Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

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Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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Democrazie decidenti e vecchie trappole

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 maggio 2023

Prima di discutere la riscrittura della Costituzione, l’opposizione farebbe bene ad approfondire quel che Meloni intende quando elogia la “democrazia decidente”, e a chiedersi quali siano le radici di alcuni concetti a essa perversamente legati.

Il concetto di stabilità e governabilità innanzitutto, indicato come prioritario a partire dal 1975, quando tre studiosi incaricati dalla Commissione Trilaterale (Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki) pubblicarono un pamphlet – La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie – con l’intenzione di rispondere ai movimenti che nel ’67-’68 si erano battuti per democrazie più estese e contro la guerra in Vietnam, spaurendo le classi dirigenti.

La risposta che aveva dato Willy Brandt, quando divenne Cancelliere nel ’69, fu tutt’altro che gradita a queste classi, decise a prendersi una rivincita non solo sul Sessantotto e sull’opposizione alle guerre Usa, ma su tutti i Paesi che vantavano Costituzioni antifasciste. “Vogliamo osare più democrazia”, aveva detto Brandt. Non era la Controriforma pensata per sottomettere i protestanti del ’67-’68. La Trilaterale (un Concilio di Trento composto da Usa, Europa e Giappone) infine prevalse, con conseguenze che tuttora soffriamo.

Secondo i tre propagandisti della Trilaterale, l’ingovernabilità nelle democrazie era dovuta a un “eccesso di democrazia”, che andava eliminato “ripristinando il prestigio e l’autorità delle istituzioni del governo centrale”. Era nata la parola d’ordine del governo forte che abbassa i poteri dei Parlamenti, tiene a bada le classi popolari divenute “classi pericolose”, riduce le tutele sociali. Le Costituzioni andavano adattate a queste esigenze. Va ricordato che il Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli fu redatto subito dopo il pamphlet sulla Crisi della democrazia e che gli “eccessi democratici” sotto accusa sono, oltre al Sessantotto, i movimenti contro la guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate che travolse la presidenza Nixon.

A partire da quel momento prende quota il farmaco salvavita chiamato democrazia decidente, caro alla Meloni: un concetto che riecheggia le invettive ottocentesche di Donoso Cortés contro i Parlamenti dediti alle chiacchiere (clasas discutidoras) e prive di “cultura del fare”. L’invettiva di Cortés verrà ripresa da Carl Schmitt, giurista vicino a Hitler. Ma l’offensiva non si ferma qui: a riproporre la democrazia decidente, dopo la crisi dell’euro, fu l’alta finanza. Nel suo mirino: i Paesi sudeuropei – Italia, Grecia, Spagna, Portogallo – dichiarati instabili e inetti perché dotati di Costituzioni antifasciste.

Chi imboccò più spudoratamente tale sentiero fu la grande banca d’affari JP Morgan, che il 25 maggio 2013 pubblicò un Rapporto che rispolverava la ricetta della Trilaterale (poco prima alle Politiche il M5S aveva ottenuto il 25,5%: i populisti andavano fermati!). Riportiamo il passaggio chiave del Rapporto: “I sistemi politici della periferia sudeuropea sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le loro Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo [il corsivo è mio]. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

L’assalto alla Costituzione antifascista non è dunque appannaggio esclusivo di comparse come La Russa. Ha ramificazioni nei poteri forti che dominano i mercati e traggono profitti dalle guerre Nato (non solo Ucraina). I talk show che denunciano fascisti col braccio teso farebbero bene a indagare invece su riforme decisioniste che vogliono far proprie le “buone pratiche di governance” preconizzate da JP Morgan.

Nel suo ultimo libro (Tempi difficili per la Costituzione) Gustavo Zagrebelsky ritiene ideologica e pretestuosa la “Grande Riforma” istituzionale desiderata da Bettino Craxi (e Giuliano Amato) e critica l’odierno servilismo degli intellettuali (aggiungerei i giornalisti): non indipendenti, ma “arredo e, se si vuole, corredo del potere”.

