La sinistra “indomita” non piace alle élite (e sconfigge Macron)

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2024

Alla fine i francesi hanno sorpreso l’intera classe politico-mediatica, domenica, dando la vittoria al Fronte Popolare delle sinistre – La France Insoumise di Mélenchon, Socialisti, Verdi, Comunisti – e mostrandosi leali nella strategia delle desistenze grazie a cui è stato possibile opporre un vasto “Fronte Repubblicano” all’avanzata di Marine Le Pen e Jordan Bardella. L’estrema destra viene addirittura confinata al terzo posto, dopo le sinistre e la coalizione di Macron, che perde più di 80 deputati ma non crolla. Non crolla per la verità neanche Le Pen, che aveva 89 deputati e ne ha ora 143; e che è pronta a prendersi una rivincita alle presidenziali del 2027, se la Camera diverrà ingovernabile come tanti predicono.

Le desistenze del secondo turno hanno visto il ritiro sistematico dei candidati di sinistra a favore di quelli del centro-destra in grado di battere Bardella, lì dove restavano in lizza tre candidati. In buona parte si sono ritirati anche i centristi, malgrado il disgusto che tuttora provano per Mélenchon.

Nonostante le profezie del centrismo macroniano sulla fine della dialettica destra-sinistra, la contrapposizione riaffiora e la sinistra è premiata. Non con forza sufficiente tuttavia, dal momento che il Nuovo Fronte Popolare è molto lontano dalla maggioranza assoluta (182 parlamentari invece di 289) e perché il peso del centro destra resta notevole. Insieme, ex Macroniani e Repubblicani sono più forti delle sinistre.

Diciamo ex macroniani perché sciogliendo l’Assemblea Macron ha dissolto anche sé stesso. Credeva di restare chiave di volta del sistema politico e invece i più importanti dirigenti del suo raggruppamento hanno preso le distanze da lui, nella campagna elettorale e ancor più domenica sera. In prima linea si sono dissociati il Premier Gabriel Attal e l’ex Premier Édouard Philippe, che da tempo si era chiamato fuori: entrambi hanno annunciato domenica una “nuova era” più democratica, e si sono presentati come leader non ancora ufficiali di un radicale cambiamento della Quinta Repubblica, destinato a spostare il baricentro della vita politica dall’Eliseo al Parlamento. È una battaglia condotta negli ultimi anni da Mélenchon. È nell’Assemblea che tocca ora cercare maggioranze più o meno fluttuanti, restituendo ai parlamentari un potere che De Gaulle aveva drasticamente ridotto nel 1958. Fenomeno non nuovo: si parla di maggioranza presidenziale perduta ma è dalle legislative del 2022 che Macron ha una maggioranza relativa, e che si è abituato a stringere ripetuti patti con le destre, specie sulla migrazione.

Per la quarta volta dunque, negli ultimi ventidue anni, l’estrema destra è bloccata quando è sul punto di prendere il potere. È accaduto nel 2002, quando Jean-Marie Le Pen sorpassò al primo turno i socialisti e fu battuto al secondo da Jacques Chirac, che nel duello finale raccolse l’82,2% dei voti pur avendo ottenuto il 19,8% al primo turno. Seguirono altri due sorpassi, quando Macron fu eletto Presidente nel 2017 e nel 2022, grazie alle desistenze delle sinistre. Nel 2022 i francesi lo detestavano più che mai, e infatti gli diedero alle legislative una maggioranza relativa. Nonostante questo respinsero Le Pen figlia. La loro incaponita resistenza continua ed è qui la singolarità della Francia.

Logica parlamentare vorrebbe che sia il Fronte Popolare, primo gruppo, a proporre il Premier all’Eliseo. Che governi con il suo programma e magari con una provvisoria maggioranza relativa, come Macron dopo il 2022. E logica vorrebbe che il candidato a Primo Ministro provenga dalla Francia Indomita, che a sinistra arriva prima malgrado il rafforzamento di Socialisti e Verdi. Ma Macron prende tempo: ieri ha respinto le dimissioni del Premier Attal. In parte perché incombono le Olimpiadi, in parte perché vuol osservare quel che accade nelle sinistre e punta al loro sfaldamento, nel desiderio di evitare il governo con gli Indomiti di Mélenchon. Quel che vuol vedere è se Socialisti e Verdi prenderanno le distanze dal Fronte e da un programma che l’Eliseo e il centro destra esecrano, perché imperniato sulla giustizia sociale, l’economia keynesiana espansiva, la tassazione finalmente progressiva, le imposte sui redditi alti e sulle corporazioni che più hanno profittato del Covid e della crisi inflazionista.

