Geopolitica e lessico dei rifugiati

Palermo, 12-13 novembre 2015. Conferenza PACE E DIRITTI NEL MEDITERRANEO, promossa da Primalepersone e ADIF in collaborazione con il Comune e l’Università di Palermo, con il patrocinio dell’ANCI Sicilia ed il contributo del GUE/NGL.

Intervento di Barbara Spinelli

Vorrei concentrarmi su due temi generalmente poco trattati (e poco trattati per motivi molto precisi): il peso della geopolitica e delle guerre nella cosiddetta questione migranti, e l’uso distorto che viene fatto delle parole, quando parliamo delle odierne fughe di massa. Guerre e semantica del rifugiato, come vedremo, sono in stretto rapporto fra loro.

Comincio dal secondo punto – la semantica del rifugiato – perché la distorsione della realtà comincia con la stessa parola “migranti”, quindi con il sintagma “questione migranti”. Non c’è praticamente governo né forza politica che usi il vocabolo appropriato – “rifugiati” o “persone in fuga”, che corrisponde alla stragrande maggioranza degli arrivi – se si esclude Angela Merkel. Forse perché conosce bene la storia tedesca del secolo scorso, la Cancelliera  impiega regolarmente il termine corretto: Flüchtlinge, rifugiati. Si continua a parlare di migranti, perché così facendo si finge di non dover cambiare nulla e si evita di dire da cosa precisamente le persone scappano. L’ondata di arrivi continua a essere ascritta a una propensione migratoria classica e il suo straordinario incremento è visto come un’eccezione, un’emergenza: si tratta di fermare l’onda innalzando dighe dappertutto e spostando i flussi dei fuggitivi verso i paesi d’origine, quali essi siano (meglio parlare di flussi che di singole persone, come quando in economia si parla di fasce o strati della popolazione: dietro flussi e fasce i singoli individui cessano di essere più visibili). Anche onda o invasione sono parole da piazzisti di menzogne: l’arrivo di tanti profughi e migranti cambierà di certo il volto dell’Europa, ma resta il fatto che secondo fonti citate dal “Guardian” il numero di migranti e profughi arrivati in Europa nei primi mesi del 2015 costituisce appena lo 0,027% della popolazione totale dell’Unione. La maggior parte dei profughi – l’86% – è accolta da paesi in via di sviluppo, secondo l’UNHCR.

Nella mia attività di parlamentare europea, constato come nelle varie decisioni della Commissione e del Consiglio europeo – specie in quelle sui rimpatri – stiano svanendo, progressivamente, tutti gli accenni al rispetto delle Convenzioni internazionali sui rifugiati, al diritto del mare che prescrive la ricerca e il soccorso dei naufraghi, al necessario rispetto dei diritti iscritti nella Convenzione europea dei diritti umani e nella Carta europea dei diritti fondamentali. Si giunge perfino a qualcosa di assolutamente inedito nel diritto internazionale: diritti che sono incondizionati, che spettano alla persona umana quale che sia il contesto in cui essa vive – diritti inviolabili che la nostra Costituzione ad esempio non concede ma “riconosce e garantisce” come preesistenti la stessa Carta – vengono d’un tratto concessi, e solo a determinate condizioni, come fossero dati in prestito.

È quanto ha fatto capire Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, in un intervento del 27 ottobre a Strasburgo. In quell’occasione, riferendosi all’obbligo di registrazione e prelievo di impronte digitali nei paesi d’arrivo, ha proferito una singolare minaccia: “No registration, no rights” – senza registrazione, niente diritti. In altre parole, esistono diritti (a non subire violenze nelle registrazioni e nel prelievo delle impronte digitali, al non refoulement, al rispetto stesso della vita) che vengono accordati sub condicione anziché riconosciuti e garantiti senza riserve. Questo non solo per chiudere meglio le porte d’Europa, ma per evitare che le politiche dell’Unione cambino: tutto deve restare com’era ai tempi in cui le migrazioni erano essenzialmente economiche, e la figura del profugo non era ancora preminente o era ben inserita – come vedremo – negli schemi della guerra fredda. Le menti si paralizzano, il perché del fenomeno non viene cercato, e non viene cercato deliberatamente perché appena lo cerchi e lo trovi è inevitabile che le nostre responsabilità vengano alla luce.