I fautori della “democrazia decidente” non si limitano a prospettare riforme che migliorino la funzione dell’esecutivo (a esempio la sfiducia costruttiva tedesca, che impone a chi vuol sfiduciare i governi la contemporanea fiducia a una maggioranza alternativa). Aspirano ai modelli francese e statunitense, prediligendo la V Repubblica di De Gaulle introdotta nel 1958 e perfezionata nel 1962 con l’elezione diretta del presidente. L’obiettivo è l’abbassamento del Parlamento, del potere giudiziario e della Presidenza super partes, che sarebbe neutralizzata o liquidata, divenendo emanazione della maggioranza. Un effetto ottenibile sia con l’elezione diretta del presidente, sia con quella del premier: l’esecutivo ha comunque da prevalere, e l’equilibrio di Montesquieu tra poteri distinti svanisce (“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”).

Perché la controriforma riesca bisogna riscrivere anche la storia. È quello che fanno gli avversari della Costituzione, quando nascondono il doppio naufragio del presidenzialismo statunitense – oggi alle prese con due candidati inetti come Trump e Biden – e di quello francese. Uno degli aspetti più stupefacenti dei nostri dibattiti è il prestigio di cui gode ancora Macron. Renzi e Calenda vogliono svuotare il Pd seguendo il suo esempio, e fingono d’ignorare il precipizio in cui è caduto: nel primo mandato (lunga rivolta dei Gilet gialli) e nel secondo (popolarità del movimento contro la riforma delle pensioni). È come se l’inquilino dell’Eliseo non sapesse che non è stato il programma a dargli due volte la vittoria, ma il rigetto dell’alternativa Le Pen. Da tempo non è più solo l’allungamento dell’età pensionabile che imbestialisce i francesi: l’intera politica economica di Macron è giudicata generatrice di disuguaglianze. E lo scontento concerne più che mai la “verticale del potere”: cioè la natura monarchica della Quinta Repubblica.

Guardare in faccia le insidie del presidenzialismo, prendere atto del fallimento di Macron e delle presidenze Usa, ricordare il nefasto sopravvento della Controriforma sulle promesse di Brandt alla fine degli anni Settanta: solo a queste condizioni, scegliendo stavolta l’opzione Brandt, ha senso un’ennesima Bicamerale.

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Meloni, l’album di famiglia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 ottobre 2022

Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri dello Stato e parte dei poteri forti.

L’ex magistrato ha ricordato le trame nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco.

Si può capire l’ira di Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto, con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda, il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta – parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?). “Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte.

Intanto il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili: crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda.

Non che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi: fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (Sapevatelo su Rieducational Channel!) che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc. Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato: ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina.

Come neoliberista/illiberale, infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. (…) Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe con collo più alto.

La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano Ritorno della Politica e Meritocrazia.

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Meloni deve scegliere o Draghi o Merkel

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 30 settembre 2022

Giorgia Meloni certamente lo sa: a partire dal momento in cui sarà designata presidente del Consiglio e si accingerà a formare il governo, dovrà fare i conti non solo con la supervisione di Mattarella, ma anche con le linee tracciate da Draghi, dal presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, dai vertici della Nato. Le iniziative eterodosse concesse alla minuscola Ungheria di Orbán (9,7 milioni di abitanti), o alla Turchia in seno alla Nato, sono malviste da sempre in un Paese proiettato nel Mediterraneo come l’Italia.

Draghi ha smentito fortunatamente le voci su una sua personale supervisione-monitoraggio, che si appaierebbe in modo costituzionalmente scorretto a quella del Quirinale, ma le sue scelte e non-scelte continueranno a pesare, soprattutto in ambito atlantico.

