Draghi e la necessità di un lockdown

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 16 febbraio 2021

La prima prova del governo Draghi, e la più urgente, riguarda il Covid e le varianti che stanno per prendere il sopravvento in tutta Italia (la variante inglese si sostituirà al virus circolante entro 5/6 settimane, ha detto il 13 febbraio Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Le varianti brasiliane e sudafricane cominciano a circolare).

Le nuove necessità sanitarie non consentono dilazioni, e si spera vengano esplicitate nel discorso programmatico che Draghi pronuncerà mercoledì in Parlamento. Il Comitato tecnico scientifico e i principali esperti chiedevano da giorni il rinvio della riapertura delle piste di sci, ma c’era la crisi. Alcuni consigliano un lockdown totale e immediato, scuole comprese. L’appello al lockdown viene da esperti indipendenti come il virologo Andrea Crisanti, e dal consigliere del ministro della Salute Walter Ricciardi. Ridurre la trasmissione del virus è oggi l’imperativo whatever it takes, a ogni costo.

Roberto Speranza ne ha tenuto conto, appena riconfermato ministro, e in accordo con Draghi ha deciso di prolungare la chiusura degli impianti di sci. Ma i segnali che arrivano dalla maggioranza sono inquietanti. Sia la Lega che Italia Viva s’indignano per l’ordinanza del ministro. Matteo Salvini, ospite di Mezz’ora in più, ha attaccato Ricciardi, accusandolo di “terrorizzare 60 milioni di italiani”: “Non mi va bene che questo consulente dica che bisogna chiudere tutto. (…) Visto che ci sono tanti scienziati che non la pensano come Ricciardi, mettiamoli tutti intorno a un tavolo e chi convince di più con numeri alla mano ha ragione. Non ne possiamo più di questo apri-chiudi continuo”. Quanto alla chiusura delle scuole, pochi ne vogliono sentir parlare, a cominciare dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e forse anche da Draghi, che nei giorni scorsi ha manifestato la sua preferenza: anno scolastico allungato sino a fine giugno, per recuperare il tempo, che probabilmente ritiene perduto e rovinoso per il Pil, della didattica a distanza (come se quest’ultima non avesse enormemente logorato professori e studenti).

In un articolo sul «Corriere della Sera» dell’11 febbraio, lo scrittore e fisico Paolo Giordano esprime una preoccupazione interamente condivisibile: che il discorso economico sia tornato a predominare su quello della sicurezza sanitaria, e che la concentrazione sul Recovery Fund e la crisi di governo “stia nella sostanza ‘assorbendo’ il discorso pandemico, relegandolo a un sottofondo, a un ipotetico normale”. Di qui la marginalizzazione degli esperti: la loro sovraesposizione mediatica, aggiunge Giordano, “li ha resi organici alla crisi, quindi più deboli nei messaggi”.

Anche se indeboliti, tuttavia, i messaggi scientifici restano lucidi, e smantellano gran parte dei discorsi consolatori o minimizzanti fatti dai politici. Innanzitutto – dicono – non è vero che le varianti aumentano la contagiosità ma non la letalità del virus. L’aumento vistoso dei contagi moltiplicherà esponenzialmente anche i decessi, come confermato da studi britannici. In secondo luogo non è vero che le scuole siano senza pericolo: è ormai acclarato che le varianti approfittano delle scuole aperte, infettando anche bambini e adolescenti, e tramite loro le famiglie e gli anziani. È il motivo per cui Regno Unito e Germania hanno chiuso le scuole, anche se le regioni tedesche decideranno in autonomia (Angela Merkel non ha convinto tutti i Länder: il che conferma quanto sia difficile anche in Germania il rapporto Stato-regioni). Infine, non è vero che le vaccinazioni garantiranno presto l’immunità collettiva: nell’intervallo, il rischio è grande che il virus “impari” – se la sua circolazione non viene drasticamente bloccata – ad aggirare la protezione vaccinale attraverso nuove e probabili mutazioni. Il lavoro così come impostato da Domenico Arcuri è prezioso e si spera che possa continuare e accelerare: comunque, è grazie a lui che l’Italia è oggi il Paese che vaccina di più in Europa.

