Risoluzione sull’Ungheria: il ricorso all’articolo 7

di venerdì, Maggio 19, 2017 0 , Permalink

Lo scorso 17 maggio il Parlamento europeo ha adottato la proposta di risoluzione sull’Ungheria presentata dai gruppi politici S&D, ALDE, Verdi e GUE/NGL a seguito di dichiarazioni del Consiglio e della Commissione.

La risoluzione, co-firmata da Barbara Spinelli e approvata con 393 voti favorevoli, 221 contrari e 64 astensioni, chiede che l’Unione europea avvii una procedura contro il Paese retto dal governo del premier Viktor Orbán, ricorrendo all’articolo 7 del Trattato di Lisbona.

I deputati dichiarano nella risoluzione congiunta che «la situazione dei diritti fondamentali in Ungheria giustifica l’avvio della procedura formale per determinare se in uno Stato membro vi sia un “evidente rischio di grave violazione” dei valori dell’Ue», in considerazione del preoccupante deterioramento dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali, in particolare per quanto riguarda le discriminazioni perpetrate contro migranti, richiedenti asilo, rifugiati, persone appartenenti a minoranze (tra cui Rom, ebrei e persone LGBTI). Particolarmente preoccupante, per i deputati europei, anche la progressiva restrizione dell’indipendenza della magistratura, della libertà di espressione, della libertà di associazione e della libertà accademica (è citata anche la chiusura degli archivi Lukács).

La procedura potrebbe portare a sanzioni contro il Paese, come la sospensione dei diritti di voto in seno al Consiglio.

È da notare con interesse la spaccatura dei voti PPE (Partito popolare europeo, che comprende anche il partito di Orbán Fidesz), e l’astensione dei deputati del M5S.

Risultato delle votazioni per appello nominale (scorrendo il Sommario, cliccare sul file B8-0295/2017 al Punto 12, recante la lista delle risoluzioni (pag. 26).

Intervento in qualità di Relatore ombra nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali del 14 gennaio 2016

Punto in agenda:

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Relatori: Mercedes Bresso (S&D-Italia) – Elmar Brok (PPE-Germania)

Relatore ombra per il gruppo GUE-NGL: Barbara Spinelli

Vorrei fare due considerazioni, una sul merito della bozza di Relazione, l’altra sul metodo che seguiremo tutti assieme, co-relatori e “shadow”.

Quanto al merito, sono rimasta molto colpita dall’intervento del collega Elmar Brok. A mio parere, ha giustamente drammatizzato la situazione dell’Unione, quando ha parlato di “anno del destino”. Sono completamente d’accordo con lui. In effetti questo è l’anno in cui un’ulteriore mancanza di trasparenza, di assunzione di responsabilità, rischia di aggravare più che mai la situazione. Perché è vero, citando ancora il collega Brok, che “quel che il cittadino percepisce è dal suo punto di vista la realtà” e, oggi, la realtà appare quantomeno confusa. E non perché l’Unione europea stia accelerando troppo, come sostengono alcuni anche in questa Commissione – non credo che il cittadino chieda di rallentare il processo di integrazione – ma piuttosto perché ritengo che il cittadino voglia comprendere cosa stia succedendo, voglia sentirsi parte integrante di un progetto, voglia soprattutto essere ascoltato e rispettato quando avanza esigenze.

Credo sia importante che la Relazione riaffermi e renda comprensibile il nostro obiettivo, che dovrebbe restare quello di un’”Unione sempre più stretta” cui molti – governi e partiti – vogliono rinunciare.

Vorrei soffermarmi in questo quadro su alcuni temi precisi. Anch’io, come il Gruppo dei Verdi, sono convinta che sia necessario ricorrere con maggiore frequenza alle cosiddette “clausole passerella”, in modo da passare con più frequenza dal voto all’unanimità al voto a maggioranza. Questo renderebbe molte decisioni meno opache.

Sono inoltre preoccupata per il peso sempre più cospicuo assunto da una serie di organismi che, a mio avviso, rappresentano in modo emblematico l’attuale situazione, caratterizzata da una crescente assenza di trasparenza. Penso in particolare all’Eurogruppo. L’Eurogruppo non risponde davanti al Parlamento europeo, non è trasparente, corrobora una sensazione di non-responsabilità. Praticamente agisce al di fuori dei trattati. Non tiene nemmeno i verbali delle proprie riunioni.

Il rafforzamento del suo ruolo è allarmante, proprio se si tiene a mente la percezione che i cittadini hanno delle attività dell’Unione. Penso cose analoghe di altri soggetti, tipo la Bce o Frontex, cui saranno affidati compiti nuovi, anche in paesi terzi, molto simili a competenze di politica estera.

Quanto alle politiche – rifugiati, sicurezza, terrorismo, unione monetaria, clima – la cosa a cui invito è di avere un pensiero lungo, non emergenziale. Il lavoro che state facendo, e per cui vi sono grata per il tempo e le energie che avete dedicato alla Relazione, deve essere fondato su una prospettiva di lungo periodo. Ad esempio, quando si parla di rifugiati, è necessario ricordare che accanto alla sicurezza interna e delle frontiere vanno salvaguardati i diritti, e rispettata sino in fondo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Lo stesso vale per quel che riguarda l’unione monetaria e la politica di austerità. Anche in questo caso è in gioco la salvaguardia dei diritti. In materia di politiche sul clima, presto avremo anche rifugiati climatici; nella Relazione sarebbe opportuno un accenno al tema.