La stessa Convenzione Onu di Ginevra sullo statuto dei rifugiati impiega un linguaggio che ha fatto il suo tempo e andrebbe riformulato, ma ampliarlo significherebbe ammettere due cose: che siamo davanti a una nuova realtà rispetto al 1951, quando fu siglata, e che le parole del trattato non sono più sufficienti. La Convenzione fu scritta ai tempi della guerra fredda, oltre che in ricordo dell’occupazione nazista d’Europa, quando i fuggitivi provenienti da regimi dittatoriali venivano molto facilmente accolti dal mondo che vedeva se stesso come obbligatoriamente libero (basti evocare i boat people in fuga dalle guerre del Vietnam e del Laos negli anni ’70 e ’80). È più che mai urgente rivedere la Convenzione, perché essa garantisce rifugio quando esiste “il ben fondato timore di persecuzione a causa della propria razza, religione, nazionalità, partecipazione a determinati gruppi sociali o opinioni politiche”. È ancora del tutto esclusa la fuga necessitata in misura crescente dal caos creato dalle guerre, dai disastrosi piani di riaggiustamento imposti dal Fondo monetario ai Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, e in prospettiva dalle catastrofi climatiche che incombono.

Le storpiature ricorrenti di altre parole sono diretta conseguenza di quest’originaria distorsione sulla figura del migrante-profugo. Tra le molte storpiature, ne cito una esemplarmente nefasta. Si parla dalla scorsa primavera di lotta allo smuggler, ovvero trafficante, perché ancora una volta la distorsione semantica ha come scopo quello di occultare l’origine vera della fuga in massa verso l’Europa e l’occidente, e di giustificare la strategia di respingimento alle frontiere, rinominata politica di rimpatrio perché il respingimento è proibito dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non è un caso se nella lingua francese la parola refoulement, respingimento, ha un significato anche in psicanalisi: significa rimozione.

Lo smuggler è parola acchiappatutto (in Miti d’oggi, Barthes usa l’espressione “parola-mana”) dietro cui si celano figure di vario tipo. Può essere il profittatore che sfrutta il fuggitivo, estorcendogli denaro contro la sua volontà, minacciando l’uso della forza e la frode: è il trafficante. Ma può anche essere il facilitatore della fuga, che evidentemente si fa pagare e agisce nell’illegalità, ma con il consenso del fuggiasco. Il trafficante vero e proprio non sta in genere nei barconi fatiscenti o nei camion che trasportano i fuggitivi: accumula i suoi guadagni ben lontano dalle rotte di fuga. Quel che lo caratterizza, secondo le definizioni dell’Onu, è la violenza esercitata sulla persona, che contro la sua volontà diventa oggetto di traffico o di tratta. Anche lo smuggler-aiutante agisce illegalmente, e può giungere sino a sfruttare la condizione inerme del fuggitivo (facendosi pagare ogni servizio in più, a cominciare dai salvagenti), ma il suo ruolo è spesso quello di organizzatore delle fughe. La distinzione era chiara durante il nazi-fascismo o nei paesi comunisti (soprattutto in Germania Est). Nella Germania nazista e poi in quella comunista i facilitatori venivano chiamati, dai paesi che si predisponevano all’accoglienza dei profughi, “aiutanti nella fuga”, Fluchthelfer (in francese: passeur). Era il regime comunista tedesco a definirli “trafficanti”, accusandoli di commettere reato.

La maledizione di oggi è che tutti vengono criminalizzati allo stesso modo – trafficanti, smuggler, aiutanti, facilitatori, spesso sospettati di mescolarsi con terroristi – perché il mondo cui si tende è una sorta di globale amministrazione unica, che ideologicamente esclude “fuoriuscite” e di conseguenza spazi di accoglienza. Ogni distinzione cade e la guerra allo smuggler è presentata – dai responsabili dell’Unione come dai governi – come soluzione principale per fermare gli esodi verso l’Europa e l’Occidente, fingendo di ignorare che la figura del trafficante appare e si impone quando c’è un vuoto di legalità nelle possibilità di fuga. Non sono gli smuggler che incitano con la forza le persone a mettersi in cammino e scappare. Solo col loro aiuto è possibile per il fuggiasco arrivare in Europa e chiedervi asilo – imboccando strade impervie e spesso con documenti necessariamente falsi. Se non trova lo smuggler, non resta lì dov’è. Trova il modo di procurarsi il primo mezzo di locomozione disponibile: meno costoso, e ancora più insicuro dei già infidi mezzi precedenti. Per questo dico che chi si rifiuta di aprire vie legali di fuga da guerre, dittature o disastri climatici, concentrandosi invece sulla guerra indiscriminata allo smuggler, contribuisce alla morte di persone umane e ne porta la colpa.

