La fine delle grandi illusioni di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 30 ottobre 2020

Con molte settimane di ritardo, Macron ha finalmente annunciato mercoledì un secondo lockdown: era ora che lo facesse, considerato l’espandersi incontrollato del virus sin da luglio.

Era ora che la lunga e ottusa illusione finisse, anche se di essa permangono alcuni inquietanti frammenti: come quando il presidente assicura che “tutti in Europa sono sorpresi dall’evoluzione del virus”, o che il primo confinamento “aveva abbattuto (stoppé) il Covid”. Il lockdown sarà alleviato –non chiudono servizi pubblici, imprese, scuole, nidi, residenze per anziani; le università tornano a insegnare online – ma il colpo è duro. Ancor più duro dopo l’attentato islamista che ha ucciso tre cittadini in una basilica a Nizza, a tredici giorni dalla decapitazione a Conflans. La Francia fronteggia la doppia sciagura lockdown-terrorismo nel pieno della propria impotenza.

Il lockdown durerà fino al 1° dicembre (“come minimo”: il traguardo è 5.000 positivi al giorno). Ogni quindici giorni ci sarà una revisione: alcune attività potranno riaprire se i contagi scenderanno. Lo scopo – in Francia come altrove – è “salvare il Natale” e la sua manna consumistica.

Il ritardo dell’intervento francese è messo in rilievo da molti esperti. Il Comitato scientifico aveva consigliato già in estate di aprire gli occhi, con misure più drastiche o nuovi lockdown, e si era trovato alle prese con un Eliseo stizzito, e con un fronte mediatico che ripeteva il mantra: “Nessun altro confinamento, visto che non lo vogliamo”. L’11 settembre il governo dava assicurazioni perentorie in tal senso.

Nei giorni precedenti l’Eliseo si era scontrato con il presidente del Comitato scientifico, Jean-François Delfraissy, che di fronte alla progressione esponenziale del virus giudicava ormai insufficienti mascherine obbligatorie e test migliorati. Il capo dello Stato lo richiamò all’ordine, spiegandogli che non spetta ai tecnici ma solo ai politici prendere decisioni. Jean Castex, nuovo premier, offrì dunque misure blande. Il periodo di isolamento dei casi positivi passò da 14 giorni a 7. I laboratori in affanno furono invitati a esaminare solo i sintomatici. Si diffuse la notizia di un vaccino imminente (ieri Macron ha detto che non arriverà prima dell’estate prossima).

In un primo tempo furono quindi sconfitti sia il Comitato scientifico sia il ministro della Salute Olivier Véran, che preferivano chiusure radicali di bar e ristoranti nelle città da mesi sotto flagello. Il 5 ottobre furono chiusi i bar, ma non i ristoranti. Poi venne il coprifuoco, ma era troppo tardi. A Parigi chiunque ha potuto constatare nelle ultime settimane come i bar, fungendo anche da ristoranti, restassero sovraffollati: all’aperto e dentro, e di giorno prima del coprifuoco serale.

Il ritardo ha assunto forme di diffuso negazionismo ed è costato migliaia di morti, una situazione ospedaliera allo stremo, il quasi azzeramento delle terapie intensive a Parigi o Marsiglia, dove il virus aveva fatto un ritorno distruttivo sin da luglio-agosto. Macron ha dovuto ammettere mercoledì che in assenza di una nuova stretta, i “morti supplementari saranno 400.000 entro qualche mese”.

Il Comitato scientifico e i virologi più avvertiti hanno fortunatamente ripreso il sopravvento, anche se moniti e critiche permangono: l’epidemiologa Catherine Hill, ad esempio, ha denunciato dopo il discorso di Macron l’incapacità, immutata, di controllare le catene di contagio, di tracciare i contatti dei positivi, di testare rapidamente sintomatici e asintomatici. Posizioni simili sono paragonabili, da noi, a quelle di Massimo Galli o al verdetto di Andrea Crisanti (“Siamo al punto di partenza, i sacrifici degli italiani sono stati resi inutili. Il tracciamento si è sbriciolato”).