Vengo ora al secondo punto, la questione del metodo. Purtroppo, la vostra Relazione è arrivata molto tardi, l’abbiamo ricevuta soltanto ieri. Non sarebbe male avere il tempo di analizzarla nei dettagli e, forse, poter avere nel frattempo anche un incontro tra Relatori principali e Relatori ombra, proprio per l’importanza del documento su cui state lavorando. A questo proposito mi chiedo se non sia utile uno slittamento della scadenza fissata per la presentazione degli emendamenti, per avere il tempo di discutere in maniera più approfondita i vari punti del Rapporto.

Vi ringrazio ancora entrambi per il lavoro che avete fatto.


Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

Brexit: breve elenco dei punti critici

Bruxelles, 9 dicembre 2015

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di coordinatore della Commissione Affari Costituzionali per il gruppo, nel corso della riunione del Gruppo GUE/NGL

Punto in agenda: Brexit

Come prima cosa, vorrei indicare il contesto in cui si discute di Brexit. Il contesto è l’avanzata di Marine Le Pen, e di destre xenofobe e nazionaliste nell’Unione. Queste destre utilizzeranno a propri fini il negoziato britannico – Marine Le Pen lo ha detto esplicitamente – imitando la via inglese. Penso che come gruppo non sarà male tenerne conto, quando si parlerà di Brexit.

E ora vengo alla lettera di Cameron a Tusk: ai suoi punti più pericolosi. Ne elenco alcuni, perché sia un po’ più chiaro cosa sarà discusso, si spera, nella Commissione affari costituzionali.

Dico “si spera”, perché quel che dovremmo ottenere è che i cambiamenti chiesti da Londra siano oggetto di discussione in questo Parlamento, e non nascano da accordi intergovernativi. Tutto rischia infatti di avvenire nel chiuso del Consiglio Europeo: un organo già indebitamente soverchiante nell’UE, e poco propenso alla cultura del render conto.

Alcune proposte di Cameron non sorprendono: Londra già beneficia di opt-out, e il Premier ne chiede di più. Pericolosa non è la tattica degli opt-out. È la degradazione dell’Unione nel suo insieme, con ripercussioni su tutti i soggetti che ne fanno parte. Tale fu l’obiettivo di Blair prima del Trattato di Lisbona: non un’Europa diversa – più forte o più democratica – ma l’accentuazione di caratteri negativi che essa possiede sin dalla nascita. Quel che va codificato, secondo Londra, è che l’Unione non dovrà essere altro che una zona di libero scambio: competitività e produttività sono i soli collanti citati da Cameron. Nemmeno ai margini si parla di questione sociale.

Faccio un piccolo elenco dei punti pericolosi:

1) la volontà di mettere la parola fine, in modo irreversibile e legalmente vincolante, all’obbligo del Regno Unito di adoperarsi verso “un’Unione sempre più stretta”, eliminando tale concetto dal Trattato.

2) l’invito a ridurre al massimo la regolamentazione comune, considerata eccessiva. Esistono complicità su questo, soprattutto con l’Est Europa e potenzialmente con le estreme destre nell’Unione.

3) la proposta di introdurre meccanismi che consentano ai Parlamenti nazionali di bloccare proposte legislative non desiderate. I Parlamenti nazionali avrebbero un potere di veto, non propositivo. Il veto può aver senso, se le democrazie sono messe in pericolo. Ma il Parlamento europeo perderebbe molti poteri che possiede. Inoltre, ricordo che l’articolo 1 del Trattato fa riferimento ai popoli, non agli Stati, e l’Unione “più stretta” è pensata proprio per oltrepassare i limiti del mercato unico: è l’unione dei diritti riconosciuti al successivo articolo 2, che non devono avere confini o limiti.

In realtà, siamo di fronte al tentativo di ridurre le garanzie che il Trattato, anche se difettoso, contiene: garanzie che con la libertà di manovra nazionale Londra vuole aggirare.

Le intenzioni di Cameron diventano evidenti se si guarda alle proposte sull’immigrazione: chiusura delle frontiere per i non europei, libera circolazione per i futuri Stati Membri solo se sarà assicurata “una più stretta convergenza economica”, limitazione infine della libertà di circolazione interna. Su questo tema, si aggiunge anche una critica forte alla Corte di giustizia europea. Obiettivo: non subire pressioni su un welfare che, internamente, è già in parte demolito.

Tutto questo si inserisce nell’altra proposta, cui ha fatto accenno Martina Anderson (Sinn Fein) in questa riunione: quella di sostituire lo Human Rights Act con un “Bill of rights nazionale”, per spezzare ogni legame con la Corte europea dei diritti umani.

Nella Commissione Afco, penso che dovremmo contestare il metodo intergovernativo dell’attuale discussione. Se riforma del Trattato deve proprio essere, questa può farsi solo, secondo me, attraverso la procedura ordinaria di revisione, che consenta l’inclusione del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Personalmente credo che il Trattato dovrebbe diventare una Costituzione. Ma temo che ogni modifica, che parta dalle proposte inglesi, sia oggi peggiorativa.

