Schlein, non basta dire “novità”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 marzo 2023

Se davvero vuol rappresentare una novità, e riportare in vita il Partito democratico, Elly Schlein non potrà ignorare un fatto difficilmente confutabile: la resurrezione di un pensiero profondo, su guerra e migranti, non coincide al momento con l’europeismo, articolo di fede imposto a chiunque voglia governare o legittimamente opporsi o dirigere un giornale mainstream.

Invocare l’Unione europea così com’è oggi – impossibile distinguerla dalla Nato, europeismo e atlantismo son diventati sinonimi – significa consentire alla sua esorbitante e crescente militarizzazione, sia quando si adopera per prolungare la guerra in Ucraina, sia quando risponde al disastro di Crotone con promesse di presidi ancor più impenetrabili delle proprie frontiere (lettera di Ursula von der Leyen ai capi di governo in vista del vertice Ue del 9 febbraio).

Il più micidiale tetto di cristallo non è oggi il divieto opposto alle donne aspiranti al comando. Il tetto di cristallo è il conformismo di gruppo – detto anche groupthink – che ostracizza ogni dissenso su guerra e migrazione.

La guerra innanzitutto. L’Unione in quanto tale sta seguendo pedissequamente i dettami di una Presidenza Usa tuttora influenzata dalla lobby dei neoconservatori (già responsabili di guerre totali tese a cambiare regimi in Afghanistan, Iraq, Libia, in prospettiva Iran tramite Israele), e ansiosi fin dal 2014 di immettere Ucraina e Georgia nella Nato per meglio minare i confini della Russia. Della lobby fanno parte Biden, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, Hillary Clinton, l’attuale sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già nota per aver promosso il colpo di Stato ucraino del 2014 sapendo di “fottere” l’Europa (“Fuck Europe!”, disse all’ambasciatore Usa a Kiev). Le parole proferite dalla Von der Leyen non sono diverse dagli appelli di Hillary Clinton ai collaboratori di Putin, perché rovescino il loro capo: questo è l’obiettivo degli occidentali, cioè di chi aspira non già all’ordine internazionale ma a un caotico rules-based world order, un “ordine mondiale fondato sulle regole” bellicose prescritte da Washington ai satelliti europei e asiatici.

Nelle élite italiane non esiste contrasto di opinioni sull’Ucraina, con l’eccezione di Conte che durante il governo Draghi votò l’invio di armi ma nutrì presto dubbi sugli invii senza sbocchi negoziali. Il Pd invece non conosce dubbi, né con Letta né con Schlein. Da quando Mosca ha inopinatamente invaso l’Ucraina è stato uno dei più ardenti fautori non tanto della resistenza all’aggressore, ma dell’escalation di una guerra che è per procura, essendo prolungata da Washington per abbattere Putin e forse smembrare la Russia, se si considera la natura sempre più offensiva delle armi garantite a Kiev e le ripetute offensive ucraine in territorio russo.

C’è da temere che Elly Schlein continui a tergiversare su questa questione. Reclamare negoziati è fatuo, se si insiste nell’invio di armi e non si indica chiaramente cosa potrebbe cedere Mosca e cosa Kiev, perché l’ecatombe finisca. In sostanza non viene smentito quel che garantirono Draghi e Letta: le armi favoriranno la trattativa. L’equazione non ha funzionato. Non basta l’invito retorico alla “pace giusta”, specie se decisa sul terreno di battaglia.

Lo stesso si dica sulle sanzioni, che l’Ue privilegia dal giorno in cui la guerra è cominciata: non nel febbraio 2022 ma nel 2014, quando Kiev mobilitò i neonazisti del battaglione Azov contro il Donbass secessionista e Mosca incamerò la Crimea. Nove anni di sanzioni non hanno impedito la sconsideratezza di Putin, e il loro inasprimento ha atterrato noi più che l’economia russa. Ha semmai accentuato la volontà del Cremlino di dar vita a un ordine internazionale non più unipolare ma multipolare, con India e Cina protagonisti. Ha rafforzato i rivali oltranzisti di Putin. E ha accresciuto la sudditanza europea a una strategia Usa che punta a disintegrare la Russia in vista dello scontro decisivo con Pechino. In questo Grande Gioco l’Ue conta zero, l’Italia ancor meno di zero, e gli appelli alla sovranità strategica europea sono fame di vento.

Viene poi la politica migratoria. Schlein ripete che solo l’Europa può rintuzzare gli scempi di Giorgia Meloni, ma l’Unione è da tempo in favore di accordi con Paesi del Nord Africa e con Turchia volti a “esternalizzare” le politiche di asilo: anche questo è “pensiero di gruppo” e Meloni è in ottima compagnia. Lo era nel 2017 quando Gentiloni era presidente del Consiglio e Marco Minniti ministro dell’Interno, e quest’ultimo concluse un memorandum con Tripoli accettando che i migranti venissero riportati nei mortiferi lager libici e imponendo regole restrittive alle Ong che fanno Ricerca e Salvataggio.

Il naufragio di Crotone non sorprende. Si poteva evitare, se l’Italia e l’Unione europea si fossero dotati di una politica di Ricerca e Salvataggio (Sar) dopo l’abbandono dell’operazione Mare Nostrum: operazione che l’Ue si rifiutò di europeizzare. Queste cose Elly Schlein non le dice, pur sapendole. Denuncia opportunamente la cialtroneria del ministro dell’Interno Piantedosi (denota abissale ignoranza l’uso della frase di Kennedy: che i profughi evitino di “mettere in pericolo i figli” e pensino non a se stessi ma “a quel che possono fare per i propri Paesi”) ma non dice che la militarizzazione delle frontiere – nel caso di Crotone le operazioni poliziesche della Guardia di finanza anziché l’invio in mare della Guardia Costiera specializzata in Ricerca e Salvataggio – è una scelta fatta propria dall’Unione, non solo dall’Italia.