È un conforto che i verdetti deprimenti siano infine ascoltati. Chi ha vissuto ultimamente in Francia, specie a Parigi, era quotidianamente sbigottito: bar pieni zeppi, strade sovraffollate, mascherine portate controvoglia, come se indossarle fosse una fissa di indisponenti ipocondriaci. Se non ci sono stati episodi spettacolari come quelli italiani (Salvini o Sgarbi che si strappano la maschera) è perché il rifiuto era diffuso capillarmente in Francia, tra giovani e non giovani che non sono mai stati bene informati o il più delle volte hanno disdegnato ogni informazione. Ci sono voluti più di sei mesi per ammettere che il virus non si propaga solo attraverso le famose goccioline – come ripetono ancora tanti esperti in Italia – ma attraverso goccioline che evaporando diventano aerosol, cioè l’aria che respiriamo. Ci sono voluti più di sei mesi perché le mascherine divenissero obbligatorie anche nei luoghi aperti.

Ieri Macron ha respinto con giusti argomenti la strategia dell’immunità collettiva, ma più volte ne ha subito le lusinghe. La fece propria quando indisse le elezioni municipali, per ricredersi due giorni dopo e decidere il lockdown, o in estate quando mostrò fastidio verso l’allarme degli scienziati. Occorre “cavalcare la tigre”, era la parola d’ordine. Bisogna “vivere col virus”, ripeteva l’Eliseo quando s’accorse (senza ammetterlo) che il primo confinamento non aveva “stoppato” alcunché. Per l’ennesima volta è ora costretto ad abbandonare la grande illusione dell’immunità collettiva constatando che il trittico anti-Covid (testare-tracciare-isolare) si è, come dice Crisanti, sbriciolato.

L’Eliseo adotta adesso l’inevitabile lockdown, ma elementi cruciali tuttora mancano: un’analisi dei macroscopici fallimenti post-confinamento e l’ammissione che la tigre non può essere “cavalcata”, a meno di non accettare centinaia di migliaia di morti entro poche settimane.

Non per ultima, manca la coscienza che in tempi di pandemia e terrorismo non è davvero il caso di lacerare il Paese, e che dopo gli attentati di Conflans e Nizza occorrono parole di sostegno ai cattolici, ma anche di conciliazione con la vastissima comunità musulmana. La denuncia del terrorismo islamista dovrà prima o poi combinarsi con una presa di distanza sistematica dall’islamofobia.

Tornando più particolarmente al Covid: ogni volta che Macron ha abbandonato la chimera dell’immunità collettiva le cose sono andate un po’ meglio in Francia. Ma anche ora, come all’uscita dal primo lockdown, è del tutto assente una chiara indicazione su quel che occorrerà fare o evitare di fare dopo il 1° dicembre, sugli errori da non ripetere, sulle grandi illusioni di cui bisognerà sbarazzarsi, specie nelle vacanze di Natale quando strade e negozi torneranno ad affollarsi.

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Il memorandum italo-libico e la politica di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 febbraio 2020

Alla vigilia del rinnovo del memorandum italo-libico sul contrasto alla migrazione irregolare, stipulato nel febbraio 2017 dal governo Gentiloni, Dunja Mijatovic era stata molto chiara: “Chiedo al governo italiano di sospendere l’attività di cooperazione con la Guardia costiera libica per quanto riguarda il respingimento in Libia delle persone intercettate in mare”, aveva detto venerdì scorso il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa. Ricordando che il memorandum era destinato a essere automaticamente riconfermato il 2 febbraio, il Commissario deplorava che le autorità italiane non avessero usato questi mesi per “cancellare l’accordo o, come minimo, modificarne i termini”. Modifiche che il ministro Lamorgese aveva garantito, il 6 novembre, ma di cui non risulta esserci traccia il giorno dopo l’automatico rinnovo.