So bene che esistono differenze nel nostro gruppo, ma penso valga la pena cogliere quest’occasione per affermare un diverso tipo di integrazione, che non riduca l’Europa a un mercato unico ma punti a un’Europa fondata su giustizia sociale e diritti, oltre che a una politica estera indipendente da quella statunitense. E qui torno al contesto cui accennavo all’inizio: sarebbe anche l’occasione di differenziarci, come gruppo, dai falsi sovranismi proposti oggi dalle destre estreme.


Si veda anche:

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari del 3 dicembre 2015

Punto in agenda:

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea (scambio di opinioni)

Ritengo ci siano molti punti controversi e veramente rischiosi dal punto di vista istituzionale nella lettera inviata dal Primo Ministro Cameron al Presidente del Consiglio europeo Tusk. Alcune proposte non sorprendono: di fatto, ci troviamo di fronte alla richiesta di ennesimi opt-out da parte del Governo britannico. Veramente pericolosa secondo me è la degradazione dell’Unione nel suo insieme, con ripercussioni su tutti i soggetti che ne fanno parte. Tale fu peraltro l’ambizione di Tony Blair durante la Convenzione che precedette il Trattato di Lisbona: non costruire un’Europa diversa, cioè migliorarla, e nemmeno starsene in disparte con una propria politica, ma influenzare profondamente l’attuale, diminuendola e accentuando caratteristiche negative che la Comunità possiede in realtà fin dalla nascita. Lo scopo è codificare il fatto che l’Unione non è né deve essere altro che una zona di libero scambio: competitività e produttività sono l’unico collante menzionato nella lettera di Premier britannico. Lo scopo è di evitare non tanto l’Europa politica di cui ha parlato poco fa Mercedes Bresso, ma un’Unione che di fronte a una crisi economica lunga, come quella in cui ci troviamo, metta al centro la giustizia sociale – che secondo me dovrebbe diventare il nuovo fondamento dell’Unione. Altrimenti non ha molto senso parlare di Europa politica.

Fatta questa premessa, passo ad alcuni punti che mi sembrano particolarmente contestabili.

1) La volontà di mettere la parola fine, in maniera irreversibile e legalmente vincolante, all’obbligo del Regno Unito di adoperarsi verso “un’Unione sempre più stretta”: eliminando, di fatto, tale concetto dal Trattato.

2) L’invito a ridurre al massimo la regolamentazione comune, considerata già ora eccessiva. Su ambedue i punti Londra sa di poter contare su inclinazioni simili nell’Unione – penso al governo olandese, a molti governi dell’Est, alle destre estreme che ovunque si rafforzano.

3) La proposta di introdurre un meccanismo che consenta ai Parlamenti nazionali di bloccare proposte legislative europee non desiderate. I Parlamenti nazionali avrebbero in tal modo un mero potere di veto, mai un potere propositivo. Vero è anche che il veto acquista senso ed è comprensibile, quando le democrazie e i diritti sociali, nei singoli Stati Membri, vengono messi in pericolo. Oggi dobbiamo riconoscere che i cittadini hanno più fiducia nei Parlamenti nazionali – quando ce l’hanno – che nel Parlamento europeo. È ovvio che in questo quadro il Parlamento europeo perderebbe molti poteri che possiede.

Inoltre l’articolo 1 del Trattato fa specifico riferimento ai popoli, non agli Stati nazione, e quando si parla di “Unione più stretta”, si intende dunque più unione dei diritti politici e sociali riconosciuti nel successivo articolo 2, che come tali non hanno e non devono avere confini o limitazioni.

In realtà ci troviamo di fronte al tentativo di ridurre al minimo garanzie chiaramente riconosciute dai trattati, con la scusa di recuperare margini di manovra nazionali. Questo, purtroppo, vale soprattutto per il capitolo immigrazione, su cui Cameron fa una serie di proposte: chiusura delle frontiere nei confronti dei cittadini degli Stati non UE, libera circolazione per i futuri Stati Membri solo se sarà assicurata “una più stretta convergenza economica”, limitazione infine della libertà di circolazione dentro lo spazio europeo.

Particolarmente preoccupante è anche la critica delle Corti, assieme all’opt-out giuridico che viene prospettato. E’ criticata la Corte di giustizia europea in materia di libera circolazione, con la scusa dell’emergenza sicurezza e di un welfare che in Gran Bretagna è da tempo sotto attacco. E nel mirino del governo inglese c’è anche, ben prima della lettera a Tusk, la Corte di Strasburgo, e dunque la Convenzione europea sui diritti dell’uomo (CEDU). Ricordo l’altra proposta/minaccia inglese: quella di sostituire lo Human Rights Act con un “Bill of rights nazionale” al fine di spezzare definitivamente il legame con la Corte europea dei diritti umani.

Non da ultimo, considero molto grave il metodo bilaterale e intergovernativo con cui si rischia di discutere e negoziare. Quello che si vuole evitare, mi pare, è un confronto serio con questo Parlamento.

Se una riforma del Trattato deve proprio avvenire, questa, a mio parere, non può che essere condotta attraverso la procedura ordinaria di revisione, in modo che siano pienamente inclusi sia il Parlamento europeo sia i Parlamenti nazionali.