In altre parole, è come se gli italiani dopo il voto avessero un presidente visibile e un invisibile convitato di pietra, campione dell’ortodossia atlantica ed economica e imprescindibile punto di riferimento all’estero. La posizione di Draghi sulla guerra in Ucraina è stata al tempo stesso inflessibile e indolente fino a sfiorare l’immobilità, dunque l’irrilevanza: ha sostenuto senza mai batter ciglio le posizioni di Biden e del Segretario generale della Nato Stoltenberg, anche quando questi ultimi hanno bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev; ha fatto approvare dalla propria maggioranza sanzioni e invii di armi; si è guardato dall’appoggiare Parigi, quando Macron ha messo in guardia contro “l’umiliazione della Russia” e mantenuto un dialogo con Putin. La politica che potrebbe aver consigliato alla Meloni durante la campagna elettorale è un impasto di passività e subordinazione riassumibile nella parola d’ordine: non lasciarsi coinvolgere in iniziative che Washington disapprova, a cominciare dal gasdotto Nord Stream 2. Limitarsi, giusto per una photo opportunity, al viaggio in treno con Macron e Scholz a Kiev, il 16 giugno.

Questi precedenti possono rivelarsi nefasti, perché prolungano una guerra sempre più mortifera per gli ucraini, e che sconquassa l’Europa ben più degli Stati Uniti. Incoraggiano, inoltre, l’adesione acritica a un’Alleanza militare non più solo Atlantica ma estesa al Pacifico, pronta a schierarsi con Washington contro Pechino su Taiwan.

L’imperturbabile atlantismo di Draghi e Mattarella non sembra tener conto della svolta epocale avvenuta in Ucraina e al Cremlino subito dopo le nostre elezioni: nel referendum del 27 settembre, quattro regioni del Sud-Est ucraino (equivalenti al 15% del Paese) hanno scelto l’adesione alla Russia, e quale che sia il giudizio degli occidentali (il referendum sarebbe illegale, come quello del 2014 in Crimea) le province potrebbero da questo venerdì collocarsi in Russia. Conseguenza: qualsiasi tentativo di riconquistare Crimea e Sud-Est annesso sarà considerato come aggressione diretta della Nato e di Kiev alla Federazione russa indebolita, al punto da implicare il ricorso all’atomica come ventilato nei giorni scorsi da Putin e dall’ex presidente Medvedev.

L’uso delle atomiche tattiche – probabilmente più potenti di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki – è sempre più banalizzato, dai dirigenti russi e anche statunitensi, dalla stampa Usa e dalla nostra, e la banalizzazione sta addormentando le menti dei leader occidentali, Europa compresa, invece di svegliarle e spingerle a mutare strategie. L’escalation si intensifica – si aggiunga il sabotaggio di Nord Stream 1 e 2, a prima vista non nell’interesse russo – come se nessuno volesse prender sul serio le parole di Mosca.

Ha fatto eccezione il 27 settembre Angela Merkel, in un discorso alla Fondazione Kohl. Ricordando la figura del predecessore, l’ex Cancelliera si è domandata quel che farebbe oggi l’artefice della riunificazione tedesca negoziata con Gorbaciov: in una situazione simile a quella odierna, ha detto, non perderebbe mai di vista “il giorno dopo”. Farebbe di tutto per restaurare la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, “ma parallelamente non smetterebbe mai di pensare quel che al momento è del tutto impensabile, inconcepibile: come sviluppare di nuovo le relazioni verso e con la Russia”. Ha poi aggiunto che “prendere le parole di Putin sul serio, non considerarle un bluff ma confrontarsi con esse non è segno di debolezza o pacificazione, ma di intelligenza politica”. Infine ha elencato “tre principi dell’arte politica” appresi dal predecessore: “L’importanza in politica della personalità, la volontà incondizionata di dar forma alle cose, il pensare dentro contesti storici”.

Più chiara di così la Merkel non poteva essere. La «Süddeutsche Zeitung» parla di discorso “velato”, ed è vero che dietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono.