Questo significa che fin da mercoledì, Draghi si troverà a dover scegliere, e ad annunciare misure molto più restrittive, come seppe fare Giuseppe Conte in occasione del primo lockdown generale. Non è detto che saprà o vorrà farlo. Perché la maggioranza così ampia che lo sostiene non favorisce coesione e rapidità di decisioni. Perché lui stesso non ha mai detto nulla di importante sul Covid in Italia (più di 74.000 morti in un anno e varianti che rendono inefficaci i vaccini: è qualcosa che subito dovrebbe neutralizzare le pressioni delle lobby economiche e i discorsi sul Pil). Se c’è una spesa da fare subito, è quella destinata al sequenziamento delle varianti Covid: un’attività per cui mancano fondi, come sostiene da dicembre il virologo Massimo Galli: “In Gran Bretagna il Covid-19 Genomics Consortium, che comprende le maggiori Università del Paese, è stato finanziato con 20 milioni di sterline e ha potuto realizzare oltre 50.000 sequenze genomiche del coronavirus, permettendo di identificare (la variante inglese), mentre in Italia i laboratori non hanno ricevuto supporto significativo. Da noi la ricerca è poco considerata anche quando servirebbe a dare risposte immediate per il controllo di una pandemia”.

Vale la pena ricordare che tra gli obiettivi di chi per mesi ha lavorato all’abbattimento del governo Conte, c’era anche quest’obiettivo: metter fine alle chiusure e agli allarmi, riaprire e ripartire. È da tempo l’opinione di Renzi, secondo cui “la politica ha abdicato nei confronti dei virologi, esattamente come abdicò negli anni 92-93 nei confronti dei magistrati e nei primi anni del decennio scorso nei confronti dei tecnici dell’economia” (discorso al Senato, 30 aprile 2020). Un’opinione che il centrodestra e le regioni da esso governate condividono.

Conte era sospettato di sottomissione al Comitato tecnico scientifico: è stato silurato anche per questo. Non è stato mai sconfessato invece dagli italiani, convinti dal suo coraggio. La sua popolarità va studiata, perché è venuta da un popolo che si è sentito al tempo stesso salvato e rovinato da lockdown e zone rosse. Il consenso di cui beneficia Draghi è costruito per adesso su parole dette in altri tempi e sul mito dell’italiano incensato all’estero, che giornali e tv amplificano smisuratamente. Per il momento ha poco a che vedere con la popolarità di Conte, per il semplice motivo che Draghi ancora non è stato messo alla prova, e che la crisi politica ha ridotto la pazienza e la vigilanza degli italiani.

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La fine delle grandi illusioni di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 30 ottobre 2020

Con molte settimane di ritardo, Macron ha finalmente annunciato mercoledì un secondo lockdown: era ora che lo facesse, considerato l’espandersi incontrollato del virus sin da luglio.

Era ora che la lunga e ottusa illusione finisse, anche se di essa permangono alcuni inquietanti frammenti: come quando il presidente assicura che “tutti in Europa sono sorpresi dall’evoluzione del virus”, o che il primo confinamento “aveva abbattuto (stoppé) il Covid”. Il lockdown sarà alleviato –non chiudono servizi pubblici, imprese, scuole, nidi, residenze per anziani; le università tornano a insegnare online – ma il colpo è duro. Ancor più duro dopo l’attentato islamista che ha ucciso tre cittadini in una basilica a Nizza, a tredici giorni dalla decapitazione a Conflans. La Francia fronteggia la doppia sciagura lockdown-terrorismo nel pieno della propria impotenza.

Il lockdown durerà fino al 1° dicembre (“come minimo”: il traguardo è 5.000 positivi al giorno). Ogni quindici giorni ci sarà una revisione: alcune attività potranno riaprire se i contagi scenderanno. Lo scopo – in Francia come altrove – è “salvare il Natale” e la sua manna consumistica.

Il ritardo dell’intervento francese è messo in rilievo da molti esperti. Il Comitato scientifico aveva consigliato già in estate di aprire gli occhi, con misure più drastiche o nuovi lockdown, e si era trovato alle prese con un Eliseo stizzito, e con un fronte mediatico che ripeteva il mantra: “Nessun altro confinamento, visto che non lo vogliamo”. L’11 settembre il governo dava assicurazioni perentorie in tal senso.