Detto questo, ritengo che sarebbe pericoloso chiedere oggi una riforma dei trattati partendo dalla lettera di Cameron, per le ragioni espresse anche dal collega Jo Leinen in questa sessione: ognuno cercherà di raccogliere più vantaggi possibili per se stesso. Personalmente, penso che il Trattato un giorno bisognerà cambiarlo e trasformarlo in una Costituzione, ma temo che al momento ogni modifica rischi di andare in una direzione peggiorativa.

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di Relatore Ombra, nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali del 3 dicembre 2015

Punto in agenda:

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

Relatori: Mercedes Bresso (S&D-Italia) – Elmar Brok (PPE-Germania)

Relatore ombra per il gruppo GUE: Barbara Spinelli

Prima di tutto volevo ringraziare i relatori di quest’inizio di lavori sulle potenzialità del Trattato di Lisbona. Lo considero solo un inizio poiché, a mio parere, ci sono alcuni aspetti che vanno ulteriormente approfonditi. Trovo positivo l’appello a un ritorno del metodo comunitario in molti settori, ma altri punti della bozza di Relazione ancora non mi convincono. Desidererei inoltre che tra i due relatori ci fosse accordo su alcune questioni che sembrano dividerli e che a mio avviso sono importanti, tra cui il ruolo dei Parlamenti nazionali e l’ipotesi di un’introduzione della cosiddetta “carta verde”. [1] Comprendo le perplessità di Elmar Brok, quando afferma che quest’ultima possibilità non rientra nei trattati; non posso credere però che la collega Bresso proponga misure volte ad aggirare i trattati stessi. Probabilmente Mercedes Bresso ha argomentazioni altrettanto forti per difendere il suo punto di vista. Non credo che tra voi ci sia un co-relatore guardiano del Trattato, e un co-relatore che non lo è.

Vorrei ora passare al merito della Relazione. Quello che io credo, e che spero di riuscire a esprimere nel migliore dei modi in questa sede, è che alcune politiche adottate nel solco dell’emergenza non debbano trovare spazio nelle maglie del Trattato. Penso all’idea di una comune lotta al terrorismo – in alcuni Stati Membri si parla addirittura di stato di guerra– e alla politica su rifugiati e migranti: due temi che s’intrecciano, pervasi di questi tempi da una visione della sicurezza sempre più repressiva. La bozza della Relazione dedica parecchio spazio a migrazione e sicurezza, ma a mio parere non dovrebbe indicare una precisa linea politica in materia, soprattutto se tale linea è presa in situazione di emergenza: il Trattato dovrebbe essere un contenitore che permette a politiche diverse di applicarsi e non codificare una sorta di diritto europeo emergenziale. Per lo stesso motivo ho anche un’obiezione di fondo – nonostante auspichi, come i relatori, il ritorno al metodo comunitario e l’abbandono di quello intergovernativo – al fatto che il Fiscal Compact entri nel Trattato e diventi metodo comunitario. Perché il Fiscal Compact è qualcosa che non ha funzionato fuori dal Trattato, e di sicuro non funzionerà meglio se diverrà elemento del Trattato esistente e sarà “comunitarizzato”. Il Fiscal Compact è molto controverso, e inserirlo tale e quale rende non solo difficile ma quasi illegittima ogni alternativa. È la ragione per cui il discorso meramente istituzionale, sulle varie crisi che sta traversando l’Unione, non lo giudico sufficiente.

[1] “Green card”, ovvero la possibilità di istituire una procedura in base alla quale un gruppo di parlamenti nazionali sarebbe in grado di invitare la Commissione a presentare una proposta.


Si veda anche:

Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Bruxelles, 19 novembre 2015. Commissione per gli affari costituzionali: riunione interparlamentare di commissione sul tema “La futura evoluzione istituzionale dell’Unione: potenziare il dialogo politico tra il PE e i parlamenti nazionali e rafforzare il controllo sull’esecutivo a livello europeo”.

Parte 1: La futura evoluzione istituzionale dell’unione.

Mercedes Bresso and Elmar Brok, co-relatori del rapporto “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona” (qui il Documento di lavoro in versione italiana e in versione inglese).

Intervento di Barbara Spinelli (relatore ombra); l’intervento, non pronunciato a causa di concomitanti impegni parlamentari, è stato integrato negli atti della riunione.

Desidero affrontare due temi presenti nel documento di lavoro che a mio parere varrebbe la pena approfondire.

Il primo riguarda il ruolo dei parlamenti nazionali nell’attuale e futuro assetto dell’Unione.

La crisi economica, le misure per fronteggiarla, le modalità infine con cui tali misure sono state adottate, sono sfociate in una progressiva erosione delle competenze dei parlamenti e in un parallelo svuotamento – in molti paesi dell’Unione – della democrazia costituzionale. Non basta dire che questo svuotamento costituisce in realtà un primo passo verso la federazione. Se il trasferimento di sovranità condurrà al “federalismo degli esecutivi” denunciato da Habermas, più che un progresso avremo una regressione.

Così come non è sufficiente incorporare il Fiscal Compact nella normativa comunitaria, nell’illusione – o presunzione – che basti trasformare la natura istituzionale del Patto di Stabilità per renderlo papabile. Non era papabile prima, e non lo sarà dopo.

