Brexit: breve elenco dei punti critici

Bruxelles, 9 dicembre 2015

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di coordinatore della Commissione Affari Costituzionali per il gruppo, nel corso della riunione del Gruppo GUE/NGL

Punto in agenda: Brexit

Come prima cosa, vorrei indicare il contesto in cui si discute di Brexit. Il contesto è l’avanzata di Marine Le Pen, e di destre xenofobe e nazionaliste nell’Unione. Queste destre utilizzeranno a propri fini il negoziato britannico – Marine Le Pen lo ha detto esplicitamente – imitando la via inglese. Penso che come gruppo non sarà male tenerne conto, quando si parlerà di Brexit.

E ora vengo alla lettera di Cameron a Tusk: ai suoi punti più pericolosi. Ne elenco alcuni, perché sia un po’ più chiaro cosa sarà discusso, si spera, nella Commissione affari costituzionali.

Dico “si spera”, perché quel che dovremmo ottenere è che i cambiamenti chiesti da Londra siano oggetto di discussione in questo Parlamento, e non nascano da accordi intergovernativi. Tutto rischia infatti di avvenire nel chiuso del Consiglio Europeo: un organo già indebitamente soverchiante nell’UE, e poco propenso alla cultura del render conto.

Alcune proposte di Cameron non sorprendono: Londra già beneficia di opt-out, e il Premier ne chiede di più. Pericolosa non è la tattica degli opt-out. È la degradazione dell’Unione nel suo insieme, con ripercussioni su tutti i soggetti che ne fanno parte. Tale fu l’obiettivo di Blair prima del Trattato di Lisbona: non un’Europa diversa – più forte o più democratica – ma l’accentuazione di caratteri negativi che essa possiede sin dalla nascita. Quel che va codificato, secondo Londra, è che l’Unione non dovrà essere altro che una zona di libero scambio: competitività e produttività sono i soli collanti citati da Cameron. Nemmeno ai margini si parla di questione sociale.

Faccio un piccolo elenco dei punti pericolosi:

1) la volontà di mettere la parola fine, in modo irreversibile e legalmente vincolante, all’obbligo del Regno Unito di adoperarsi verso “un’Unione sempre più stretta”, eliminando tale concetto dal Trattato.

2) l’invito a ridurre al massimo la regolamentazione comune, considerata eccessiva. Esistono complicità su questo, soprattutto con l’Est Europa e potenzialmente con le estreme destre nell’Unione.

3) la proposta di introdurre meccanismi che consentano ai Parlamenti nazionali di bloccare proposte legislative non desiderate. I Parlamenti nazionali avrebbero un potere di veto, non propositivo. Il veto può aver senso, se le democrazie sono messe in pericolo. Ma il Parlamento europeo perderebbe molti poteri che possiede. Inoltre, ricordo che l’articolo 1 del Trattato fa riferimento ai popoli, non agli Stati, e l’Unione “più stretta” è pensata proprio per oltrepassare i limiti del mercato unico: è l’unione dei diritti riconosciuti al successivo articolo 2, che non devono avere confini o limiti.

In realtà, siamo di fronte al tentativo di ridurre le garanzie che il Trattato, anche se difettoso, contiene: garanzie che con la libertà di manovra nazionale Londra vuole aggirare.

Le intenzioni di Cameron diventano evidenti se si guarda alle proposte sull’immigrazione: chiusura delle frontiere per i non europei, libera circolazione per i futuri Stati Membri solo se sarà assicurata “una più stretta convergenza economica”, limitazione infine della libertà di circolazione interna. Su questo tema, si aggiunge anche una critica forte alla Corte di giustizia europea. Obiettivo: non subire pressioni su un welfare che, internamente, è già in parte demolito.

Tutto questo si inserisce nell’altra proposta, cui ha fatto accenno Martina Anderson (Sinn Fein) in questa riunione: quella di sostituire lo Human Rights Act con un “Bill of rights nazionale”, per spezzare ogni legame con la Corte europea dei diritti umani.

Nella Commissione Afco, penso che dovremmo contestare il metodo intergovernativo dell’attuale discussione. Se riforma del Trattato deve proprio essere, questa può farsi solo, secondo me, attraverso la procedura ordinaria di revisione, che consenta l’inclusione del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Personalmente credo che il Trattato dovrebbe diventare una Costituzione. Ma temo che ogni modifica, che parta dalle proposte inglesi, sia oggi peggiorativa.

So bene che esistono differenze nel nostro gruppo, ma penso valga la pena cogliere quest’occasione per affermare un diverso tipo di integrazione, che non riduca l’Europa a un mercato unico ma punti a un’Europa fondata su giustizia sociale e diritti, oltre che a una politica estera indipendente da quella statunitense. E qui torno al contesto cui accennavo all’inizio: sarebbe anche l’occasione di differenziarci, come gruppo, dai falsi sovranismi proposti oggi dalle destre estreme.