Nei giorni precedenti l’Eliseo si era scontrato con il presidente del Comitato scientifico, Jean-François Delfraissy, che di fronte alla progressione esponenziale del virus giudicava ormai insufficienti mascherine obbligatorie e test migliorati. Il capo dello Stato lo richiamò all’ordine, spiegandogli che non spetta ai tecnici ma solo ai politici prendere decisioni. Jean Castex, nuovo premier, offrì dunque misure blande. Il periodo di isolamento dei casi positivi passò da 14 giorni a 7. I laboratori in affanno furono invitati a esaminare solo i sintomatici. Si diffuse la notizia di un vaccino imminente (ieri Macron ha detto che non arriverà prima dell’estate prossima).

In un primo tempo furono quindi sconfitti sia il Comitato scientifico sia il ministro della Salute Olivier Véran, che preferivano chiusure radicali di bar e ristoranti nelle città da mesi sotto flagello. Il 5 ottobre furono chiusi i bar, ma non i ristoranti. Poi venne il coprifuoco, ma era troppo tardi. A Parigi chiunque ha potuto constatare nelle ultime settimane come i bar, fungendo anche da ristoranti, restassero sovraffollati: all’aperto e dentro, e di giorno prima del coprifuoco serale.

Il ritardo ha assunto forme di diffuso negazionismo ed è costato migliaia di morti, una situazione ospedaliera allo stremo, il quasi azzeramento delle terapie intensive a Parigi o Marsiglia, dove il virus aveva fatto un ritorno distruttivo sin da luglio-agosto. Macron ha dovuto ammettere mercoledì che in assenza di una nuova stretta, i “morti supplementari saranno 400.000 entro qualche mese”.

Il Comitato scientifico e i virologi più avvertiti hanno fortunatamente ripreso il sopravvento, anche se moniti e critiche permangono: l’epidemiologa Catherine Hill, ad esempio, ha denunciato dopo il discorso di Macron l’incapacità, immutata, di controllare le catene di contagio, di tracciare i contatti dei positivi, di testare rapidamente sintomatici e asintomatici. Posizioni simili sono paragonabili, da noi, a quelle di Massimo Galli o al verdetto di Andrea Crisanti (“Siamo al punto di partenza, i sacrifici degli italiani sono stati resi inutili. Il tracciamento si è sbriciolato”).

È un conforto che i verdetti deprimenti siano infine ascoltati. Chi ha vissuto ultimamente in Francia, specie a Parigi, era quotidianamente sbigottito: bar pieni zeppi, strade sovraffollate, mascherine portate controvoglia, come se indossarle fosse una fissa di indisponenti ipocondriaci. Se non ci sono stati episodi spettacolari come quelli italiani (Salvini o Sgarbi che si strappano la maschera) è perché il rifiuto era diffuso capillarmente in Francia, tra giovani e non giovani che non sono mai stati bene informati o il più delle volte hanno disdegnato ogni informazione. Ci sono voluti più di sei mesi per ammettere che il virus non si propaga solo attraverso le famose goccioline – come ripetono ancora tanti esperti in Italia – ma attraverso goccioline che evaporando diventano aerosol, cioè l’aria che respiriamo. Ci sono voluti più di sei mesi perché le mascherine divenissero obbligatorie anche nei luoghi aperti.

Ieri Macron ha respinto con giusti argomenti la strategia dell’immunità collettiva, ma più volte ne ha subito le lusinghe. La fece propria quando indisse le elezioni municipali, per ricredersi due giorni dopo e decidere il lockdown, o in estate quando mostrò fastidio verso l’allarme degli scienziati. Occorre “cavalcare la tigre”, era la parola d’ordine. Bisogna “vivere col virus”, ripeteva l’Eliseo quando s’accorse (senza ammetterlo) che il primo confinamento non aveva “stoppato” alcunché. Per l’ennesima volta è ora costretto ad abbandonare la grande illusione dell’immunità collettiva constatando che il trittico anti-Covid (testare-tracciare-isolare) si è, come dice Crisanti, sbriciolato.

L’Eliseo adotta adesso l’inevitabile lockdown, ma elementi cruciali tuttora mancano: un’analisi dei macroscopici fallimenti post-confinamento e l’ammissione che la tigre non può essere “cavalcata”, a meno di non accettare centinaia di migliaia di morti entro poche settimane.