“Il memorandum rimarrà in vigore nella sua formulazione originaria fino a quando non saranno concordati gli interventi migliorativi”: così la Farnesina ha messo nel cassetto i propositi del ministro dell’Interno come se mai fossero esistiti.

Dunja Mijatovic aveva anche fatto capire che le parole e le buone intenzioni sull’evacuazione dei centri di detenzione non sarebbero bastati. Il memorandum andava sospeso, assieme al sostegno offerto alle Guardie costiere, “fino a quando la Libia e le Guardie costiere non saranno in grado di dare concrete garanzie sul rispetto dei diritti umani”. Queste le condizioni minime: migranti e richiedenti asilo devono essere liberati dai campi in cui si trovano (un diplomatico tedesco li definì Lager di morte, anni fa); il ricorso ai corridoi umanitari deve divenire politica dell’Ue e non solo dell’Italia; e nel Mediterraneo va assicurata una presenza sufficiente di navi dedicate alla Ricerca e Soccorso: “Questa tragedia è già durata troppo tempo, e i Paesi europei ne sono responsabili”. Già nel settembre 2017, il predecessore di Mijatovic –Nils Muižnieks – aveva aspramente criticato il ministro Minniti su questi temi.

Sia pure con toni meno forti, il Capo della missione in Libia dell’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati), Jean-Paul Cavalieri, si era espresso in modo non dissimile, l’8 gennaio in un’audizione alla Commissione esteri della Camera. Aveva detto che alcuni progressi esistono, anche se le evacuazioni dei Lager e il reinsediamento in Paesi sicuri degli evacuati restano minimi, ma comunque aveva ribadito una cosa essenziale, che l’Onu va ripetendo dal dicembre 2016: “La Libia non è da considerarsi un porto sicuro di sbarco per i migranti” (“place of safety”, nel linguaggio del diritto internazionale).

Sia il commissario del Consiglio d’Europa sia il capo missione Unhcr hanno puntato il dito su un’evidenza: la violenza della guerra ha enormemente aggravato la situazione nei campi di detenzione, e minacciato la sicurezza di migranti e rifugiati che si aggirano, senza alcuna protezione, nelle città libiche (a tutt’oggi gli sfollati a causa della guerra sono oltre 300.000). È dunque pertinente quanto affermato sull’«Espresso» da Francesca Mannocchi: delle promesse fatte da Lamorgese (riconferma del memorandum, ma negoziando modifiche sostanziali) non sembra esser restato nulla, a parte dichiarazioni vuote. Dichiarazioni che si sono ripetute negli ultimi anni, a Roma come a Bruxelles, anche se da più di tre anni l’Onu ritiene la Libia porto non sicuro.

Che l’Italia non sia l’unica responsabile del disastro è messo in evidenza, come abbiamo visto, sia da Mijatovic che da Cavalieri. Un aspetto non minore della tragedia è infatti la volontà di impotenza mostrata dall’Unione europea a fronte di una guerra che si sta trasformando in un sanguinoso regolamento dei conti geo-politico, che vede al-Sarraj appoggiato da Turchia e Qatar, e Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia e Francia. Il 19 gennaio, un vertice mondiale a Berlino ha tentato senza successo di fermare l’escalation bellica: i partecipanti si sono impegnati a non interferire nel conflitto e a “rispettare in pieno l’embargo sulle armi” stabilito nel 2011 dall’Onu. Erano vane parole anche quelle, e le interferenze continuano così come le forniture di armi o mercenari. La Libia è un paese ricco di petrolio e gas naturale: questo il vero oggetto di contesa nel Grande Gioco nel Mediterraneo orientale. In particolare, è l’oggetto di contesa nel conflitto politico-diplomatico che vede contrapporsi i governi di Francia e Italia.