Il vocabolario che usiamo è decisivo perché solo con le parole giuste possiamo capire il significato della presente fuga in massa di popoli. Fuga da che? Da chi? Solo rispondendo a queste domande siamo in grado di individuare quello che conta: le responsabilità primarie dell’esodo cui stiamo assistendo. Quelle responsabilità sono essenzialmente europee e statunitensi: alludo in particolar modo alla politica euro-americana in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, e prima ancora in ex Jugoslavia. Ponendo la questione essenziale – fuga da che? – entriamo nella seconda parte del mio discorso: la parte geopolitica. La geopolitica delle guerre e delle dittature, e anche la geopolitica interna all’Unione europea.

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Per chiarire cosa sia geopolitica – o geostrategia – vale la pena ricostruire la genesi del termine. Nacque alla fine dell’Ottocento per definire nella sua dimensione spaziale l’azione di politica estera delle grandi potenze. La posta in gioco è l’appropriazione di spazi geografici contesi da altre potenze: l’appropriazione di un Lebensraum o di territori da sfruttare economicamente. Spesso si dice che siamo alle prese, non solo in Europa, con una “guerra ai migranti”. In realtà le fughe di massa e le migliaia di morti in mare e su terra sono il danno collaterale di una serie di guerre che l’Occidente ha scatenato per ragioni geopolitiche in Afghanistan, Iraq, Libia, e prima ancora in ex Jugoslavia: tutte regioni dove ha provocato, e presentato come soluzione, il tracollo delle strutture statali e la loro settarizzazione, etnica o religiosa. In altre occasioni l’Occidente ha acuito i conflitti appoggiando l’Arabia Saudita: è il caso dello Yemen. In altri casi i profughi sono vittime di dittature che l’Unione non solo tollera ma favorisce, come in Eritrea. La dittatura dell’Eritrea viene addirittura finanziata dall’Unione (e così dicasi per i vari paesi del “processo di Khartoum” di cui si è parlato al vertice europeo di La Valletta) nella speranza che il despota Afewerki trattenga i propri fuggitivi, in galera o nei campi.

È qui che il discorso geostrategico e la semantica dei rifugiati si congiungono. Abbiamo visto come il nome più corretto da dare a chi approda in Europa non dovrebbe più essere quello di migranti, o ancor meno migranti illegali, ma di rifugiati: la percentuale dei cittadini aventi diritto a protezione, sugli arrivi illegali via mare in Europa, è stata quest’anno del 75 per cento, secondo l’Economist, in provenienza soprattutto da Siria, e da altri paesi in guerra o sotto dittatura. Ma in realtà dovremmo essere ancora più precisi e chiamarli col nome che ha dato loro James A. Paul, ex direttore esecutivo del Global Policy Forum a New York. Il nome che dovremmo sistematicamente usare per i siriani, gli iracheni, i libici, gli afghani, è regime change refugees, rifugiati nati a seguito della politica di regime change, ovvero della cosiddetta esportazione della democrazia che ha caratterizzato il disordine unipolare a guida Usa nel dopo-guerra fredda. È un’espressione che i governi occidentali non useranno mai perché – spiega James Paul – “l’aggressiva bestia nazionalista dell’establishment dei paesi ricchi non è disposta a imparare la lezione, e a prevedere la vampa di ritorno scatenata da futuri interventi militari”. Eppure le cose sono chiare: la strategia militare del regime change in Afghanistan, Iraq, Libia, ha prodotto caos e Stati falliti, ha dato vita e forza all’Isis. Nonostante i fallimenti successivi l’esperimento è ricominciato tale e quale con la grande illusione delle primavere arabe, illusione che a partire dal 2011 ha ingenerato la campagna per abbattere Assad, mentre l’Isis e le forze siriane di Al Qaeda hanno anzi ricevuto finanziamenti Usa. La perversione massima è stata raggiunta nella scelta degli alleati. La campagna in Afghanistan è stata condotta con l’aiuto del Pakistan, quella in Siria con l’aiuto dell’Arabia Saudita: i due Stati principali da cui provengono – fin dall’11 settembre 2001 – i dirigenti sia di Al Qaeda, sia dell’Isis. Anche in Yemen, la massima preoccupazione statunitense è stata di spalleggiare l’Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana.