Per il momento l’unità delle sinistre regge, pur scricchiolando molto. Difficilissimo, dopo una vittoria simile, dire ai francesi che è stato tutto un bluff, che il programma di giustizia sociale e di non discriminazioni per cui hanno votato si sfalda il giorno dopo, e che ricominciano da capo le divisioni e gli intrallazzi. Ma nell’area di Socialisti e Verdi riaffiora una sorta di libido autodistruttiva, che si esprime nel desiderio di rompere con la sinistra radicale e di adottare il punto di vista che domina all’Eliseo e in tutte le reti Tv, secondo cui Mélenchon e i suoi parlamentari rappresentano l’ “estrema sinistra”. Così viene chiamata oggi la sinistra che non si rinnega: estremista, e se non basta si affibbia il marchio infamante dell’antisemitismo, che già emarginò Jeremy Corbyn in Gran Bretagna.

Negli ultimi giorni si sono avute alcune avvisaglie di regolamenti dei conti a sinistra. Prima ancora di affrontare il secondo turno, alcuni esponenti del Fronte Popolare hanno fatto capire che con Mélenchon non si governa (l’ex Presidente François Hollande, l’eurodeputato Raphael Glucksmann che ha provato a rovinare il secondo turno dicendo che Mélenchon “è un enorme problema” per la sinistra). Non è chiaro quale sia il loro peso effettivo. Dar vita a una coalizione senza la France Insoumise, con Macronisti e destra dei Repubblicani, è un formidabile azzardo. Mélenchon sarebbe solo a opporsi, e a incarnare il tradito Fronte Popolare.

Altra singolarità francese: gli elettori non si sono limitati a sorprendere, affluendo massicciamente alle urne e salutando la sinistra vittoriosa con imponenti manifestazioni di sollievo e gioia, non solo a Parigi. Hanno sconfitto l’estrema destra, scalfito spettacolarmente il potere di Macron, e screditato gli istituti di sondaggio e soprattutto la stampa scritta e audiovisiva, che per settimane ha fatto disinformazione – continua a farlo – bollando Mélenchon e il suo partito di antisemitismo, estremismo e anti-repubblicanesimo.

Uno schieramento simile disinforma anche in Italia. Il Tg della Sette, per esempio, diceva spensieratamente, sabato, che le elezioni francesi sono “importanti anche per l’Europa, i mercati e gli imprenditori”, fingendo di dimenticare che in democrazia esiste un popolo elettore un po’ più ampio. Questo rivelano le elezioni in Francia, come hanno già hanno rivelato in Italia: i cittadini non sono rappresentati dalla classe politica e lo sono ancor meno dal potere mediatico/industriale, che tranne qualche eccezione pare occuparsi solo di mercati, imprenditori e padroni della stampa. La differenza tra Francia e Italia è che la prima va a votare in massa, mentre la seconda ancora fugge nell’astensione.

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Antisemitismo, nuova lettera scarlatta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 giugno 2024

Se l’estrema destra uscirà vincente dalle elezioni legislative in Francia, nei turni del 30 giugno e 7 luglio, sarà perché il presidente Macron le ha aperto i cancelli del potere, concentrando tutti i suoi attacchi contro i due opposti estremismi, ma riservando speciale perfidia e le invettive più incandescenti alla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, alleato con Socialisti e Ecologisti nel Nuovo Fronte Popolare.

Al centro della requisitoria presidenziale, l’accusa/insinuazione che può distruggere le carriere politiche, che pietrifica le conversazioni civili, che ti mette all’angolo trasformandoti in paria: l’accusa di antisemitismo. L’antisemitismo è la Lettera Scarlatta che viene incollata sulle vesti di chiunque, oggi, denunci la guerra contro i civili condotta da Israele e faccia risalire al lungo soggiogamento dei Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania la furia omicida di Hamas del 7 ottobre 2023.