Schlein ripete spesso che la revisione del Trattato di Dublino approvata nel 2017 dal Parlamento europeo (relatrice Cecilia Wikström, liberale, Schlein era relatrice-ombra per il gruppo socialista) fu avversata dall’estrema destra. Ma non può non sapere che il rapporto Wikström era giusto un primo passo, e non avrebbe mai ottenuto l’approvazione degli Stati membri sui ricollocamenti “automatici” e non semplicemente volontari dei profughi che approdano prioritariamente in Italia e Grecia.

Anche in questo caso non basta ricordare che i migranti fuggono da guerre e dispotismi, e per legge hanno diritto all’asilo. È l’ora di dire che gran parte di quelle guerre e carestie le attizziamo noi occidentali con sanzioni o investimenti predatori che impoveriscono i popoli, e con guerre di “cambi di regime” che fanno comodo geopoliticamente (non fa comodo, invece, difendere i palestinesi dall’occupazione israeliana). Delle conseguenze di tali guerre siamo responsabili.

Il Pd si rinnoverà quando criticherà radicalmente non solo la destra al governo, ma anche l’Europa di oggi. Un po’ come fece Giuseppe Conte durante il Covid, quando costruì un’alleanza fra nove Paesi membri (tra cui Francia e Spagna), decisi a ottenere un comune indebitamento Ue e un Recovery Plan che superasse la nefasta divisione fra l’austerità imposta dai Paesi creditori e la sottomissione dei debitori. Fu l’ultimo gesto dignitoso dell’Unione europea.

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Liberare i media da fake news e groupthink

Bruxelles, 11 luglio 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Miniaudizione organizzata dalla Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE) “sulla libertà e il pluralismo dei media nell’UE”.

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di Relatore della Relazione LIBE “Media pluralism and media freedom in the European Union”

Partecipanti:

·        Pier Luigi PARCU, Direttore del Centro per il pluralismo e la libertà dei media

·        Thijs BERMAN, Consulente presso l’Ufficio del Rappresentante OCSE per la libertà dei mezzi d’informazione

·        Renate SCHROEDER, Direttore della Federazione europea dei giornalisti (EFJ)

·        Marilyn CLARK, Professore Associato presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Malta

Ringrazio il Presidente, e gli esperti che prenderanno la parola in questa audizione. Come Relatore di un nuovo rapporto del Parlamento su Media Freedom, posso assicurarvi che ogni vostra considerazione sarà preziosa. Per questo vorrei che questa audizione fosse l’inizio di un lavoro comune, in modo da integrare le vostre esperienze e i vostri suggerimenti nel futuro rapporto.

Il mio sguardo sulla libertà dei media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella relazione presentata da questa Commissione nel 2013. La mia introduzione sarà breve perché voglio lasciare massimo spazio agli esperti. Mi limiterò dunque a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire:

Primo punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia stessa. Alcuni parlano di “post-verità”, e nel mirino ci sono soprattutto internet e i social network. C’è una buona dose di malafede in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e interattivo di informazione, che tende a condannare all’irrilevanza i giornali mainstream. Di qui un’offensiva contro questo strumento, e una serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo, imbrigliarlo. L’offensiva ricorda per molti versi la reazione all’invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le proprie degenerazioni. Per molti versi è un’offensiva che ricorda la polemica ottocentesca contro il suffragio universale: “troppa democrazia uccide la democrazia”. Quand’anche alcuni di questi timori fossero giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti sospetti o screditati.

Secondo punto: l’estendersi di alcuni fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze della politica e di grandi concentrazioni di interesse nell’informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di autocensura. Lo studio pubblicato nell’aprile scorso dal Consiglio d’Europa – “Giornalisti sotto pressione”– mette in risalto l’estendersi di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera l’autocensura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche, editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La vera radice delle fake news come dell’autocensura viene occultata ed è a mio parere il groupthink, che possiamo descrivere come espressione di un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò questo termine negli anni ’50, si tratta di una “filosofia dichiarata e articolata che considera i valori del gruppo” – quale esso sia – “non solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti”. La parola è meno moderna di fake news ma più precisa.

Terzo punto, importante nelle democrazie dell’Unione: il cosiddetto dilemma di Copenhagen. I Paesi candidati all’adesione devono rispettare le norme sulla libertà di espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione dei diritti dell’uomo (rispettivamente gli articoli 11 e 10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei media.

Quarto punto: i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente, ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet. Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.

Quinto punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se aumentano l’autocensura e l’interferenza arbitraria nel lavoro di giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori. Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un lavoro dignitoso.

Infine, sesto punto: i rimedi. Abbiamo gli articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi riferisco alla relazione In’t Veld, che il Parlamento ha approvato nell’ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici previste dai Trattati come l’articolo 7, chiamato “opzione nucleare” perché applicabile solo all’unanimità e quindi praticamente inutilizzabile.

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Si veda anche:

“Pensiero di gruppo” e censure: assalto all’informazione, «Il Fatto Quotidiano» 12/07/2017
Contro le fake news serve una sfida culturale: parla il garante della privacy Antonello Soro, «Il Dubbio» 13/07/2017
EP hearing: “Media pluralism essential element for democracy”, European Federation of Journalists (EFJ), 13/07/2017