Francesco Piobbichi: oltre l’antirazzismo etico

Giornate di studio del GUE/NGL

Firenze, 18-20 novembre 2014

Intervento di Francesco Piobbichi durante la sessione del 19 novembre, dedicata al tema “Reframing migration and asylum policies: from border surveillance to migrants and asylum seekers rights approach”.

Ho passato questi ultimi mesi in una zona di confine, e ho lavorato su vari elementi che in qualche modo possono essere utili al nostro dibattito sul tema delle migrazioni. L’elemento essenziale che ho capito stando a Lampedusa, è che quest’isola permette di cogliere direttamente alcuni significati che difficilmente emergono in altri contesti.Il primo è che Lampedusa è una terra di confine in perenne mutazione. Un confine che respinge o che accoglie, ma sempre un confine che marca le distanze tra “noi” e “loro”, tra ricchezza e povertà.

Raccontare Lampedusa dopo sei mesi di permanenza sull’isola significa anche, e soprattutto, raccontare come in questi anni sia cambiato il meccanismo e lo spettacolo della frontiera; significa raccontare di come il confine si sposti e si “delocalizzi” nel mare, e di come, una volta varcata la frontiera, i migranti se la portino addosso. Se nel 2011, a seguito delle Primavere arabe, l’isola è diventata un confine in “crisi”, dove l’emergenza è stata “messa in scena” dal governo Berlusconi,a dimostrare come si ferma l’invasione – dopo l’emergenza spettacolarizzata, ora Lampedusa muta nuovamente. Sarebbe impossibile raccontare questi mesi a Lampedusa senza considerare come l’operazione di “polizia umanitaria” Mare Nostrum abbia profondamente cambiato la vita dell’isola, “resa tranquilla” dalle navi militari che arrestano gli “scafisti” da un lato e “soccorrono” i profughi e richiedenti asilo dall’altro. Nel 2011 si sarebbe parlato di un’isola “invasa” dall’emergenza degli “sbarchi” dei “clandestini”, oggi si parla di “naufraghi soccorsi in mare”, un tema questo che però sta nuovamente cambiando a seguito dell’annunciata fine, di Mare Nostrum.

Se è innegabile che Mare Nostrum ha salvato migliaia di persone, e che la sua chiusura rischia di allungare la già lunghissima lista dei morti, è altrettanto vero che l’elemento costante in cui questa operazione si sviluppa riafferma la logica del confine che separa noi da loro, rinforzando nuove retoriche che depoliticizzano la questione migratoria, per poi inserirla in stancanti procedure burocratiche, rendendo ancora più debole, sul piano simbolico sociale, le persone che hanno avuto la fortuna di varcare il confine superando mari e deserti. Chi si salva insomma, subisce da subito un processo di svuotamento di un diritto soggettivo, che è quello di veder riconosciuto il diritto di asilo come accesso agli altri diritti esigibili. Si tratta di un processo che si manifesta immediatamente, nello stesso momento in cui queste persone entrano in contatto con il dispositivo della frontiera. Una volta accolto, il migrante incontra una serie di procedure che tendono a considerarlo un numero da inserire in una casella, in un sistema dell’accoglienza che prima etichetta e poi tende a degradare la dignità dell’accolto.

Non si potrebbe spiegare altrimenti il coincidere della fine di Mare nostrum con l’inizio di Mosmaiorum, che prevede l’identificazione forzata dei migranti. Questa contraddizione è secondo me dovuta a un elemento nuovo che compone le nuove migrazioni in Europa, che determinano una contraddizione insanabile in un continente che fin dalle origini le ha pensate come flussi di lavoro e non come questione legata al diritto dei rifugiati di richiedere asilo politico. Come ha ben descritto Alessandra Sciurba in un recente convegno tenutosi a Palermo, “il diritto di asilo è in contrasto con la logica politica del governo del,le migrazioni in Europa, che hanno sì un’impostazione economicista ma che al tempo stesso incorporano tale diritto”. Del resto è l’intero impianto giuridico occidentale ad essere costruito sulla carta dei diritti dell’uomo.

