Gli strabismi sulla guerra in Ucraina

Lettera al direttore de «La Stampa», 15 settembre 2014

Caro direttore,

fin dal marzo scorso, Helmut Schmidt mise in guardia i governi europei e Washington, su Ucraina e Russia: troppo grande era l’«agitazione» occidentale. Troppo pericoloso mimare la riedizione della guerra fredda con Putin, troppo vasta l’ignoranza della storia e di quel che essa dovrebbe insegnare. Ci insegna che si entrò così nella Prima guerra mondiale: barcollando come ubriachi che non vogliono quel che fanno, ma lo fanno lo stesso. E si precipitò nella catastrofe anche quando le guerre furono volute, pianificate: quando Napoleone invase la Russia nel 1811-12, quando Hitler ripeté la spedizione nel 1941.

La terza guerra mondiale che oggi stiamo rischiando nasce dagli stessi vizi: incompetenza, forme di ignoranza militante, scarsa prudenza, infine sterile agitazione. Lo stato di concitazione cui allude l’ex Cancelliere ha come principale conseguenza la disinformazione su quel che veramente accade sul terreno, e responsabili sono quindi non solo i governi ma, forse in prima linea, la stampa. Mancano autentici reportage sull’Est ucraino (sul Donbass essenzialmente, regione industrial-mineraria a prevalenza russofona; sul pogrom antirusso a Odessa del 2 maggio; sull’aereo abbattuto della Malaysia Airlines); come mancano sul governo di Kiev e come è nato: non da moti di piazza filoeuropei (il famoso Euromaidan fu presto catturato da nazionalisti russofobi). Lo sguardo di giornali e governi è affetto da grave strabismo, mettendosi di fatto al servizio di chi vuole disseppellire la guerra fredda. «Fuck the EU!», disse a febbraio il vice segretario di Stato Victoria Nuland, e i dirigenti europei hanno eseguito, accettando di negoziare il futuro di Kiev con Mosca e anche con Washington, che con l’Ucraina ha poco a che vedere. C’è un tono, nella stampa mainstream, che ricorda l’euforica depravazione semplificatrice che Karl Kraus mette in bocca ai giornalisti, descrivendo la Prima guerra mondiale negli Ultimi giorni dell’umanità.

Di qui una serie di prese di posizione deliberatamente grossolane, in Europa. La guerra fredda ricomincia – dicono a se stessi i concitati – e grazie a essa abbiamo di nuovo un nemico: la Russia di Putin. Altro effetto nefasto: certi annunci intempestivi dei nostri responsabili. Federica Mogherini, appena nominata Alto rappresentante, comunica che l’accordo di partenariato Unione Europea-Russia, firmato nel ’97, «è finito per scelta di Mosca» (2 settembre, Parlamento europeo). Proprio quando si dovrebbe parlare con Mosca – quando la sua presenza nel G8 e il partenariato sarebbero utili – vengon chiuse le porte. Ci si compiace addirittura per la rapidità con cui l’Unione ha adottato le sanzioni. Anche in tal caso trascurando i costi pagati, non solo economici ma geostrategici. Barcollando in uno stato di ebbrezza diffusa. Il ritorno alla guerra fredda è uno strano miscuglio di ideologia, bisogno del nemico esistenziale, e assai precisi interessi economici (il desiderio di sviluppare l’estrazione di gas da rocce di scisto ad esempio, per ridurre la dipendenza dall’energia russa). Ideologia e interessi economici si appaiano sempre perfettamente.

Si appaiano anche all’illusione: che le sanzioni siano l’equivalente, e non il surrogato, di una politica vera. E, per i giornalisti: che un articolo sia ben fatto anche quando per ideologia o conformismo esamina una sola postazione. Gli occhi dovrebbero guardare in tutte le direzioni, in una guerra civile. Lo impone la prudenza, che resta la virtù di chi comanda e di chi narra gli eventi. Se politica è agire con cura e conoscenza nei conflitti che tormentano il nostro «estero vicino», a Est, non è politica quella che si sta facendo. Soprattutto non è politica europea, fin quando quest’ultima continuerà ad adeguarsi alla linea statunitense: una linea interessata a integrare l’Ucraina nella Nato (integrazione respinta dalla metà dei cittadini ucraini, dicono i sondaggi), e a restituire a Washington l’egemonia esercitata in Europa durante la guerra fredda.

Una politica che sia davvero europea non può esimersi dal compito di pensare finalmente i rapporti con la Russia, magari con atteggiamento severo ma capendo che la presenza ai suoi confini di forze della Nato somiglia molto a quella che fu la provocazione di Chruscev a Cuba, nel ’61-’62 («Non si mettono le dita negli occhi a nessuno», ha detto Prodi il 5 settembre). E significa, far politica, aver chiara in mente la natura attuale dello Stato ucraino, e la natura che esso dovrebbe darsi in futuro.

Se tale è il compito, almeno tre sono le cose da fare. Primo: riconoscere che siamo davanti a una guerra civile, dove le responsabilità non sono di un’unica fazione come pretendono diplomazie occidentali e Nato. Se Putin gioca sui nazionalismi etnici, allo stesso modo sta giocando, e in modo pesante, il governo ucraino. È l’opinione di Schmidt: contrariamente a quanto detto da Angela Merkel, in una frase attribuitale dal «New York Times», Putin non vive «in un altro mondo», ma «in questo mondo». Un mondo plurietnico, quello russo, che al contempo non può ignorare le proprie genti, se maltrattate negli Stati dell’ex Urss ora indipendenti. Né può essere estromesso dalla Crimea, che fu russa per secoli, fin quando Chruscev la «regalò» a Kiev nel ’54. Il porto di Sebastopoli, a Sud dell’Ucraina, è sede della Flotta del Mar Nero: permanenza sancita da un ventennale accordo russo-ucraino stipulato nel ’97, ed estesa nel 2010 per altri 25 anni.

Secondo: l’Unione deve prendere atto che la strategia di Kiev si avvale di milizie d’estrema destra, inserite nei propri apparati militari. Il caso più lampante è il battaglione Azov, armata neonazista che risponde direttamente al ministero dell’Interno. Su questa devianza tacciono l’Europa, gli Usa, la stampa mainstream.

Terzo: la strategia ucraina ha prodotto un numero allarmante di vittime civili nel Sud-Est ucraino, 260.000 sfollati interni e centinaia di migliaia di profughi che fuggono in Russia (secondo l’Unhcr, dall’inizio dell’anno più di 121.000 persone hanno richiesto lo status di rifugiato a Mosca, altre 138.000 hanno fatto domanda per forme di permessi di residenza, e sono in tutto ben 814.000 i cittadini ucraini russofoni che con status diversi si trovano ora in Russia). Nessuno, in buona fede, può credere che i fuggitivi siano tutti putiniani. Sono russofoni che si sentono perseguitati, declassati. Che hanno vissuto e temono ampie operazioni di pulizia etnica.

È una tragica ironia della storia che il modello di federazione su cui la nostra Unione è fondata – una convivenza di culture e lingue diverse che si rispettano l’un l’altra – sia proposto oggi non da noi europei, ma da Putin. È una tragedia mentale, oltre che politica.

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