ufficio di Presidenza contraddice non solo il gruppo di lavoro ma una serie di risoluzioni adottate dallo stesso Parlamento europeo. Per questa ragione insisterò perché la Conferenza dei Presidenti (composta dai capi-gruppo del Parlamento) respinga le decisioni e difenda le esigenze di trasparenza sempre sbandierate e regolarmente disattese dai gruppi maggioritari. È un dovere che abbiamo verso i cittadini: non deve passare l’idea che i deputati tengano più alle proprie tasche che al prestigio dell’istituzione che rappresentano.

Il Pd ignora la sua base sociale e la lascia al M5S

Intervista di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano», 13 marzo 2018

Barbara Spinelli, che messaggio è arrivato dagli elettori con la doppia vittoria di Lega e M5S?

È evidente che a Nord come a Sud gli elettori esigono un cambiamento: non solo formale, di qualche ministro. Denunciano l’enorme divario che esiste tra un establishment di tipo oligarchico e la sovranità popolare, chiedono di colmarlo. Per la sinistra la sconfitta è monumentale: con le classi popolari aveva un legame storico perduto da anni.

Quell’establishment, prima del voto, ha dato il solito messaggio “o noi o il disastro” ed è rimasto inascoltato. Un risultato preoccupante o di speranza?

Il messaggio non funziona più perché negli anni in cui governava, quel “noi” ha ottenuto risultati non troppo distanti dal disastro agitato come spauracchio. Se si fa una netta distinzione tra Lega e M5S, forse si può ancora salvare il salvabile. Se la spinta impersonata dal M5S, la più inserita nel quadro democratico, viene colta e tradotta in un programma concreto di governo, il disastro è evitabile.

Eugenio Scalfari ha detto che il M5S è la nuova sinistra. È d’accordo?

Il Movimento 5 Stelle comprende molti elementi, anche liberali, tanto che nell’Europarlamento ha provato ad allearsi con l’Alde. Ma sicuramente il M5S ha una forte componente di sinistra. L’alleanza più coerente sarebbe quella con Pd e LeU, anche se la maggioranza sarebbe esilissima e dipendente da fedeltà improbabili.

E il sorpasso della Lega su Forza Italia che segnale è?

Esprime paure e xenofobie che esistono, meno chiassose, anche in Forza Italia. Se Berlusconi prova a lusingarle, gli elettori continueranno a preferire Salvini. Quanto all’Unione europea, l’elettorato leghista non è scettico, ma ostile. Non così i Cinque Stelle.

I Cinque Stelle hanno smesso di essere euro-scettici?

Li ho osservati da vicino al Parlamento europeo, nella loro propensione a fare compromessi positivi. Quello che le forze democratiche notano a Bruxelles è la loro capacità di fare proposte, soprattutto sui temi sociali e sui diritti. La stessa idea del reddito di cittadinanza, criticata e svilita dall’establishment italiano, è molto europea. Nell’ottobre scorso il Parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione che chiede l’introduzione di un reddito minimo nell’Unione. Il relatore era Laura Agea del M5S. Solo Italia e Grecia non hanno schemi permanenti di reddito di cittadinanza. Su alcuni temi i Cinque Stelle sono perfino troppo “europei”, a mio parere.

Per esempio?

Sul respingimento dei migranti verso il Sudan, una dittatura con cui abbiamo firmato accordi di rimpatrio, e in particolare sul rimpatrio dei migranti in Libia. L’appoggio dei 5 Stelle alla strategia libica di Minniti è identico a quello dato dalla Commissione UE, e come nel 2012 potrebbe sfociare in una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Vista da Bruxelles, la Lega è pericolosa come il Front National? Non sembra ci sia lo stesso grado di allarme.

Spero che l’allarme ci sia. Quando Salvini parla di Europa mostra un’ignoranza abissale: quando fa l’elogio di Marine Le Pen o dei governi del gruppo di Visegrad, nasconde agli elettori che costoro vogliono chiudere le frontiere e si rifiutano di ricollocare i rifugiati, lasciandoli tutti nel Paese d’arrivo, che è il nostro. Un disastro per l’Italia, che Salvini furbescamente occulta.

Si parla di un’alleanza Lega-M5S, per mancanza di alternative.

Dell’ignoranza militante e ipocrita di Salvini ho appena detto. Non voglio neppure prendere in considerazione un’alleanza, suicida e contronatura, con un simile personaggio, dichiaratamente xenofobo e violento.

L’atteggiamento del Pd ora verso i loro elettori è “andate pure dai populisti, ve ne pentirete e tornerete da noi con tante scuse”.

È un atteggiamento di persone psicologicamente fragili che non sanno guardarsi allo specchio e fare gli autoesami richiesti: è la stupidità senza fondo che caratterizza le mosse di Renzi da quando ha perso il referendum sulla Costituzione. Vuol dire mostrarsi del tutto indifferenti alla propria storica base sociale. Averla in gran parte perduta non significa smettere di esserne responsabili. Lasciare i Cinque Stelle senza sponde a sinistra significa rovesciare lo slogan “o noi o il caos”, e scegliere il caos. Dire “Ben venga il caos” è un atteggiamento sovversivo. Né credo che la soluzione consista nello schema Macron, carezzato forse da Renzi o Calenda: Macron ha vinto lasciandosi alle spalle un deserto di rappresentanza politica.

Come verrebbe vista in Europa la coalizione Pd-M5S? Una resa del Pd ai populisti?

Consiglio di abbandonare per sempre l’aggettivo populista, utilizzato per delegittimare chiunque chieda cambiamenti ma non appartiene alle oligarchie nazionali o europee. Parliamo dei problemi veri: non siamo fuori dalla crisi, dobbiamo uscire dalla bolla dentro cui vivono poteri assediati, sempre più infastiditi non tanto dai populisti, ma dallo stesso scrutinio universale e dalle inevitabili sorprese che esso riserva.

Che succede se i Cinque Stelle deludono? Hanno sollevato molte aspettative.

Hanno diminuito il numero delle promesse. Quella che più viene loro rimproverata dagli economisti dell’austerità è il reddito di cittadinanza, difficilmente contestabile essendo un obiettivo dell’Europarlamento. Lo stesso Parlamento ha detto che non bastano gli 80 euro o qualche piccola misura sull’inclusione. In Italia servono proposte sociali importanti e per questo il Pd e il M5S dovrebbero allearsi. Nel programma 5 Stelle c’è anche la lotta alla mafia e alla corruzione. Vorrei sapere se anche questa lotta sia catalogabile come populista

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