Nell’epoca dei conflitti asimmetrici che determinano migrazioni la cui composizione è quasi completamente di persone che fuggono da guerre e persecuzioni,“ la trasformazione dei richiedenti di asilo in vittime e naufraghi si riflette nel sistema di accoglienza che nasce come emergenza e poi svuota l’elemento politico portato da queste persone. Chi aveva scritto la convenzione di Ginevra non immaginava che la formalizzazione del diritto di asilo fosse agibile da milioni di persone, le istituzioni europee ed occidentali cercano di svuotare questo diritto con sfibranti procedere burocratiche, passivizzando o respingendo a seconda dei casi chi lo esercita. L’Europa non ha un’assunzione di responsabilità rispetto a un diritto per un sistema comune per il diritto di asilo, ma considera questo un fardello sul quale si litiga tra stati, come si è visto per la questione del mutuo riconoscimento del diritto di asilo”. Questo svuotamento del diritto di asilo, che quindi si registra nel dispositivo della frontiera esterna, si aggiunge a una strategia di governo delle migrazioni nella frontiera interna della fortezza europea, dove da decenni l’espansione del modello penale neoliberista sembra ricalcare quello statunitense, che punisce la povertà etnicizzandola. Un processo, questo, che autori come LoïcWacquanthanno bene identificato, individuando negli elementi di punizione dei poveri e dei marginali la modalità con la quale il neoliberismo governa la miseria.

Se è quindi vero che la questione dei diritti umani, e in particolar modo il tema del riconoscimento del diritto di asilo, apre una possibilità inedita di lotta e rivendicazione per le soggettività che contestano il processo che arma le frontiere, e se è altrettanto vero che questa contraddizione si apre nei paesi che da decenni intervengono militarmente sotto le insegne delle guerre umanitarie, è pur vero che questa battaglia, se non collegata a uno sguardo politico più generale, rischia di portarci in uno schema di ragionamento troppo ristretto. I processi migratori che ci troveremo ad affrontare nei prossimi mesi sono l’evidente frutto delle politiche neocoloniali che da decenni l’Occidente tenta di affermare attraverso la guerra. Nelle fratture delle placche economiche che si scontrano, dall’Ucraina all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, possiamo trovare la cornice che spiega oggi le nuove migrazioni, e questo nuovo modo di leggerle è un punto fondamentale. I dati dei flussi migratori ci dicono infatti che le migrazioni sono cambiate sia per effetto delle guerre che per effetto della crisi economica, che sta rallentando l’afflusso di chi si sposta per cercare lavoro.

Penso che la sinistra, in particolar modo quella del Mediterraneo, debba affrontare questa discussione evitando di utilizzare semplicemente uno schema di ragionamento classico che riflette sul fenomeno dell’immigrazione senza considerare il terreno della complessità in cui si esercita; occorre invece riposizionare i termini del problema all’interno della critica dei processi liberisti e della guerra, costruendo un nuovo spazio pubblico in cui far emergere una soggettività critica che di fatto oggi è assente. Sappiamo che oggi le guerre che stanno sconvolgendo la sponda sud del Mediterraneo sono diverse da quelle che abbiamo conosciuto, dovremmo forse analizzarle all’interno di nuove categorie, come quella del “caos ordinato”, o quella del “decisionismo occasionale”: resta comunque il fatto che oggi non possiamo eludere questo terreno di critica, che è anche e soprattutto terreno di ricerca e collegamento con le realtà che animano la sponda sud del Mediterraneo.

Ritengo che a partire da questi primi elementi vi sia una prospettiva comune da costruire, magari attraversando anche il Forum Sociale di Tunisi: una risposta che lega il terreno della giustizia sociale, della pace e della fratellanza come risposta al liberismo in crisi, che produce guerra e miseria. Non solo quindi proporre l’apertura di corridoi umanitari, criticare Dublino III e lavorare sul terreno dei diritti come elemento di rivendicazione, ma operare per una nuova visione geopolitica del Mediterraneo, nella quale mettere al centro il tema della giustizia sociale come fattore chiave per uscire dalla crisi, e criticareinsieme, dalla Grecia all’Egitto, i piani di aggiustamento del FMI e le dinamiche geopolitiche che producono le guerre, per affermare che una nuova internazionale dell’umanità contro il liberismo e la xenofobia ha ripreso il cammino. È chiaro che questo processo non dovrà avere uno sguardo eurocentrico ma dovrà invece essere pensato come spazio pubblico di confronto paritario con il versante sud.