Il 28 settembre, due giorni prima di intervenire militarmente in Siria, Vladimir Putin ha detto all’assemblea dell’Onu: “Quel che chiedo a tutti coloro che hanno creato questa situazione è: vi rendete almeno conto ora di quel che avete fatto? Temo però che la domanda non riceverà risposta, perché i responsabili non hanno mai abbandonato la loro politica, basata com’è sull’arroganza, l’eccezionalismo e l’impunità”. È difficile dargli torto. Ancora non sappiamo l’esito della sua campagna in Siria. Ma una cosa pare certa: l’egemonia Usa e il suo disordine unipolare sono falliti, lasciando in eredità caos e disperate fughe di popoli.

Molto si potrebbe ancora dire sui rifugiati figli del regime change, o sulle dittature che l’Europa riunita a Valletta ha promesso di coprire di doni pur di esternalizzare la politica di asilo. Ma prima di concludere, vorrei fare un accenno alle questioni geopolitiche interne all’Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003, è ormai chiaro che l’Unione è divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede se stessa come vittima della storia ed è del tutto priva di complessi su guerra, pace e autoritarismo. Non che la prima sia aperta ai rifugiati. Ma c’è un vasto arco, a Est, che sembra del tutto ignaro della Carta Europea dei diritti o delle Convenzioni Onu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce muri e impedisce ogni passo avanti sulla questione. Parlo della Polonia in prima linea – visto il peso politico che ha nell’Unione – e della Repubblica Ceca, della Slovacchia, dell’Ungheria, dei Baltici. Aver allargato l’Unione a questi paesi, senza porre condizioni stringenti e ridiscutere i rapporti dell’Europa con la Nato, si sta rivelando una sciagura da molti punti di vista. La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazione dei rifugiati, ad accettare i piani di ricollocazione.

Il governo slovacco accetta un certo numero di siriani, ma a condizione che siano cristiani. Affermazioni simili sono venute dal governo polacco precedente la vittoria di Jarosław Kaczyński. L’Ungheria costruisce muri e agita lo spauracchio una società multietnica. Nei paesi baltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia la minoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali. Ma il peggio ce lo ha riservato Donald Tusk, già Premier polacco, oggi Presidente del Consiglio Europeo: in meno di dieci giorni, ha pronunciato frasi indegne della carica che ricopre. Il 13 ottobre, in una lettera ai colleghi del Consiglio europeo, ha scritto: “La facilità eccezionale con cui si entra in Europa costituisce uno dei principali pull factor” per migranti e profughi. Ricordo che lo stesso argomento fu usato per l’operazione Mare Nostrum. Secondo i responsabili europei rappresentava anch’essa un’esca, un pull factor: salvava troppe persone, e fu affossata per esser sostituita da Frontex, che non fa più proattivamente Search and Rescue.

Nella stessa lettera, ha auspicato un tempestivo accordo con la Turchia sui rimpatri. È la parola d’ordine del momento – la Turchia ci salverà, diventerà il nostro partner privilegiato – questo proprio nel momento il cui Erdogan sta stabilendo un regime liberticida, e colpendo i curdi in Siria e Iraq con la scusa di combattere l’Isis in nome della Nato. Tusk fa capire che bisognerebbe dare qualcosa a Erdogan anche sul piano geostrategico: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenere la formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Mosca rifiuta”. Dovrebbe rifiutarla anche l’Unione, ma i suoi dirigenti non si pronunciano. In realtà, la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria. Il 22 ottobre, al Congresso del Partito popolare europeo di Madrid, il Presidente del Consiglio UE ha rincarato la dose: “Dobbiamo smettere di far finta che il grande flusso di migranti sia qualcosa che noi vogliamo, e che stiamo conducendo una politica intelligente di frontiere aperte. La verità è diversa: abbiamo perso l’abilità di proteggere le nostre frontiere, e in questo senso la nostra apertura non è una scelta cosciente ma è la prova delle nostra debolezza”.

Così procede l’Europa – fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza, distorcendo a piacere le parole e le cifre, seguendo passo dopo passo il fallimento della politica statunitense come un cagnolino addomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, verso nuove guerre e nuovi esodi di popoli.

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