Si veda anche:

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari del 3 dicembre 2015

Punto in agenda:

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea (scambio di opinioni)

Ritengo ci siano molti punti controversi e veramente rischiosi dal punto di vista istituzionale nella lettera inviata dal Primo Ministro Cameron al Presidente del Consiglio europeo Tusk. Alcune proposte non sorprendono: di fatto, ci troviamo di fronte alla richiesta di ennesimi opt-out da parte del Governo britannico. Veramente pericolosa secondo me è la degradazione dell’Unione nel suo insieme, con ripercussioni su tutti i soggetti che ne fanno parte. Tale fu peraltro l’ambizione di Tony Blair durante la Convenzione che precedette il Trattato di Lisbona: non costruire un’Europa diversa, cioè migliorarla, e nemmeno starsene in disparte con una propria politica, ma influenzare profondamente l’attuale, diminuendola e accentuando caratteristiche negative che la Comunità possiede in realtà fin dalla nascita. Lo scopo è codificare il fatto che l’Unione non è né deve essere altro che una zona di libero scambio: competitività e produttività sono l’unico collante menzionato nella lettera di Premier britannico. Lo scopo è di evitare non tanto l’Europa politica di cui ha parlato poco fa Mercedes Bresso, ma un’Unione che di fronte a una crisi economica lunga, come quella in cui ci troviamo, metta al centro la giustizia sociale – che secondo me dovrebbe diventare il nuovo fondamento dell’Unione. Altrimenti non ha molto senso parlare di Europa politica.

Fatta questa premessa, passo ad alcuni punti che mi sembrano particolarmente contestabili.

1) La volontà di mettere la parola fine, in maniera irreversibile e legalmente vincolante, all’obbligo del Regno Unito di adoperarsi verso “un’Unione sempre più stretta”: eliminando, di fatto, tale concetto dal Trattato.

2) L’invito a ridurre al massimo la regolamentazione comune, considerata già ora eccessiva. Su ambedue i punti Londra sa di poter contare su inclinazioni simili nell’Unione – penso al governo olandese, a molti governi dell’Est, alle destre estreme che ovunque si rafforzano.

3) La proposta di introdurre un meccanismo che consenta ai Parlamenti nazionali di bloccare proposte legislative europee non desiderate. I Parlamenti nazionali avrebbero in tal modo un mero potere di veto, mai un potere propositivo. Vero è anche che il veto acquista senso ed è comprensibile, quando le democrazie e i diritti sociali, nei singoli Stati Membri, vengono messi in pericolo. Oggi dobbiamo riconoscere che i cittadini hanno più fiducia nei Parlamenti nazionali – quando ce l’hanno – che nel Parlamento europeo. È ovvio che in questo quadro il Parlamento europeo perderebbe molti poteri che possiede.

Inoltre l’articolo 1 del Trattato fa specifico riferimento ai popoli, non agli Stati nazione, e quando si parla di “Unione più stretta”, si intende dunque più unione dei diritti politici e sociali riconosciuti nel successivo articolo 2, che come tali non hanno e non devono avere confini o limitazioni.

In realtà ci troviamo di fronte al tentativo di ridurre al minimo garanzie chiaramente riconosciute dai trattati, con la scusa di recuperare margini di manovra nazionali. Questo, purtroppo, vale soprattutto per il capitolo immigrazione, su cui Cameron fa una serie di proposte: chiusura delle frontiere nei confronti dei cittadini degli Stati non UE, libera circolazione per i futuri Stati Membri solo se sarà assicurata “una più stretta convergenza economica”, limitazione infine della libertà di circolazione dentro lo spazio europeo.

Particolarmente preoccupante è anche la critica delle Corti, assieme all’opt-out giuridico che viene prospettato. E’ criticata la Corte di giustizia europea in materia di libera circolazione, con la scusa dell’emergenza sicurezza e di un welfare che in Gran Bretagna è da tempo sotto attacco. E nel mirino del governo inglese c’è anche, ben prima della lettera a Tusk, la Corte di Strasburgo, e dunque la Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU). Ricordo l’altra proposta/minaccia inglese: quella di sostituire lo Human Rights Act con un “Bill of rights nazionale” al fine di spezzare definitivamente il legame con la Corte europea dei diritti umani.

Non da ultimo, considero molto grave il metodo bilaterale e intergovernativo con cui si rischia di discutere e negoziare. Quello che si vuole evitare, mi pare, è un confronto serio con questo Parlamento.

Se una riforma del Trattato deve proprio avvenire, questa, a mio parere, non può che essere condotta attraverso la procedura ordinaria di revisione, in modo che siano pienamente inclusi sia il Parlamento europeo sia i Parlamenti nazionali.

Detto questo, ritengo che sarebbe pericoloso chiedere oggi una riforma dei trattati partendo dalla lettera di Cameron, per le ragioni espresse anche dal collega Jo Leinen in questa sessione: ognuno cercherà di raccogliere più vantaggi possibili per se stesso. Personalmente, penso che il Trattato un giorno bisognerà cambiarlo e trasformarlo in una Costituzione, ma temo che al momento ogni modifica rischi di andare in una direzione peggiorativa.