Macron non poteva non sapere, quando ha temerariamente sciolto il Parlamento subito dopo le elezioni europee, che i candidati dell’estrema destra di Marine Le Pen e dell’aspirante Premier Jordan Bardella avrebbero fatto propria l’accusa, che l’antisemitismo sarebbe diventato il fulcro della loro campagna. Non poteva non sapere che quasi l’unanimità dei giornali mainstream, e praticamente tutti i canali televisivi, avrebbero minimizzato la pulizia etnica che il governo israeliano sta conducendo a Gaza, e si sarebbero uniti al coro: c’è del marcio a sinistra nel Fronte Popolare – questa l’insinuazione ricorrente – c’è l’odio dell’ebreo nella Francia Indomita ovvero France Insoumise di Mélenchon, che da mesi manifesta contro gli stermini di Palestinesi a Gaza e le violenze dei coloni in Cisgiordania. Mai si sospetta che l’antisemitismo, se cresce in Francia, abbia qualche rapporto con le politiche d’Israele.

La France Insoumise è anche tacciata di putinismo, sull’Ucraina: ma questo secondo peccato appare d’un tratto minore, forse perché condiviso con Le Pen. Ambedue le accuse non corrispondono al vero, ma la menzogna come sempre ha gambe più forti per correre.

Il fenomeno oltrepassa i confini francesi, e non è nuovo. Una campagna simile è in corso negli Stati Uniti, alla vigilia delle presidenziali, e vede i candidati di Trump sostenuti contro i democratici da massicci aiuti finanziari della principale lobby pro-israeliana, la potentissima AIPAC: più di 14 milioni di dollari nelle sole primarie di New York, per far fuori il candidato democratico di sinistra. Il marchio di antisemitismo inabissò anni fa Jeremy Corbyn, eletto leader del partito laburista inglese nel 2015, espulso dal partito a seguito di una campagna denigratoria condotta dall’ala conservatrice del partito, oggi rappresentata da Keith Starmer. Corbyn, al pari della France Insoumise di Mélenchon, aveva messo fine alla Terza Via di Tony Blair combattendo le guerre occidentali in Siria, la nuova guerra fredda con Mosca, l’espansionismo a Est della Nato che ha originato la reazione violenta di Mosca. La Terza Via incarnata da Keith Starmer festeggiò il proprio ritorno liquidando la corrente di sinistra. Quel che Starmer dimentica è che se si prepara a vincere contro i Conservatori, è perché Corbyn nel 2015 salvò il Labour dal tracollo.

Tra gli sponsor occulti del Rassemblement National di Marine Le Pen e Bardella c’è il governo israeliano, e non è una sorpresa. Netanyahu intesse da tempo una vasta rete di amicizie e complicità con le destre islamofobe, illiberali e pro-Israele, in Usa come in Europa (Centro Europa in testa, dove corteggia perfino formazioni neonaziste). La sconfitta della sinistra in Francia è auspicata a Tel Aviv.

Nell’immediato, la Lettera Scarlatta che serve a marchiare d’infamia una parte del Fronte Popolare è una manna per la destra estrema, che astutamente mescola la prudenza sull’economia con frasari infuocati pro Israele e contro l’“islamo-gauchismo”. Non è detto che la manna sarà totale, perché la determinazione con cui le sinistre si sono unite ha stupito positivamente molti francesi e ha spiazzato Macron. La coalizione centrista del Presidente mette in guardia contro i due “opposti estremismi”, ma è più condiscendente verso il partito di Le Pen: su immigrazione, sicurezza interna, difesa. Le promesse economiche del Fronte Popolare costerebbero 300 miliardi di euro contro i 100 di quello delle destre: la sua agenda, deduce Macron, “è peggiore” di quella di Bardella.

Quanto all’immigrazione, Macron da tempo si allinea alle destre estreme: il 16 giugno è uscito allo scoperto definendo “totalmente immigrazionista” il programma delle sinistre. L’aggettivo “immigrazionista” figura nel vocabolario di Marine Le Pen dagli anni Novanta. Il Presidente giunge fino a accusare le sinistre di sostenere “cose completamente deliranti (ubuesques – da Ubu Re di Alfred Jarry, ndr), come andare al municipio per cambiare di sesso”. È chiaro che il Presidente preferisce coabitare con l’estrema destra, senza dimettersi. Ha precipitato le legislative lasciando ai contendenti solo tre settimane, per decidere su programmi e alleati. E forse l’ha fatto per capriccio forse per calcolo: puntando sulle forze lepeniste pensa magari di logorarle prima delle presidenziali del 2027. Bardella ha subito replicato annunciando di voler governare solo se otterrà la maggioranza assoluta.