Apprezzo invece la volontà dei relatori di introdurre il metodo comunitario nella governance dell’Unione attraverso una limitazione delle indebite interferenze del Consiglio Europeo e un’attribuzione di maggiori competenze al Parlamento europeo. Ma anche qui ho qualche dubbio: tale processo richiederà tempo, e la piena riaffermazione dell’articolo 2 [1] del Trattato non è compatibile con questi tempi lunghi.

Merita anche attenzione il punto riguardante il controllo esercitato dai parlamenti nazionali sui propri governi: controllo che dovremmo dare per scontato, ma che i relatori giustamente mettono in rilievo. Allo stesso tempo, va detto che non tutto è chiaro. I parlamenti cosa controllano ancora, realmente? Quel che si chiede, è un rafforzamento del loro ruolo nell’attuazione dei programmi nell’ambito degli obiettivi di convergenza: programmi decisi altrove, e che dunque i Parlamenti sono chiamati semplicemente a registrare. Il dilemma andrebbe almeno riconosciuto, come andrebbero riconosciuti i rischi che questa finzione di controllo comporta per la democrazia rappresentativa.

Ho perplessità simili per quando concerne il capitolo Giustizia e Affari Interni. Il problema, secondo me, non dovrebbe essere quello di definire la natura più o meno restrittiva o repressiva della politica di sicurezza o delle politiche sui rifugiati – per me sono ambedue troppo restrittive, ma la questione non è appunto questa. [2]

Il problema è che determinate politiche, a volte perfino nate in stati di emergenza e per giustificare stati di emergenza – un’agenda sulla migrazione e sui paesi più o meno sicuri di rimpatrio, un’agenda sulla sicurezza in anni di terrorismo e guerre – non dovrebbero essere iscritte in nessuna costituzione, allo stesso modo in cui non dovrebbero esserlo il Fiscal Compact o altri provvedimenti economici, proprio perché contingenti (penso agli attacchi terroristici del 13 novembre a Parigi) oltre che controversi.

[1]  L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

[2] Per esempio: pur concordando con i relatori sulla necessità di una riforma del sistema di asilo, non credo che essa possa fondarsi sulle misure indicate. La militarizzazione del sistema di controllo delle frontiere esterne, la definizione estremamente limitativa del concetto di Stati terzi insicuri – esclusivamente le zone di guerra – con conseguente agevolazione del rimpatrio per coloro che non provengano da tali specifiche “zone insicure” e la chiusura – per i migranti – delle frontiere con i Balcani occidentali, sembrano configurarsi come misure volte al consolidamento di un modello di difesa comune piuttosto che allo sviluppo di un reale ed efficace sistema di asilo europeo.

Le insidie della difesa comune

Bruxelles, 13 ottobre 2015. Intervento di Barbara Spinelli in occasione dell’Audizione pubblica organizzata dalle Commissioni Affari Esteri (AFET) e Affari Costituzionali (AFCO) “Politica estera e di sicurezza comune nel quadro del trattato di Lisbona: come sbloccare il suo pieno potenziale”.

Barbara Spinelli ha co-presieduto tale riunione (in sostituzione del Presidente della Commissione AFCO Danuta Maria Hübner (PPE- Polonia)) con il Presidente della Commissione AFET Elmar Brok (PPE – Germania).

Relatori:

  • Panos Koutrakos, Professor of European Law, London City University
  • Nicolai von Ondarza, Deputy Head of Research Division, Stiftung Wissenschaft und Politik (German Institute for International and Security Affairs)
  • Stefano Silvestri, Scientific advisor at the International Affairs Institute (IAI)
  • Mr Olivier de France, Research director, French Institute for International and Strategic Studies (IRIS)

Le insidie della difesa comune

È opinione diffusa, e lo dimostrano le reazioni positive alle proposte di Jean-Claude Juncker sulla creazione di un esercito europeo, che l’Unione debba accelerare i tempi, in questo campo: usando le possibilità offerte dai Trattati, come le cooperazioni rafforzate o i voti a maggioranza. Da decenni, la politica estera e di difesa comune è stata parola d’ordine ricorrente, nel discorso europeista o federalista. Non dimentichiamo che la comunità dimezzata che abbiamo oggi, quasi esclusivamente economica, nasce dal fallimento della Comunità di difesa (CED) nel ’54.

Il caos e le guerre antiterroriste che hanno caratterizzato il dopoguerra fredda ci obbligano tuttavia a ripensare da capo questi obiettivi, e ad affinarli. La spregiudicatezza con cui l’Alleanza atlantica è stata di fatto estesa al di là delle frontiere orientali dell’Unione, la miriade di Stati falliti scaturiti dalle guerre euro-americane e della Nato, l’enorme flusso di migranti che di questo caos sono la conseguenza: sono tutti fattori che non possiamo non mettere nei calcoli, quando auspichiamo una difesa comune senza mettere in questione le vecchie alleanze con Stati Uniti e Nato. Il Presidente Juncker parla di un esercito europeo capace di dissuadere la Russia in Ucraina, ma proprio qui è il problema: è la dimostrazione che né Stati Uniti né Europa hanno ancora una politica russa costruttiva, coerente con i rispettivi e molto divergenti interessi.