L’annessione alla Russia di una parte dell’Ucraina (non ancora ratificata dalla Duma) vede il peso dell’Italia ridotto a zero, ed è evidente ormai che dalla minaccia atomica si può uscire solo con un negoziato diretto fra le tre superpotenze: Usa, Russia e Cina. Vista tuttavia la riluttanza di Biden a una trattativa che sancirebbe la fine dell’egemonia unipolare Usa e del tentativo di separare l’Ue dalla Russia, gli europei potrebbero avviare un primo tentativo di “pensare l’inconcepibile” e conquistarsi l’autonomia strategica di cui parlano da anni inutilmente. Potrebbero smettere di puntare solo su Erdogan, che si presenta come intermediario pur di ottenere il diritto a distruggere impunemente, nel Nord-Est siriano, la democratica Repubblica curda di Rojava che ha sconfitto per noi lo Stato islamico (Isis). Il mediatore potrebbe essere proprio la Merkel, anche se gli appoggi sono tenui: sono restii i Verdi tedeschi, è contrario il suo partito, e l’Ue è divisa.

Molti avversari delle sanzioni e dell’invio di armi l’hanno indicata in passato come possibile mediatore. Adesso potrebbe diventarlo, anche se la prospettiva sembra utopica. Ha la personalità adatta, conoscendo Putin, la lingua russa, la Cina meglio dei governanti odierni. Ha saputo dar forma ai propri progetti (se si esclude l’arroganza verso la Grecia piegata dalla troika). E conoscendo Mosca e l’Est europeo, non le manca di sicuro il senso della storia.

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Le armi spuntate contro Meloni

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 agosto 2022

Niente luna di miele per Giorgia Meloni, se diverrà presidente del Consiglio: neanche se le destre otterranno una maggioranza parlamentare di due terzi e potranno cambiare la Costituzione senza dover ricorrere a referendum.

Basta attenersi al principio di realtà: il successo previsto dai sondaggi non sarà per nulla invidiabile, gli sforzi cui i vincitori si dovranno sottoporre saranno immensi, e la candidata n. 1 delle destre sembra esserne consapevole. Dell’economia italiana parla senza ottimismi. Gli esperti del suo campo – da Giulio Tremonti a Guido Crosetto – ripetono che il futuro sarà durissimo, in sintonia con l’Authority per l’Energia che pronostica per l’autunno il raddoppio delle bollette già oggi triplicate e un “rischio di tenuta del sistema elettrico”. Crosetto chiede un “patto con le opposizioni” per fronteggiare “momenti di difficoltà spaventosa” e conflitti sociali prossimi a guerre civili. A malapena Meloni tiene a freno Lega e Forza Italia, che promettono tagli inauditi alle tasse e Natale tutti i giorni.

A ciò si aggiunga la diffidenza con cui Meloni sarà osservata – meglio dire: sorvegliata – nell’Unione europea, nella Nato e in patria. Si sa che son sorveglianze umilianti: la Grecia le ha subite per 12 anni e ne esce impoverita e meno sovrana. Anche di questo la leader di Fratelli d’Italia è forse cosciente, visto che sulla guerra in Ucraina si è subito schierata a fianco della Nato, condividendo l’escalation verbale e militare di Biden. Ogni giorno le viene rinfacciata la vicinanza a Orbán, ma quest’ultimo ha scelto una neutralità sulla Russia che l’Italia non si permette più dagli anni di Moro e Andreotti, come dimostrato dal vistoso atlantismo di Draghi. L’Ungheria ha 9,7 milioni di abitanti e pesa infinitamente meno di un’Italia proiettata nel Mediterraneo dei conflitti permanenti.

Queste considerazioni sono assenti nella campagna condotta da chi avversa le destre, specialmente nel partito corposo di Enrico Letta oltre che nel quarto polo di Calenda e Renzi (chiamato terzo perché il M5S, essendo stato scomunicato, è escluso e anzi dato per morto). L’argomento principale dell’ex sinistra centrista è la contiguità di Fratelli d’Italia con il neofascismo, con la Fiamma nel simbolo: improbabile che Meloni perda per questo i voti operai tolti alla sinistra. Le rimproverano anche l’opposizione a Draghi, fingendo di non sapere che sono stati i metodi centralizzatori e le politiche di Palazzo Chigi a gonfiare, come in Francia, le vele della destra estrema.