Non per ultima, manca la coscienza che in tempi di pandemia e terrorismo non è davvero il caso di lacerare il Paese, e che dopo gli attentati di Conflans e Nizza occorrono parole di sostegno ai cattolici, ma anche di conciliazione con la vastissima comunità musulmana. La denuncia del terrorismo islamista dovrà prima o poi combinarsi con una presa di distanza sistematica dall’islamofobia.

Tornando più particolarmente al Covid: ogni volta che Macron ha abbandonato la chimera dell’immunità collettiva le cose sono andate un po’ meglio in Francia. Ma anche ora, come all’uscita dal primo lockdown, è del tutto assente una chiara indicazione su quel che occorrerà fare o evitare di fare dopo il 1° dicembre, sugli errori da non ripetere, sulle grandi illusioni di cui bisognerà sbarazzarsi, specie nelle vacanze di Natale quando strade e negozi torneranno ad affollarsi.

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Covid-19, i poteri forti battono cassa

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 7 luglio 2020

Uno dei primi compiti dello Stato è di proteggere la salute dei propri cittadini. È scritto nell’articolo 32 della Costituzione e nessun interesse privato può limitare tale diritto fondamentale. Sembra una constatazione ovvia ma non lo è affatto.

Appellandosi a speciali corti arbitrali, le forze di mercato (grandi corporazioni, big pharma, fornitori di servizi idrici o elettrici, investitori stranieri) possono far causa agli Stati quando ritengono che i propri profitti – presenti e anche futuri – siano lesi dalle misure anti-Covid adottate dai governi.

È la trappola che minaccia gli Stati, nel momento in cui tentano di riequilibrare i rapporti con il libero mercato. Sull’onda del Covid, del necessario lockdown, dello sconquasso dei sistemi sanitari, le autorità pubbliche scoprono di esser state troppo dipendenti dal mercato globalizzato, tornano a essere cruciali, provano a dettare condizioni più stringenti alle imprese che chiedono prestiti o aiuti (è avvenuto sia pure parzialmente nel caso del prestito a FCA).

Ma le multinazionali non sono sempre disposte a perdere i vantaggi di cui hanno goduto in quasi mezzo secolo di neoliberismo e privatizzazioni. Non rinunceranno a reclamare risarcimenti per i guadagni che sono venuti meno o che verranno meno. Non si priveranno facilmente del ruolo fin qui svolto – il ruolo padronale di “poteri forti”– come dimostrato dall’atteggiamento sempre più stizzito dei nuovi vertici di Confindustria. Resisteranno finché potranno alla combinazione delle due norme costituzionali: l’articolo 32 sulla salute pubblica e l’articolo 41 che garantisce la libera impresa privata ma stabilisce che quest’ultima deve essere “indirizzata e coordinata a fini sociali” e “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Così il Covid può divenire fonte di guadagni miliardari in modo del tutto legale. La via è quella dei contenziosi tra le big corporation e gli Stati, cui vengono chieste compensazioni per i mancati profitti in occasione del lockdown e di varie misure governative per far fronte alla catastrofe sanitaria. I tribunali commerciali ad hoc che si occupano di questi contenziosi portano il nome di ISDS: investor-to-state dispute settlement, e proteggono le multinazionali da espropriazioni indirette o trattamenti discriminatori del paese di accoglienza. L’Unione europea e il suo Parlamento hanno abolito i passaggi più oscuri del regolamento ISDS e gli hanno dato un nuovo nome: ICS, Investment Court System. È intervenuta anche la Corte di giustizia europea, nel marzo 2018, giudicando il sistema ISDS incompatibile con il diritto europeo. Tra Stati europei il vecchio ISDS non vale più ma molte storture restano, nei trattati commerciali e di investimento con paesi esterni allo spazio dell’Unione.

Resta la possibilità per ogni grande azienda straniera di ricorrere contro gli Stati ed esigere compensazioni, se considera non protetti i propri diritti. Così è previsto in una serie di trattati commerciali e di investimento negoziati negli ultimi anni dall’Unione europea (che sul commercio ha competenza esclusiva) per facilitare gli investimenti stranieri. Ecco qualche esempio: l’Australia è stata citata in giudizio da Philip Morris per una scritta “Il fumo uccide”; Veolia ha citato in giudizio la città di Alessandria di Egitto per aver portato il salario minimo da 41 a 72 euro; Vatten Fall ha fatto appello contro la Germania per nuove normative ambientali contro le centrali atomiche.