Se il governo italiano ha dunque responsabilità di primo piano per quanto riguarda il flusso dei migranti e il memorandum, altrettanto può dirsi della Francia di Macron. Il divario tra parole e fatti, nel caso francese, è solo più subdolo. Basti ascoltare quanto detto da Macron in occasione della visita in Francia del Premier greco, il 29 gennaio: con parole pesanti ha accusato Erdogan per violazione dell’embargo sulle armi, ma non ha fatto il minimo accenno ai mercenari pro-Haftar del Ciad e del Sudan, ai missili francesi trovati in un quartier generale di Haftar presso Tripoli, e alla violazione dell’embargo da parte di chi – come lui – fiancheggia il generale: Emirati e Giordania, già indicati da un gruppo di esperti Onu, nello scorso dicembre, come fiancheggiatori principali di Tobruk. “La Francia sta dando prova di una grande miopia”, avevano concluso gli esperti.

In questo Grande Gioco non ci sono innocenti, e lo stesso si può dire per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori e la mancanza di politiche di Ricerca e Soccorso nelle acque del Mediterraneo. Divisa com’è, l’Unione fa finta di agire. E se si parla dell’Italia con più severità, è solo perché la Francia di Macron è una potenza, nell’Unione europea, più eguale di quasi tutte altre.

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“L’Ue ha dimostrato diritto di veto, ma si può resistere”

Intervista a Barbara Spinelli di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano» , 22 dicembre 2018

Barbara Spinelli, giornalista, è in rotta con le politiche dell’Unione: si è candidata alle Europee nel 2014 per cambiarle, nella lista Tsipras. Ma ora, a pochi mesi dalla fine di quest’esperienza (“un mandato basta”), vede pochi segnali di speranza: qualche politica sociale in Portogallo, la sinistra di Corbyn in Gran Bretagna, forse il governo Sanchez in Spagna.

Barbara Spinelli, il governo si è fatto dettare la manovra o la Commissione ha ceduto?

La Commissione ha confermato il potere di veto che sin dal governo Monti esercita sulle politiche decise dai governi. Abbiamo programmi ed elezioni nazionali, e poi c’è un secondo turno a Bruxelles. Ma l’Unione era partita con richieste più restrittive: voleva un deficit all’1,6 per cento del Pil e si opponeva alle politiche espansive e di solidarietà volute dal governo.

E poi c’è stata la Francia: il commissario Pierre Moscovici ha subito approvato l’annuncio di un deficit al 3,5% per rispondere alla rivolta dei Gilet gialli.

La Commissione non poteva applicare due standard diversi. Ma davanti ai Gilet gialli, Moscovici ha avuto una reazione politica, non tecnica.

E come se la spiega?

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione anomala sul codice di comportamento della Commissione: ha accettato che i commissari si candidino alle elezioni europee mantenendo la carica. Io ho votato contro. Ne abbiamo già parecchi: Pierre Moscovici, Frans Timmermans, forse Margrethe Vestager. Moscovici è in campagna elettorale in Francia: non ha smentito la sua possibile candidatura. Si è non poco screditato.

Si poteva approvare la manovra senza il via libera della Commissione?

La procedura di infrazione sarebbe stata molto punitiva per gli italiani. È un bene averla evitata, senza però eliminare dalla manovra le misure cruciali. Queste politiche europee hanno prodotto una miseria che non si vedeva dal dopoguerra.

Non abbiamo alleati in questa sfida alle regole. Solo i Gilet gialli.

La Grecia non poté contare neppure sulle rivolte di piazza in altri Paesi. Juncker stesso ha ammesso che la dignità del popolo greco è stata calpestata dall’Unione. L’Italia ha potuto far tesoro di proteste ormai diffuse contro politiche che non producono crescita ma rivolta sociale, come i Gilet gialli o la Brexit che non è un capriccio nazionalista ma un voto popolare, anche se del tutto illusorio, contro l’austerità. Questa è un’Unione disgregata e l’Italia prova a fare qualcosa. Non entro nei dettagli della legge di Bilancio, ma a chi si scandalizza perché Di Maio vuole ‘abolire la povertà’, ricordo che Ernesto Rossi scrisse il libro Abolire la miseria, mentre lavorava al Manifesto di Ventotene.