A ciò si aggiunga un deficit ulteriore, rivelatosi nel negoziato su euro e Grecia: la comune politica estera e di difesa cui si aspira soffre, come quella economica e monetaria, di una mancanza grave di un’accountability democratica. Chi si batte per un’unificazione delle politiche difensive tende a ignorare la questione della legittimità democratica, se non della legalità. Non sarà forse il tema affrontato dagli oratori che prenderanno la parola in questa sessione, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensino. Parlo della conformità alle Costituzioni nazionali e anche al Trattato di Lisbona, visto che esso prescrive, nell’articolo 21,1-2, l’inserimento dei diritti dell’uomo e delle libertà negli obiettivi della Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Manca, nell’Unione, un articolo simile all’articolo 11 della Costituzione italiana, che ripudia la guerra e ammette trasferimenti di sovranità solo se gli obiettivi perseguiti sono la pace e la giustizia. Quasi tutte le Costituzioni nazionali degli Stati membri prevedono controlli parlamentari sulle scelte di pace e di guerra. Non l’Unione né la sua Carta dei diritti fondamentali.

Questo vuoto non resta vuoto, tuttavia. Viene sempre più riempito da ridondanti discorsi sui “valori etici”: ben meno stringenti di una Costituzione. Discorsi che hanno prodotto le guerre umanitarie e l’esportazione delle democrazie: altrettante operazioni fallimentari, che hanno ridotto il peso dell’Europa e l’hanno profondamente screditata.

Credo che le lacerazioni attorno alla tenuta dell’euro debbano farci riflettere. Quel che mi domando, è se una difesa comune e lo stesso voto a maggioranza non siano dei rischi, in assenza di un governo e di un Parlamento che controllino e validino le scelte che verrebbero fatte in materia. La spaccatura sulla Grecia ci lascia in eredità questa questione, a mio parere non risolta. Ricordo che nel trattato CED, su richiesta di Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi, c’era un articolo, il nr. 38, secondo cui sarebbe stato impossibile creare una Comunità di difesa senza integrarla immediatamente, non step by step, in una Comunità politica dotata di una democrazia costituzionale (di uno “statuto”, come si disse allora).


Risposta a un’obiezione di Jo Leinen, Eurodeputato del gruppo S&D (“Non c’è rapporto fra un controllo democratico più stringente della futura difesa europea e il presunto rischio dei voti a maggioranza”):

La rinuncia al voto a maggioranza complica certamente il processo decisionale dell’Unione, minacciandola in alcuni casi di paralisi e inazione. Ma gli eventi recenti stanno a mostrare come il diritto di veto possa divenire, per alcuni Stati, l’unico modo per far valere gli articoli delle proprie costituzioni e rispettare il funzionamento della propria democrazia.


Si veda anche

Si fa presto a dire esercito europeo: una riflessione di Barbara Spinelli

eunews: Le insidie della difesa comune

Appello di Rete della Pace: no all’operazione militare sulle coste della Libia

COMUNICATO STAMPA

Bruxelles, 26 maggio 2015

Barbara Spinelli denuncia la decisione dei ministri degli Esteri e della Difesa dell’Unione europea di avviare un’operazione militare a guida italiana sulle coste libiche e in acque internazionali. Per questo sottoscrive e fa proprio l’appello del coordinamento della Rete della Pace in cui vien detto a chiare lettere che non solo tale operazione, ponendosi al di fuori del diritto internazionale, è equiparabile a un atto di pirateria, ma che viola il trattato di Lisbona.

Viola per la precisione l’art. 2 TUE sui diritti, l’art. 3.5 TUE sugli obiettivi, l’art. 36 TUE sulla consultazione del Parlamento europeo, l’art. 40 TUE sul ruolo delle istituzioni, l’art. 41.3 TUE per quanto riguarda la consultazione del Parlamento europeo per spese in materia di operazioni PESC, l’art. 78 TFUE per quanto riguarda i poteri del Parlamento europeo in materia di asilo, l’art. l 79.4 TFUE per quanto riguarda il ruolo del Parlamento europeo nella lotta alla tratta degli esseri umani.

In considerazione delle violazioni che riguardano anche il principio di non-respingimento e il diritto stesso alla vita, Barbara Spinelli si associa alla richiesta rivolta al Parlamento Europeo di portare il Consiglio dell’Unione Europea davanti alla Corte di Giustizia Europea.

Il contrasto agli scafisti e ai trafficanti di vite umane – ribadisce l’eurodeputata del Gue-Ngl – non può privare le persone del diritto di fuggire da guerre di cui anche l’Unione europea è responsabile. Per questo devono essere garantiti immediatamente corridoi umanitari assistiti lungo tutte le vie di fuga dalle zone di guerra.

Con eguale convinzione, Barbara Spinelli appoggia la richiesta rivolta al Parlamento italiano perché neghi il proprio accordo a quello che si configura come un atto di guerra. «È qui in gioco il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione italiana, non solo per la parte riguardante il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», afferma l’eurodeputata del Gue-Ngl, «ma per la parte in cui si delega sovranità alle istituzioni internazionali alleate allo scopo ben specificato di ottenere “pace e giustizia”. Dove stanno, qui, pace e giustizia? Si interviene per intrappolare i fuggitivi nei campi di detenzione libici – risaputa fonte di lucro per quegli stessi trafficanti che si vorrebbe debellare – allo scopo di spostare le mura della Fortezza Europa oltre il mare, in Paesi dove non si ha alcuna garanzia sul rispetto dei diritti umani, rendendo carta straccia il concetto stesso di diritto d’asilo».