La riforma introdotta in occasione dell’accordo commerciale con il Canada (Ceta) introduce per la prima volta il diritto a fare appello contro le decisioni dei tribunali privati, ma con grosse limitazioni. Il tribunale d’appello potrà solo contestare l’interpretazione della legge, non cercare ulteriori prove o ascoltare nuovi testimoni o esperti. La giurisprudenza sarà inoltre vincolante per i casi legati all’accordo con il Canada, ma potrà essere contraddetta da centinaia di tribunali ISDS legati a altri trattati di investimento conclusi dagli Stati europei. Sono numerosi gli studi legali che assistono gli investitori stranieri in casi di risarcimenti. L’agenzia più quotata in Italia è la ArbLit. Il 26 marzo scorso, in pieno lockdown e mentre aumentavano i morti di Covid, l’agenzia pubblicò un articolo in cui si prospettavano attivazioni di cause risarcitorie “in conseguenza delle misure affrettate e mal coordinate” adottate dal governo Conte.

Negli Stati Uniti è attivo lo studio Shearman & Sterling, che in un recente rapporto sugli effetti economico-industriali della pandemia si dice “pronto a consigliare Stati e investitori in relazione a misure adottate dai governi nel contesto della pandemia Covid-19”. Tra le misure sotto accusa: sospensione dei pagamenti delle spese elettriche, controllo degli Stati sulla sanità privata per proteggere la salute pubblica (Spagna e Irlanda), produzione nazionale di ventilatori e equipaggiamenti medici (mascherine, guanti).

Un altro studio legale (Quinn Emanuel) sostiene che ampie compensazioni son dovute nei casi i cui gli investitori si sono sentiti espropriati in seguito a misure anti-Covid. Eguali domande di compensazioni possono essere fatte da parte di aziende costrette e produrre materiale medico. L’accusa potrebbe essere di “espropriazione indiretta e illegale”.

Ancora più grave, le aziende multinazionali potrebbero citare in giudizio gli Stati per i mancati pagamenti dei servizi idrici (lavarsi le mani di continuo è un indispensabile dispositivo anti-Covid), o per non aver prevenuto disordini sociali.

Per ora non sono ancora state attivate cause, e non tutti gli studi legali ricorrono alle parole minatorie di ArbLit. Shearman & Sterling è più prudente, e ammette che gli Stati hanno il “dovere e il diritto di proteggere la salute pubblica e la loro economia”. Gli studi legali si preparano ad affilare le armi, ma sanno che qualcosa sta cambiando: non sono più solo le destre estreme (i cosiddetti populisti) ma anche Macron e Angela Merkel a promettere la riconquista della perduta sovranità e indipendenza, nazionale ed europea. Non manterranno magari le promesse, ma è con questo nuovo linguaggio che si rivolgono ai cittadini cui hanno chiesto – e forse chiederanno ancora – i sacrifici del lockdown.

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La preminenza dello scienziato

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 2 giugno 2020

Non pochi scienziati europei di primo piano hanno consigliato ai governi un’uscita molto prudente dal confinamento, e continuano a farlo senza lasciarsi influenzare dalle scelte dei governi, dalle pressioni delle lobby economiche, dal desiderio diffuso di mettere tra parentesi il lockdown.

Non perché siano sicuri di una seconda ondata Covid, non perché disconoscano le esigenze dell’economia, ma perché osservano il perseverare della pandemia in Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, America Latina, o il suo riesplodere in Corea del Sud, e perché temono l’estendersi di una persuasione perniciosa e paradossale: il virus è alle nostre spalle, la pandemia è odiosa ma egualmente odiose sono le misure di cautela, visto che hanno limitato e limitano troppe libertà.

Hanno anche memoria delle passate pandemie. La Spagnola, ad esempio, cominciò con una prima ondata nel giugno 1918, seguita nell’autunno dello stesso anno da una seconda ondata cinque volte più grave e da una terza nel ’19, meno grave della seconda ma più forte della prima (il numero totale dei morti è incerto: fra 35 e 100 milioni).