Un altro elemento su cui riflettere è il modo in cui occorre operare nella nostra quotidianità. Recentemente abbiamo aperto un centro solidale di accoglienza in Sicilia;non sono mancate le contestazioni, sostenute da argomentazioni prive di fondamento ma in grado di diventare egemoniche tra la popolazione. La crisi è un luogo in cui la guerra tra poveri è un dato strutturale, e in questa dinamica le forze xenofobe hanno buon gioco per affermare i loro messaggi. Abbiamo lavorato togliendo ogni riferimento e categorizzazione, pensando alle persone innanzitutto, e aprendo la struttura anche ai bisogni del territorio. L’idea sulla quale ci siamo mossi è quella di lavorare su un elemento sinergico tra le azioni di solidarietà rivolte alle persone costrette a fuggire da paesi afflitti da guerre e persecuzioni, e persone che vivono in una situazione di crisi economica nel nostro paese. Molte delle attività del progetto, come la mensa interculturale, lo spaccio alimentare – che prevede sia una distribuzione di prodotti alimentari per le famiglie in difficoltà sia uno spazio dedicato ai gruppi di acquisto solidale – sono pensate per sostenere persone colpite dalla crisi tanto quanto le filiere corte di produzione agricola a chilometro zero, dando supporto agli agricoltori locali che si trovano in difficoltà.

Rivolti a tutti saranno anche gli sportelli sociali rispetto alla casa, alla cittadinanza e ai diritti, così come l’ambulatorio popolare, dove si pensa di avviare l’esperienza del dentista sociale per offrire cure odontoiatriche a quanti non possono permettersele. In tempi di crisi, il centro di accoglienza solidale di MediterraneanHope diventerà quindi un luogo in cui sarà possibile progettare e sperimentare nuove forme di solidarietà e di mutuo soccorso tra cittadini e nuove economie solidali, senza tralasciare l’elemento di arricchimento interculturale che strutture del genere possono avere. Su una modalità simile stanno lavorando alla Rimaflow, una fabbrica occupata dagli operai che ha inserito all’interno delle sue attività un centro autogestito per accogliere i migranti. Dello stesso segno, sono le occupazioni a scopo abitativo che si sono determinate in questi anni a Roma.

Penso che politicamente, nella riflessione che facciamo oggi, ci sia un grande assente: i sindacati – che pensano ancora come se fossimo negli anni Settanta. “Integrare” i migranti con il lavoro nei tempi del Jobs Act, mi pare un ossimoro su cui riflettere. Negli scorsi anni, con degli attivisti organizzammo un campo di accoglienza per braccianti a Nardò; da lì si generò il primo sciopero bracciantile organizzato da parte di migranti che vivevano in condizione di schiavitù. Con pochi strumenti e mezzi, riuscimmo ad ottenere molto dal punto di vista istituzionale e si aprì un processo contro lo sfruttamento nelle campagne. Penso che oggi il sindacato in generale debba provare a guardare a esperienze come quella di Nardò, o come quella dei facchini della logistica in lotta,come elementi di “integrazione”, superando il terreno dell’antirazzismo etico, ricercando invece la mutualità sociale tra lavoro e territorio, tra conflitto e solidarietà: quella matrice che si è smarrita nel tempo e che funzionò come elemento d’integrazione per i subalterni in Europa. Il primo slogan della Camera del Lavoro di Reggio Emilia fu: “Uniti siamo tutto, divisi siam canaglia”. Una frase, questa, che oggi sembra più attuale che mai per costruire una soggettività meticcia e transnazionale.

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