Pieno appoggio, da parte di Barbara Spinelli, alla manifestazione “Fermiamo le stragi subito” indetta per il 20 giugno.

Testo dell’appello Rete della Pace


Per approfondimenti:

Wikileaks: EU plan for military intervention against “refugee boats” in Libya and the Mediterranean

 

Salvare le democrazie nazionali con l’aiuto del Parlamento europeo

Sei anni di crisi economica sembrano aver devastato le menti e le memorie, oltre che le economie europee, e il motivo mi pare chiaro: sia in Europa sia nei singoli Stati, non sono più i parlamenti a esser sovrani, ma le forze dei mercati, assieme a istituzioni lontane dai cittadini e sorde alle loro esigenze. La democrazia rappresentativa è agonizzante in Europa, e quella diretta ancora non è nata. I parlamenti nazionali non hanno praticamente più voce in capitolo, quando sono in gioco le politiche economiche e finanziarie dell’Unione, e sembrano aver perso il ricordo stesso di quel che proclamavano ed esigevano pochi anni fa. Per recuperare la sovranità che hanno smarrito, i Parlamenti degli Stati non hanno altra via se non quella di collaborare in maniera più sistematica con il Parlamento europeo, e di far fronte al pericolo della propria auto-dissoluzione puntando a forme federali di integrazione europea. Di questo si è discusso il 29 ottobre 2014 in un’audizione presso la Commissione Affari europei del Senato, alla presenza degli europarlamentari italiani.


 

Roma, 29 ottobre 2014. Audizione presso la Commissione Affari europei del senato. Intervento di Barbara Spinelli

Sono due i punti che vorrei trattare.

Il primo riguarda la collaborazione fra parlamenti nazionali e Parlamento europeo. È giusto e urgente modificare il regolamento del Senato (e, spero, anche della Camera), come spiegato dal Presidente Vannino Chiti, e far proprio il modello adottato dalla Germania, che nell’articolo 93 del proprio regolamento prevede il coinvolgimento sistematico del Parlamento europeo nei lavori del Bundestag. Quel che tuttavia mi domando è: perché la modifica e perché il bisogno, da molti espresso in quest’audizione, di non limitarsi alla verifica dei cosiddetti criteri di sussidiarietà e proporzionalità?

Se si vuol dare una risposta seria a questa domanda, occorre a mio avviso parlare fra di noi in piena sincerità, senza giri di frase e infingimenti.

Perché dunque l’urgenza? Perché da troppo tempo viviamo sotto la guida di istituzioni e regole emergenziali, in gran parte intergovernative (dal «Six-Pack» al Fiscal Compact al Semestre Europeo), che hanno finito con l’esautorare drammaticamente i parlamenti nazionali e anche quello europeo. Lo vediamo con i nostri occhi in questi giorni: le finanziarie sono concepite dal governo, poi sono discusse e negoziate con la Commissione, e solo alla fine – una volta che la Commissione ci ha fatto le pulci e ha ottenuto gli emendamenti e gli adattamenti e i tagli che esige – il testo approda al Parlamento nazionale, che non ha più margini se non quello di dire sì, o di opporre un no inerte, senza conseguenze d’alcun tipo. Il commissariamento non ha bisogno di esser scritto nero su bianco, per essere operativo a tutti gli effetti. È il motivo per cui sono assai meno ottimista del senatore Chiti, che ha parlato in quest’aula del consolidarsi nell’Unione di un «sistema parlamentare euro-nazionale».

La soluzione è di mettere in piedi una struttura negoziale tra parlamenti nazionali e Parlamento europeo che consenta loro di influire in anticipo sulle scelte economiche dei singoli Stati e dell’Unione, togliendo a esse il carattere di ineluttabilità, oltre che di estraneità alle istituzioni e alle abitudini democratiche.

Per raggiungere quest’obiettivo, bisogna modificare radicalmente il ruolo europeo dei Parlamenti nazionali, così come iscritto nei Trattati dell’Unione. Ruolo oggi esclusivamente negativo: i Parlamenti possono solo bloccare le iniziative legislative della Commissione, nel caso esse violino il principio della sussidiarietà.

A questo potere negativo dei Parlamenti nazionali bisogna aggiungerne due che siano positivi:

  • potere sul bilancio dell’Unione (e quindi anche, oggi, sul Piano di investimenti promesso dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker). Intendo il potere di far sentire il proprio peso e la propria volontà, avviando discussioni congiunte e regolari fra parlamenti nazionali e Parlamento europeo prima che gli atti di governo abbiano luogo. Mi riferisco, tra l’altro, all’opportunità di una collaborazione tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo in vista della revisione intermedia del bilancio europeo del 2016 (mid-term review).
  • potere di riformare i trattati europei, quando essi dimostrano di essere – come lo sono – inefficaci e profondamente lesivi della democrazia parlamentare.