Per tutti questi motivi gli scienziati sono sempre più considerati uccelli di malaugurio, anche quando non vantano certezze e sono dunque autentici scienziati. Guastano la festa della normalità ritrovata, usurpano la politica con i loro moniti (in Italia gli accusatori denunciano la “repubblica degli scienziati” paragonandola alla “dittatura dei magistrati”). Movimenti anti-lockdown e anti-mascherine sono sorti negli Stati Uniti, in Germania che pure ha contenuto il Covid meglio di altri, sporadicamente anche in Italia. Perfino i lavori di ricerca sono sotto attacco, quando i risultati complicano rapidi ritorni alla normalità. È il caso di Christian Drosten, prestigioso direttore dell’istituto di virologia all’ospedale Charité di Berlino, attaccato dal quotidiano «Bild» per uno studio sull’incidenza del virus nei bambini, pubblicato il 29 aprile. Drosten ha anche ricevuto un certo numero di minacce di morte.

Lo studio afferma che i bambini possono essere contagiosi come gli adulti, e che dunque la riapertura di asili e scuole elementari va gestita con la massima cautela. Il quotidiano ha reagito con indignazione, come se il virus fosse una colpa non imputabile ai bambini. Bollato come “scienziato star”, Drosten avrebbe sbagliato tutti i calcoli in maniera “poco pulita”. «Bild» fa campagna in favore dell’immunità di gregge. Si domanda addirittura se un “eccesso di igiene, come il continuo lavarsi le mani e l’uso di mascherine, non attenui le capacità del nostro corpo di resistere al virus producendo anticorpi”.

Uno dei motivi di quest’offensiva contro gli scienziati è il ruolo che hanno svolto durante la pandemia. Oltre a consigliare i governi vengono regolarmente convocati nei talk show televisivi, e per questa via influenzano anche il singolo cittadino. Sono divenuti più importanti degli economisti, e questo crea fastidio e desiderio che tornino a chiudersi nei loro laboratori.

Un elemento decisivo della loro influenza è la democratizzazione/circolazione della scienza. In epoche di urgenza la comunità scientifica si fa più accessibile, offrendo una “scienza aperta”. Nel dibattito pubblico non pesano più soltanto gli studi che ottengono, molto lentamente, la cosiddetta revisione paritaria (peer-review). Egualmente importanti sono oggi gli studi preliminari (pre-print studies), che attendono la valutazione dei pari. Lo studio di Drosten sulla contagiosità dei bambini è per ora un pre-print cui tutti possono accedere in internet, e questo ha innescato la campagna diffamatoria di «Bild».

La “scienza aperta”, detta anche cittadina, è una sfida per gli scienziati ma anche per i politici. Consente ai cittadini di conoscere meglio i pericoli pandemici e di esercitare un’autodeterminazione (la partecipazione al potere cui Amartya Sen dà il nome di empowerment) non sempre gradita ai politici e alle lobby economiche o farmaceutiche. Non c’è frase più ebete di quella pronunciata recentemente da Renzi: “Lo scienziato ti dice che c’è il coronavirus, il politico decide come affrontarlo”. È falso: se è indipendente, se dall’inizio ha preso sul serio il coronavirus non comparandolo all’influenza (le “sviste” sono state numerose in Italia), lo scienziato influenza anche i modi di combatterlo: consigliando i governi, continuando le ricerche di laboratorio, e illuminando i cittadini.

Come affrontare il virus, nelle fasi in cui i contagi calano? Gli esperti seri ammettono di non avere ricette definitive, e per questo è così importante che la “scienza cittadina” sia protetta da attacchi. La ricerca ci dirà se e come evitare nuovi lockdown generalizzati, concentrando gli sforzi sui rischi maggiori. Nei Paesi dove i contagi diminuiscono il virus non cessa infatti di essere una minaccia. Gli studi confermano che riesplode in precisi eventi di superdiffusione (superspread events), dove l’assembramento è intenso o la temperatura ambientale è bassa: nelle chiese (esplosione del virus a Francoforte e a Mount Vernon negli Stati Uniti), nei luoghi refrigerati di macellazione (nelle regioni del Nordrhein-Westfalen e Schleswig-Holstein), nei ritrovi chiusi, nei concerti in Giappone, in magazzini commerciali a Seul, in dormitori per lavoratori migranti a Singapore, nelle scuole in Israele. Gli stessi studi mostrano che il fattore R non basta, limitandosi a indicare una media di contagiati. Bisogna incrociarlo con un secondo parametro – il fattore K – che indica i modi di dispersione del virus e la sua attitudine a riesplodere “a grappolo” (cluster). I grappoli possono scatenare esplosioni anche se la media nazionale mostra che le persone contagiate dal singolo diminuiscono.

