L’Altra Europa. A colloquio con Barbara Spinelli

Intervista di Vittorio Bonanni, «La Costituente», 01.2014

Barbara Spinelli è, senza tema di smentita, una delle firme più autorevoli e colte del giornalismo italiano. Nata a Roma il 31 maggio del 1946 dal padre Altiero e dalla madre, Ursula Hirschmann, è stata tra i fondatori del quotidiano La Repubblica, dal quale si è allontanata per passare prima al Corriere della Sera e poi alla Stampa, tornando nel 2010 a scrivere per il giornale di Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari.

Con quest’ultimo si è recentemente scontrata sui temi cruciali della politica italiana, come il rapporto con l’Europa, il giudizio sul governo delle larghe intese e la critica al discutibile operato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questa sua crescente insofferenza nei confronti di questo quadro politico deprimente l’ha spinta, come è noto, a farsi promotrice, insieme ad altri intellettuali, della lista “L’altra Europa con Tsipras”, con riferimento al leader del principale partito della sinistra greca Syriza, candidato alla presidenza della Commissione europea. Lista alla quale hanno poi aderito altre numerose realtà nate sui territori e legate a determinati problemi o conflitti, e partiti politici come Rifondazione comunista e Sel, che si sono così ritrovati per la prima volta, dopo la scissione, seduti allo stesso tavolo.

Con lei abbiamo ricostruito le varie tappe che hanno portato, dal dopoguerra fino ad oggi, alla costruzione di un’Europa purtroppo ben diversa da quella che avrebbero voluto i suoi genitori.

D. Per affrontare i drammi che tormentano l’Europa di oggi non si può non partire dal passato e dalle speranze insite nel Manifesto di Ventotene realizzato da suo padre Altiero, da Ernesto Rossi e da Eugenio Colorni, della cui diffusione si è occupata molto anche sua madre Ursula Hirschmann. Lì si parlava di un’Europa democratica, giusta e federalista. Ma nell’immediato dopoguerra quel progetto si è subito rivelato troppo avanzato per un continente diviso in due dalla Guerra Fredda (tanto che il Pci quel manifesto non lo sostenne) e con dei paesi importanti ancora sotto il tallone del fascismo, ai quali nel ’67 si aggiunse anche la Grecia. È stata insomma solo un’utopia, oppure può essere ancora oggi un punto di riferimento importante per la costruzione di un’Europa democratica?

R. Non è stata un’utopia, visto che una prima unione europea ha finito col nascere. È stata d’altronde facilitata dalla guerra fredda, perché le amministrazioni americane del dopoguerra hanno puntato con forza su un’Europa capace di reggersi sulle sue gambe, economicamente e politicamente. Il Piano Marshall, la conferenza sul debito del ’53, e l’approvazione dei primi passi nell’unificazione europea sono frutto di questa iniziale lungimiranza statunitense. Certo il progetto era più ambizioso: l’idea di una Costituzione europea, di un governo comune controllato democraticamente dal parlamento, di una lotta congiunta alla povertà, sono elementi portanti del Manifesto di Ventotene. Per questo non parlerei di utopia: un progetto politico ambizioso non è sinonimo di irrealismo. La cosa più realistica, meno utopica, era dopo il ’45 l’unificazione e l’abbandono delle sovranità nazionali assolute, dopo secoli di conflitti fratricidi nel continente e due guerre devastanti che avevano messo fine alla centralità dell’Europa nel mondo.

D. Il 25 marzo del 1957 vengono firmati i Trattati di Roma che istituiscono la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica. Sei anni prima, il 18 aprile del 1951, veniva creata a Parigi la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Si tratta delle prime importanti intese europee che tendono a definire il profilo di un continente uscito distrutto dalla guerra. Sono però tutte di carattere economico, poco attente alla dimensione politica. Possiamo considerarlo un peccato originale nella costruzione europea?

R. In parte è un peccato originale, aver cominciato dall’economia. Ma mettere insieme il carbone e l’acciaio, dunque quel che aveva permesso lo svilupparsi delle economie di guerra in Germania e Francia, era un disegno altamente politico. E Jean Monnet, che di quelle intese fu l’artefice, aveva ben chiara la finalità politica di quest’unificazione per tappe, che prendeva il via dalle basi economiche. Il vero peccato originale comincia il giorno in cui viene affossata, il 30 agosto 1954 dal parlamento francese, la Comunità europea di difesa (Ced): tanto grande era la paura, a Parigi, di un riarmo tedesco. È a partire da quel momento che il progetto di Comunità europea si restringe, divenendo essenzialmente e quasi solo economico.

D. Va tuttavia ricordato che quelle decisioni anticipatrici della creazione dell’attuale Unione Europea, si inserivano in un contesto continentale dove a farla da padrone era una politica keynesiana che aveva a cuore i diritti sociali delle persone. Invece gli ultimi atti dell’unità europea, con la creazione del Parlamento, della Commissione, della Bce e la realizzazione dell’euro hanno preso corpo mentre le politiche thatcheriane e reaganiane stavano prendendo il sopravvento, dando il via a quella “lotta di classe dopo la lotta di classe” come la chiama Gallino, funzionale all’attuale assetto europeo che tanti danni sta provocando. Un percorso inevitabile visti i rapporti di forza di allora e, a maggior ragione, di oggi?

R. È vero, in un clima keynesiano l’euro sarebbe nato con un piano di comune crescita, e anche di mutazione di tale crescita: di investimenti nell’economia del futuro, ecologicamente sostenibile. L’economia keynesiana ha lo sguardo più lungo delle dottrine economiche vigenti, perché si fida poco della capacità dei mercati di regolarsi e trovare i giusti equilibri con le proprie forze, senza interventi e iniziative pubbliche. L’euro poi è nato senza esser sorretto da un’unione politica. Una moneta unica e una Banca centrale che non “rispondono” a uno Stato sovranazionale creano per forza di cose squilibri, e attenuano negli Stati la coscienza che l’Europa vive solo se è una comunità solidale e sotto continuo controllo democratico.

D. Una domanda sulle Europee è d’obbligo. In Italia tutti noi che abbiamo sostenuto e creato la lista Tsipras speriamo in un suo successo, in consonanza con la probabile avanzata delle altre forze della sinistra d’alternativa in Europa. Ma senza una presa di coscienza dei grandi partiti socialisti – protagonisti insieme ai comunisti e anche alle forze della destra democratica pre-thatcheriana della costruzione dell’Europa postbellica – sulla necessità di rivedere i parametri europei sarà difficile cambiare concretamente qualcosa. Che cosa ne pensa?

R. Spero che i parametri decisi a Maastricht siano rivisti, e al più presto. Tutti li considerano ormai superati, tutti promettono o chiedono un’Europa diversa. Prodi li definì “stupidi” molto presto, Renzi li considera “anacronistici”. Ma nessuno si siede al tavolo per discutere come eliminarli, e quale piano alternativo mettere al loro posto. La lista Tsipras chiede proprio questo: che ci si metta finalmente a lavorare su un’alternativa. Che non ci si contenti delle parole, non si parli a vanvera di un’“altra Europa”, ma si passi finalmente all’azione, e a un’azione precisa: far rinascere, in Europa, la comunità e l’unione che non esistono più. Che sono diventate, anche esse, solo parole.

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