Sardine, cosa non va nel programma

di martedì, Dicembre 17, 2019 0 Permalink

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 17 dicembre 2019

Sabato a San Giovanni le Sardine hanno annunciato il loro programma, non economico né sociale, ma incentrato quasi interamente sulla comunicazione e sull’uso nonché controllo dei social network.

Essendomi occupata di questo tema nella scorsa legislatura europea, come relatore della risoluzione dell’aprile 2018 sul pluralismo e la libertà dei media nell’Unione europea, non posso fare a meno di esprimere disagio. Ricordo che le principali obiezioni a una piena libertà dei media e a un più scrupoloso rispetto del diritto internazionale sono venute – durante i negoziati che ho condotto con i vari gruppi del Parlamento prima che la relazione venisse adottata – dal Partito popolare, dai Conservatori e da buona parte dei Socialisti e dei Liberali. Le obiezioni non mi hanno permesso, tra l’altro, di mantenere nella sua integralità il paragrafo sul reato di diffamazione, di cui chiedevo la depenalizzazione.

Meglio dunque i silenzi e il vuoto di messaggio delle prime manifestazioni di piazza che la nuova Costituzione distopica “pretesa” dalle Sardine (ma da chi, fra le Sardine?) nei 6 punti indicati a San Giovanni. Eccoli elencati, in ordine di gravità.

Il numero 5 (“La violenza verbale venga equiparata a quella fisica”) non resisterebbe al giudizio di nessuna Corte: internazionale (Onu), europea o nazionale. Da anni – e soprattutto dall’inizio delle guerre contro il terrorismo – le Corti discutono e sentenziano su quale violenza sia condannabile, nei media offline e online: i verdetti invariabilmente e puntigliosamente separano la violenza verbale da quella fisica, pur fissando alcuni paletti molto ben definiti alla violenza verbale (in sostanza: la violenza che prelude inequivocabilmente a IMMINENTI violenze fisiche). L’equiparazione è un temibile novum giuridico, da evitare a tutti i costi e in tutte le sedi. Il reato di diffamazione, criticato da diverse Corti europee e internazionali che raccomandano di sostituirlo con l’imputazione di illecito amministrativo, viene rafforzato.

I numeri 3 e 4 promettono male, contaminati come sono, e forzatamente, dal numero 5 che introduce il novum giuridico sulla violenza. Il numero 3 pretende “trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network”. Il numero 4 pretende che “il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti”. Si profila l’aspirazione a un vasto controllo/soppressione dei media e dei loro contenuti, soprattutto online. Tutto quello che viene ritenuto violento (da chi? Da quale istanza?) è passibile di azioni che limitano la libertà di diffondere e ricevere informazioni.

Il numero 6 pretende l’abrogazione dei decreti Sicurezza. È l’unico punto veramente sensato, ma se la pretesa sulla violenza contenuta nel numero 5 (applicata in vari ambiti: media online e offline, manifestazioni pubbliche etc.) viene inserita nei decreti riscritti, è meglio forse tenersi quelli di Salvini.

Il numero 2 (“Chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali”) blinda le oligarchie e non le obbliga, come invece queste dovrebbero, a comunicare tous azimuts, anziché solo nei canali istituzionali. La comunicazione limitata le protegge da ogni sorta di attacco esterno, rinchiudendole in un recinto separato.

Il numero 1 recita: “Chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare”. È immaginabile che si faccia qui riferimento alle attività non istituzionali di Salvini ministro dell’Interno. Ma la pretesa viene generalizzata e ha un suono inquietante, soprattutto se legata al numero 2.

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