Una volta appurato che tali “eventi” restano pericolosi nei Paesi usciti dal lockdown, Drosten sostiene che bisogna ridefinire le politiche di contenimento concentrandosi su di essi: quando si scopre un contagiato, tutte le persone presenti all’evento vanno isolate prima ancora di testarle: “In questi casi i test arrivano comunque tardi. Conoscere i modi della dispersione facilita le riaperture che privilegiano la circolazione dell’aria”.

In attesa del vaccino, di farmaci risolutivi, di app funzionanti, il distanziamento fisico e l’igiene restano la precauzione basilare. Gli studi scientifici permetteranno ai governi di affinarla, e ai cittadini di difendersi con l’arma della conoscenza. Prendersela con le precauzioni equivale a togliere quest’arma a ciascuno di noi.

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Giustizia sociale per salvare l’Ue

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 26 maggio 2020

Fra non molto sapremo cosa succederà al Recovery Fund che Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno proposto il 18 maggio: 500 miliardi di euro per sostenere i Paesi più colpiti dal Covid-19, erogati sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti che aumenterebbero il debito e la dipendenza di Stati come l’Italia Sarebbe l’Unione a indebitarsi collettivamente sui mercati, accollandosi prestiti a lunga scadenza, rimborsabili sulla base delle quote di ripartizione previste nel bilancio europeo (i Paesi che più ne beneficerebbero non dovrebbero pagare di più). Grazie all’insistenza di Italia e Spagna la Merkel ha infine accettato il principio di un debito condiviso – fino a ieri un’eresia in Germania – ma basta un solo Paese membro per bloccare l’iniziativa: già ce ne sono quattro a opporsi (Austria, Olanda, Svezia, Danimarca) cui si aggiungeranno alcuni Paesi dell’Est.

Sicché il Recovery Fund vedrà forse la luce, ma ancora più smilzo (il fabbisogno indicato a suo tempo da Gentiloni era di 1.500 miliardi) e con una preminenza di prestiti condizionati.

Si dirà che questa è in fin dei conti l’Unione: un contratto revocabile, se c’è chi non si fida. Che le divergenze fra nord e sud non sono nuove, essendosi già manifestate sulla migrazione, quando Italia e Grecia furono lasciate sole a fronteggiarla e l’Unione rispose mettendo la politica d’asilo in mano a Turchia e Libia. Che toccherà adattarsi e accettare quel che offre la ditta (“col cappello in mano”) viste le rovinose condizioni in cui versano Paesi come l’Italia o la Spagna.

Si dirà tuttavia il falso, perché l’Unione non nacque per essere un contratto fra creditori e debitori, fra ricchi e impoveriti, fra vincitori e vinti. Nacque per evitare proprio questo rapporto di forze – la balance of power che regnò in Europa per secoli – e per scongiurare gli effetti della grande crisi del ’29: risentimento dei popoli, nazionalismi totalitari, guerra. La nostra Costituzione lo dice chiaramente, nell’articolo 11: la guerra è ripudiata, e le limitazioni di sovranità sono consentite alla sola condizione che assicurino “pace e giustizia fra le nazioni”. Oggi questa giustizia non c’è, la crisi economica derivata dal Covid viene equiparata da Draghi alle rovine della guerra, e l’Unione pur offrendo aiuti di vario genere tergiversa e agonizza.

Le parole usate in queste settimane occultano quest’agonia, essendo in genere false. Ne citeremo alcune.

Si annuncia ad esempio l’avvento di un piano Marshall, del tutto a sproposito. Gli aiuti all’Europa postbellica erano composti per oltre il 70% di donazioni, non di prestiti più o meno agevolati. Non meno sconcertante la seconda dimenticanza: il piano si inseriva in una strategia più vasta, che comprendeva il condono dei debiti europei, in prima linea tedeschi. La cancellazione dei debiti contratti dalla Germania fra il 1919 e il 1945 fu approvata nel 1953 nella conferenza di Londra. Tra coloro che rinunciarono alla riscossione c’era l’Italia, oltre a una ventina di altri paesi.