Per il partito socialista che ha creato con Mélenchon il Fronte Popolare per impedire l’avvento dell’estrema destra, la diatriba sull’antisemitismo è nell’immediato una maledizione. Non lo è tuttavia nel lungo termine, per tutti i socialisti che a partire dell’ottobre 2023, e nella campagna per le elezioni europee, hanno scelto come bersaglio la sinistra radicale. Il capofila di questa linea è Raphael Glucksmann, capolista non socialista dei socialisti alle Europee, fautore di un’economia di guerra per debellare Putin, di un aiuto all’Ucraina con tutti i fondi russi congelati in Europa (non solo coi proventi), dello sgombero delle università occupate da filo-Palestinesi.

Subito dopo le Europee, Glucksmann è stato preso in contropiede dall’immediata riconciliazione delle sinistre e dopo aver cercato d’impedirla si è associato, temendo l’emarginazione. Non smette tuttavia di ricordare quel che lo divide da Mélenchon, e di attaccare l’antisemitismo di destra e sinistra. Nei prossimi tre anni, se la sinistra unita sarà sconfitta, apparirà come un ricorso per i socialisti che hanno vissuto passivamente, con vergogna imbarazzata, la Lettera Scarlatta dell’antisemitismo. La sua battaglia contro Mélenchon ha dato frutti nelle europee. Potrebbe darne anche nelle presidenziali del 2027.

I sondaggi prevedono per ora che né l’estrema destra né le sinistre otterranno la maggioranza assoluta. E constatano l’indebolirsi ulteriore del centro, tanto diffusa è l’esecrazione del Presidente anche tra i centristi. In tal caso Macron avrà aperto i cancelli del potere non a questo o quel partito, ma al caos e alla più grave paralisi istituzionale nella storia della Quinta Repubblica.

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Il muro contro Mélenchon

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2022

In apparenza si è ripetuto il copione delle penultime Presidenziali, domenica sera: Emmanuel Macron e Marine Le Pen arrivano in testa al primo turno (27,84% e 23,15), sicché la sfida per la conquista dell’Eliseo sarà fra loro due.

Subito dopo, terzo nella lista, si è imposto il leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon (21,95%). Lo scarto che lo separa da Le Pen è esiguo, bastava poco più di un punto e Macron avrebbe battagliato con lui. Senza crederci un granché, non pochi speravano in questo risultato, che avrebbe messo fuori gioco Le Pen producendo uno scontro ben più fecondo e meno lacerante, fra il centrodestra di Macron e la sinistra di Mélenchon.

Quel che lacera gli elettori che ora temono un trionfo di Le Pen (e l’influenza che eserciterebbe su di lei Éric Zemmour, il candidato che la voleva sorpassare) è dover ancora una volta – la terza dal 2002 – votare un candidato aspramente combattuto. Una scelta terribile, come ha ricordato domenica Mélenchon, che pure ha esortato a “non dare neanche un voto” a Le Pen. L’indicazione era obbligata ma non semplicissima: se in politica estera e sull’Ucraina le posizioni di Macron e Mélenchon sono abbastanza simili, se il reiterato tentativo presidenziale di negoziare con Putin e distanziarsi dalla bellicosità Usa riscuote vasti consensi, compresi quelli lepenisti, il giudizio complessivo sul Presidente resta più che negativo. Sono sotto accusa la solitudine del comando; i favori fiscali ai più abbienti tanto contestati dai Gilet gialli, il ricorso massiccio ai consulenti di McKinsey e Accenture (1 miliardo di euro versati nel 2021 da Parigi), spesso l’arroganza, infine il rifiuto di ogni dibattito prima del primo turno.

A differenza di quanto accadde al primo turno del 2017, Macron appare oggi preoccupato, perché gli esiti del duello sono meno sicuri. In questi anni Le Pen si è mostrata più moderata: grazie anche a Zemmour, più xenofobo e agitato di lei. Con astuzia si è concentrata sulle ingiustizie sociali, anziché sull’immigrazione che pure resta un suo punto forte. In piena guerra ucraina la vicinanza a Putin la svantaggia, ma Marine ha condannato l’aggressione russa in nome del sovranismo e dell’intangibilità delle frontiere. Al secondo turno può contare sugli elettori di Zemmour, sull’ala destra di parte dei Repubblicani (corrente di Éric Ciotti, presenza influente a Sud) e anche su un numero consistente di elettori di Mélenchon, esasperati dal tragico “ricatto” del secondo turno.