Il secondo punto è strettamente connesso al primo: anch’esso implica un linguaggio di verità, e soprattutto di non smemoratezza. Il 25 giugno 2013, il Parlamento italiano ha adottato una risoluzione solenne, proprio sulla modifica del Trattato di Lisbona. Una risoluzione che accennava alla possibilità di una seconda Convenzione. Camera dei Deputati e Senato accolsero la proposta del Movimento europeo in Italia di promuovere la convocazione di Assise interparlamentari sul futuro dell’Europa, entro la primavera del 2014, e si assunsero l’impegno di favorire la realizzazione di «una grande conferenza dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo – con ampie delegazioni e la presenza dei leader di maggioranza e di opposizione, capaci di interpretare e rappresentare la volontà dei rispettivi popoli – attraverso le quali perseguire l’obiettivo di una più compiuta integrazione europea (unione bancaria, economica, di bilancio e politica) e di una nuova politica economica volta a promuovere la crescita e sconfiggere la recessione»: questo, per preparare al contempo la campagna delle elezioni europee e una riforma dell’Unione in chiave federale.

Scopo prioritario delle assise doveva essere una più compiuta integrazione europea, per lottare contro il marasma in cui viviamo da sei anni. Il culmine sarebbe stato il semestre di presidenza italiana, che doveva divenire addirittura un “semestre costituente”, e darsi “istituzioni europee più democratiche, trasparenti, efficaci, (…), il cui operato risulti pienamente comprensibile ai cittadini”.

Mi chiedo dove siano andate a finire tutte queste parole, e se questo oblio di sé non sia il più grande peccato di omissione della presidenza italiana. E non solo della presidenza italiana, ma anche dei due parlamenti: quello italiano e quello europeo.


Considerazioni sul semestre italiano

(Parte dell’intervento di Barbara Spinelli, non pronunciata al Senato, sulla presidenza Renzi)

Siamo giunti quasi alla fine del semestre italiano, e mi chiedo quali risultati abbiamo raggiunto.

Tutto dipende dalle ambizioni di partenza, dall’idea che ci si faceva e ci si fa dell’ormai lunga crisi europea.

Se l’ambizione era di farsi un po’ di spazio, di dire «ci siamo anche noi», il risultato è solo in apparenza positivo, anche se qualche effimero margine è stato conquistato. Il governo italiano potrà rinviare al 2017 il pareggio di bilancio, e anche se toccherà rivedere la finanziaria ha ottenuto qualche flessibilità. Siamo anche stati lodati dal Premier Cameron, all’ultimo Consiglio europeo: «Credo che abbia detto bene il Premier italiano quando ha affermato che il ricalcolo (dei contributi versati dagli Stati all’Unione) è un’arma letale». Renzi ha poi assicurato di non aver usato l’espressione “arma letale”, ma nella sostanza Londra e Roma sembrano avere un comune nemico: la troppo dispendiosa burocrazia di Bruxelles, e implicitamente l’insieme delle istituzioni europee.

Ma se l’ambizione è di guarire l’Europa, di riconquistare la fiducia dei cittadini nelle sue istituzioni, le cosiddette conquiste italiane – tanto più se strappate con la complicità britannica –  sono non solo false consolazioni neonazionaliste, ma vere armi di distrazione di massa.

Distrazione da una crisi che è tuttora una tempesta perfetta, visto che in essa si congiungono una recessione ormai pluriennale, un disastro climatico, un accanito attaccamento a vecchi modelli di crescita industriale.

Distrazione da quel che l’Europa potrebbe fare, se si desse le risorse e le istituzioni per dar vita a una crescita alternativa, basata su ricerca, energie rinnovabili, produzioni diverse dal passato. Il Piano Juncker, vedremo quel che produrrà. Per ora è ambiguo e vago. Non si sa come si finanzierà, visto che a garanzia degli investimenti privati ci si propone di usare i Fondi strutturali e la BEI, che vivono di contributi nazionali. Gli stessi contributi che sono oggi rimessi in questione, e che i paesi più indebitati non potranno versare.

Ma distrazione, soprattutto, da risoluzioni precise che questo Parlamento aveva solennemente preso il 27 giugno 2013. Qui i passi indietro sono enormi. Ancora pochi anni fa si parlava di una seconda Convenzione, che modificasse il Trattato di Lisbona. (…) Di quei propositi, si è perduto oggi perfino il ricordo.

Riunione informale dei ministri e segretari di Stato per gli affari europei, 28-29 agosto 2014

Intervento di Barbara Spinelli, primo vice-presidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo, 28 agosto 2014

È un buon segno che questa riunione apra le porte al Parlamento europeo, e che le apra in particolare alla Commissione affari costituzionali, perché è nell’assenza di una vera costituzione europea – tuttora latitante, a cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti – che si riassume a mio parere l’essenza della crisi che attraversiamo. Non ho ricevuto dalla Commissione affari costituzionali un preciso mandato, anche se a nome del Presidente Danuta Hübner posso senz’altro indicare le sue priorità: cominciare a lavorare seriamente su quel che può essere fatto a trattato costante e su quello che esige, e presto, una sua revisione.

Approfitterò quindi di quest’occasione per esporvi alcune riflessioni, fatte a titolo personale.

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