Perché Macron, campione dell’europeismo, sta finendo così male?

L’europeismo è un guscio vuoto in cui puoi mettere quello che vuoi: il federalismo di Hayek per azzerare il peso dello Stato in economia o il Manifesto di Ventotene. Il prestigio di Macron è crollato in Francia ben prima che in Europa. Quel che difende è una dottrina economica confutata dagli studiosi sin dagli anni Settanta, secondo cui aiutare i ricchi sarebbe nell’interesse di tutti: il benessere “sgocciolerebbe” verso i non abbienti. La prima cosa che ha fatto è tagliare le tasse ai ricchi. E non ha funzionato.

La lezione dei Gilet gialli è che per cambiare politica economica serve la rivolta?

Solo politiche di bilancio più egualitarie possono prevenire insurrezioni. Dicono che il governo italiano è populista, ma il M5S è l’espressione parlamentare di quella protesta, il famoso ‘Vaffa’ equivale allo slogan dei Gilet: si autodefiniscono dégagiste, vogliono mandare ‘tutti fuori’. La democrazia rappresentativa come è fatta oggi non è in grado di fornire veri rappresentanti delle volontà popolari. Non a caso tutti questi movimenti chiedono strumenti di democrazia diretta.

E questa crisi della democrazia rappresentativa la preoccupa?

Sì. Ma è stato fatto di tutto per arrivare a questo esito. Oggi serve una riscrittura sociale delle regole, ma l’Unione punta i piedi. Draghi parla del pericolo del nazionalismo e del populismo e annuncia che ‘a piccoli passi si rientra nella storia’. Che vuol dire? Che il Fiscal compact, privo com’è di qualsiasi vincolo sociale, permette una felice uscita dalla storia, e di questo dovremmo esser grati?

Draghi ha spiegato anche che il mercato unico, l’euro, l’Unione sono legami che servono a prevenire nuovi disastri.

Ma quali legami? L’Europa si sta sfasciando, con l’Est che va da una parte, la Francia dall’altra, il Regno Unito fuori. Si discute di deficit eccessivo in vari Paesi, ma da anni il surplus commerciale in Germania supera il tetto consentito del 6 per cento, permettendole di drenare ricchezza dal resto dell’Unione, e nessuno dice niente.

Nella campagna elettorale per le Europee si parlerà di temi sociali o di migranti?

Spero che il punto forte sia il tema sociale da cui discende tutto il resto, inclusa la cosiddetta questione della migrazione. Sbagliava il ministro Minniti quando fece capire che sarebbe scoppiata una bomba sociale se non si fermavano gli arrivi e le operazioni di Ricerca e Salvataggio. È la bomba sociale che ha creato questa percezione del pericolo migranti.

Come giudica l’opposizione del Pd al governo?

Nefasta. Sventolano l’europeismo e poi s’indignano con chi vuol ricostruire l’Unione partendo dal sociale. E sul tema migranti sono gli ultimi a poter criticare: la politica di Minniti ha prodotto accordi con la Libia messi sotto accusa dal Consiglio d’Europa, dall’Onu. Salvini agisce in violazione delle leggi internazionali che vietano il respingimento di rifugiati, ma Minniti in questo lo ha preceduto.

Però ha funzionato: gli sbarchi sono calati.

Anche i campi di concentramento hanno funzionato. Gli sbarchi sono diminuiti e i morti in mare sono aumentati. Preferirei quasi che dicessero: ‘Li vogliamo morti in mare’. Almeno direbbero la verità.

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