Quanto a Macron, potrà contare sul voto dei socialisti, dei verdi, dei comunisti. Ma son briciole, e neanche sicure in blocco. Le astensioni e le schede bianche sono un suo incubo. Come nel 2017, Macron ha fatto di tutto perché attorno a lui s’estendesse il deserto e perché Le Pen fosse la rivale unica. È morto il partito socialista (1,7%), si sfracellano i Repubblicani a destra (4,7), i Verdi (4,6) e i comunisti (2,2). I voti di cui Macron ha prioritariamente bisogno sono dunque quelli di Mélenchon, cui si è rivolto domenica sera alla Porte de Versailles. È lui l’arbitro del secondo turno, assieme al suo partito (France Insoumise-Francia Insubordinata).

Gli Insubordinati sono imprevedibili: in gran parte si asterranno, in parte voteranno Macron ma con la disperazione nell’animo, in parte eleggeranno Le Pen mescolando disperazione e rabbia.

France Insoumise è la sinistra che rimane. Potrebbe riesumare una dialettica politica meno tormentosa e più costruttiva, se non esistesse un pensiero quasi unico, in Francia come in Europa, che in Mélenchon vede lo specchio di Marine Le Pen, l’altra faccia del populismo sovranista e antieuropeo, il pericolo di riforme istituzionali che renderebbero meno monarchica la Quinta Repubblica. Non è quello che pensano gli elettori, evidentemente: se Mélenchon si rafforza mentre scompaiono socialisti, comunisti e verdi vuol dire che molti di loro hanno votato “utile” fin da domenica, scegliendo Mélenchon. È quello che consigliavano tra l’altro Ségolène Royal, candidata socialista alle presidenziali del 2007, e Christiane Taubira, popolare ministro della Giustizia sotto la presidenza Hollande.

La teoria dei doppi estremismi, di destra e sinistra, ritrova la forza che ebbe negli anni 70. È la vulgata conformista che domina nelle élite e nei giornali francesi. Oltrepassa i confini lambendo anche l’Italia, dove Le Pen e Mélenchon sono quasi sempre messi sullo stesso piano (alcuni giungono sino a dire: “Quasi meglio Marine di lui”).

C’è qualcosa di misterioso e impenetrabile nel muro innalzato contro Mélenchon. Il quale ha certo numerosi difetti e ha fatto parecchie giravolte in passato (a suo tempo fu socialista). Inoltre ha sistematicamente respinto alleanze con altre sinistre, anche se bisogna dire che il rifiuto veniva piuttosto da queste ultime: socialisti e verdi sono polverizzati da Macron, che è un animale politico anfibio, ma la colpa del deserto cui sono ora ridotti è soprattutto merito loro.

Quello che andrebbe analizzato con maggiore precisione e senza cadere nei luoghi comuni sugli “opposti estremismi” è come mai esista un astio così profondo, infrangibile, viscerale, contro Mélenchon. Non sono comprensibili sino in fondo le lamentazioni urlanti, la stizza che scatta come fosse un misirizzi se solo ci si azzarda a fare il suo nome, la collera e gli occhi che roteano verso il cielo se solo fai un piccolo striminzito accenno alla sua campagna, ai suoi argomenti, alla sua oratoria (la migliore nelle due ultime campagne presidenziali). Di certo non sono mancati suoi sbagli e scemenze, così come non mancavano sbagli, scemenze e imbrogli per attirare l’attenzione nella pluriennale campagna elettorale di Mitterrand sfociata nella conquista finale dell’Eliseo. Ma questa sorta di esclusione a priori della Francia Insubordinata, al limite e non di rado più inacidita ancora che nei confronti di Le Pen, rappresenta un intralcio che già due volte ha creato il caos elettorale in Francia.

Mélenchon arriva in testa in alcune grandi città: a Parigi e Lione è primo o secondo, a Marsiglia è primo. È piuttosto insensato considerarlo un estremista da demonizzare. Troppo comodo, comunque, per i partiti in Europa che si richiamano al socialismo, alla socialdemocrazia o al postcomunismo – Pd in Italia – e sono oggi sensibili solo ai richiami della Nato (le marchette di cui parla Cacciari) e non alla propria storia. Ovvio che Marine Le Pen trovi spazio nelle periferie e nei territori socialmente disastrati dove loro non mettono più piede.

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