In qualche modo fu la vittoria di Lord Keynes, che fin dal primo dopoguerra aveva messo in guardia i vincitori del ’14-’18: le riparazioni chieste alla Germania avrebbero distrutto la giovane Repubblica di Weimar, ed equivalevano a uno strozzinaggio foriero di odio e guerre, come puntualmente avvenne con l’ascesa di Hitler. Con i suoi esitanti e lenti aiuti post-Covid, l’Unione sembra tornata non al secondo dopoguerra ma al primo.

Si parla di New Deal e Roosevelt, ma nulla di simile è in vista. Non una sistematica lotta alla povertà, non la solidarietà con le classi e le regioni più afflitte dal virus, non il superamento del dogma del laissez-faire, del mercato che aggiusta gli squilibri grazie alla non ingerenza e sottomissione degli Stati. Il Patto di stabilità è sospeso, non abolito. Poi ci sono imprese che addirittura chiedono allo Stato di garantire prestiti ingenti pur di poter versare agli azionisti i ricchi dividendi che hanno promesso (è il caso di Fiat-Chrysler, e ha fatto bene Andrea Orlando a indignarsene).

L’Unione è figlia del New Deal, del Piano Marshall, ma soprattutto del Welfare State: una protezione sociale universale concepita non dopo il riordino delle finanze nazionali ma nel mezzo della guerra, quando Churchill affidò a Lord Beveridge il compito di elaborare un piano che curasse alle radici il risentimento sociale sfociato nell’esperienza nazi-fascista. Beveridge è ricordato per il servizio sanitario pubblico e i sussidi ai disoccupati cui diede vita, e per la parallela militanza in favore di un’Europa unificata su queste basi.

Un’altra parola usata a casaccio è sovranismo, confuso con nazionalismo e antieuropeismo. Sovranità è l’indispensabile capacità di decidere presto nelle emergenze, e nell’Unione solo la Banca centrale la possiede, non senza difficoltà da quando la Corte costituzionale tedesca l’ha criticata con argomenti giuridicamente nefasti (il diritto europeo viene gravemente leso) ma non del tutto immotivati nella sostanza: la Bce – dice la sentenza del 5 maggio – non può avere come unico scopo i prezzi stabili, e dovrà meglio valutare gli effetti economico-sociali del proprio agire.

Alle prese con il Covid-19, l’Unione sembra aver perso forza centripeta, è lenta e tuttora fautrice di riforme strutturali che lungo i decenni hanno messo in ginocchio i nostri servizi sanitari. Quando New Orleans finì sott’acqua, nel 2005, Washington non disse che lo Stato della Louisiana doveva “far ordine in casa propria” prima di ricevere aiuti, come usa preconizzare l’Unione.

Gli unici che potrebbero muoversi sono i suoi cittadini, cui è stato affidato un ruolo determinante e assolutamente inedito durante il lockdown. Disciplinando se stessi, sono di fatto diventati i governanti della lotta al Covid. Lo spiega bene il filosofo Fabio Frosini, in un saggio pubblicato il 19 aprile nel sito Dinamopress, descrivendo la “mobilitazione totale della popolazione” generata da una pandemia gestita come guerra. Mobilitazioni simili possono generare ordini nuovi più giusti o disastri, a seconda. Dipenderà dagli Stati, dall’Unione, e dalla ridefinizione delle rispettive sovranità.

Il 10 aprile scorso, Giuseppe Conte annunciò che si sarebbe presentato al vertice europeo “con la dignità e la forza di un popolo”. Se l’Unione vuole riprendersi è da questa consapevolezza che potrà ripartire. Per citare ancora Keynes: dovrà abbandonare l’idea che la giustizia sociale sia un male, e l’ingiustizia una cosa utile per l’economia.

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Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 maggio 2020

Nella maggior parte dei paesi europei i governi hanno deciso un’uscita minimalista dal lockdown. La cautela è stata consigliata loro da esperti scientifici (virologi, epidemiologi, ecc.) e da importanti istituti di ricerca. Quando sono seri, e non si contraddicono con eccessiva frequenza, gli esperti hanno una sapienza specifica e uno sguardo lungo che i politici in genere non possiedono (tra gli esperti più prestigiosi internazionalmente: in Italia Massimo Galli; in Germania Christian Drosten, direttore dell’Istituto virologico nell’ospedale Charité a Berlino).

Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.

Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.

Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto R0 – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se R0 scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.

In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.

L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.

Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e R0) scenderanno significativamente.

Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al «Guardian». Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).

Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.

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