Meloni è anche sospettata di puntare sull’immagine femminile senza essere femminista: un’accusa grottesca (le conservatrici femministe son rare), e non di rado fuori luogo. Meloni ha detto per esempio che la legge sull’aborto va pienamente rispettata, ma che va meglio applicata “la prima parte della legge, relativa alla prevenzione, per dare alle donne che lo volessero una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell’aborto”. Non vedo cosa ci sia di maligno nella volontà di aiutare le donne che non vorrebbero abortire, e lo fanno non per libera scelta ma per necessità, economica o familiare.

L’unico che guarda con lucidità al rischio Meloni, evitando il controproducente allarme fascismo, è Conte, secondo cui le destre al comando si riveleranno una “tigre di carta”, visto che saranno obbligate a “smontare le loro ricette” una dopo l’altra: “In una fase così delicata, che risposte può dare una coalizione che ha ritenuto prioritario trovare la quadra sulla spartizione dei collegi prima che sul programma? Salvini e Berlusconi giocano a chi la spara più grossa sulla Flat tax che è una presa in giro, mentre Meloni ancora non si è capito se la voglia” («Avvenire», 11 agosto). E a proposito del presidenzialismo aggiunge: “L’ipotesi di un centrodestra che cambia la Carta costituzionale è sicuramente preoccupante; la questione però è capire come scongiurarlo. […] non si può pensare di vincere rispolverando l’incubo dell’orda nera che marcia su Palazzo Chigi: è un refrain che non ha mai funzionato. Bisogna vincere sui temi, sull’idea di Paese che si propone”. Anche l’Unione Popolare di De Magistris, se vuol crescere, farà bene a battersi sulla questione sociale e la riconversione ecologica, evitando l’insidioso refrain sul fascismo.

Intanto Letta (che avendo perso Calenda ha ingaggiato Carlo Cottarelli, e ha ammesso la sinistra di Fratoianni “solo per ottenere l’adesione dei Verdi”) resta aggrappato a Draghi, scommettendo sul suo ritorno se le destre si sfasciassero, nella convinzione che il banchiere centrale abbia risanato l’Italia e innalzato il suo prestigio, in patria e fuori. Purtroppo le cose stanno diversamente. Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha vantato “una crescita straordinaria”, vedendo giusto “nuvole all’orizzonte” quando invece son tempeste. Non ha contato nulla nel conflitto russo-ucraino. Ha gestito male il ritorno del Covid in primavera. Non ha fatto nulla per negoziare un adeguamento del PNRR all’economia di guerra cui siamo condannati.

L’opposizione sarebbe efficace se smitizzasse l’agenda Draghi, neoliberista e inadatta ai tempi di povertà, razionamento dell’energia, precariato. Da mesi il ministro Cingolani echeggia l’ottimismo di Palazzo Chigi, ripetendo la stessa bugia: che possiamo star tranquilli, che abbiamo gas a sufficienza.

Un’altra pecca rinfacciata a Meloni è il blocco navale dei migranti, giudicato “antieuropeo”. Accusa giusta, se non fosse intrisa di menzogne e ipocrisie. Fu il governo Gentiloni a stringere accordi con la Libia, nel 2017, perché bloccasse i fuggitivi anche con la violenza. È l’Unione europea che finanzia le guardie costiere della Libia chiudendo gli occhi sui suoi Lager di tortura e morte. È l’Unione che dai tempi del governo Renzi, nel 2016, paga la Turchia perché freni la fuga di siriani e afghani (6 miliardi di euro, estesi nel giugno 2021 sotto il governo Draghi). È sempre l’Ue che da giugno finanzia le guardie costiere egiziane (80 milioni di euro) per contrastare le migrazioni in Italia.

Tra i ministri Salvini e Minniti (Pd) la differenza non è grande, per quanto riguarda i patti con Stati autoritari o falliti. Ben prima del Memorandum italo-libico l’Onu aveva dichiarato, nel 2016: “La Libia non è un Paese sicuro e i rimpatri sono dunque illegali”. Ma l’Onu conta poco se paragonata alla Nato: nelle molte guerre occidentali, in quelle russe e sull’immigrazione. Una tragedia che precede la possibile vittoria di  Giorgia Meloni.

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Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

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