L’adozione della direttiva che consentirà l’accesso nell’Unione agli studenti, tirocinanti e volontari del servizio europeo è un progresso non irrilevante

COMUNICATO STAMPA

Strasburgo, 11 maggio 2016

Barbara Spinelli, eurodeputata del gruppo GUE/NGL, giudica positivo il risultato raggiunto dal Parlamento europeo in merito alla Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di ricerca, studio, scambio di alunni, tirocinio retribuito e non retribuito, volontariato e collocamento alla pari, approvata nel corso della seduta plenaria di Strasburgo con un’ampia maggioranza di voti.

La proposta di direttiva rappresenta il primo atto normativo votato quest’anno in Parlamento che sia inteso a riconoscere vie di accesso legali all’Europa alle categorie di persone cui fa riferimento. «Nonostante oggi l’Unione si mostri sempre più chiusa, incurante della solidarietà fra Stati membri e del diritto europeo e internazionale concernente il non-respingimento, l’adozione di quest’atto normativo rappresenta una concreta opportunità per molti cittadini di Paesi terzi, che potranno raggiungere l’Europa per motivi di studio, formazione o lavoro», ha dichiarato Barbara Spinelli.

L’adozione della direttiva consentirà l’accesso all’Unione a studenti, tirocinanti (remunerati o meno) e volontari del servizio europeo; gli Stati potranno decidere se ampliare la portata della direttiva a chi è impiegato alla pari. Gli studenti e i ricercatori potranno circolare nell’UE con maggior facilità e potranno usufruire di un permesso di ricerca di lavoro che darà loro il diritto di cercare un’occupazione o avviare una società sul territorio dell’UE per almeno nove mesi, dopo il periodo di studio o ricerca; le famiglie dei ricercatori potranno raggiungerli in Europa, beneficiare della stessa mobilità e cercare lavoro nell’Unione. Infine, la direttiva permette agli studenti che desiderino trovare un’occupazione durante il loro soggiorno di lavorare per un massimo di 15 ore settimanali.

Le vere emergenze della Lista

Bruxelles, 9 settembre 2014. Intervento alla conferenza «La sinistra in Europa dopo le elezioni europee» organizzata dal Centro Garcia Lorca & Alternatives.

L’Altra Europa con Tsipras è nata per colmare un vuoto che si è creato nella sinistra fin dagli anni Novanta, con la nascita della famosa Terza via, basata sulle politiche di Tony Blair e di Gerhard Schröder.

Più precisamente, la nostra lista è nata da una doppia presa di coscienza: che questo vuoto non fosse in realtà un vuoto, dal momento che in molti paesi, tra cui l’Italia, una parte di cittadini non aveva accettato le politiche liberiste per l’Europa indicate dall’allora premier britannico e dall’allora cancelliere tedesco. C’era un gruppo di cittadini particolarmente impegnato a salvare i servizi pubblici, che aveva combattuto contro la privatizzazione dell’acqua, che non accettava l’austerità e che, soprattutto, non accettava la confusione e l’identificazione fra destra e sinistra, che era invece la parola d’ordine della Terza via.

La seconda presa di coscienza è che in questo vuoto-non-vuoto c’erano partiti della sinistra radicale che erano stati sacrificati da leggi elettorali assurde e che, da soli, non riuscivano a ottenere risultati all’altezza delle proprie aspettative.

Alle elezioni europee abbiamo vinto per miracolo, perché se è vero che il vuoto non era vuoto, è anche vero che le nostre speranze iniziali erano molto più grandi dei numeri che abbiamo ottenuto alla fine. Questo risultato ha quindi un significato al tempo stesso positivo e negativo. Il segno positivo è che è stato giusto puntare in alto e in largo, voler includere al massimo, rappresentare tutte le anime e tutti i frammenti della sinistra. Il segno negativo è che abbiamo appunto vinto per miracolo, ossia soltanto in parte. Sono stati commessi errori, e gli errori insegnano molto. Sono delle lezioni, sempre. A mio avviso, quello che abbiamo vissuto (vincere per pochissimi voti) ci dice alcune cose sul futuro della lista.

Non dobbiamo dimenticare che siamo nati con il proposito di far nascere qualcosa di simile a Syriza, e che abbiamo scelto Alexis Tsipras come modello anche con il proposito di giungere a un amalgama delle forze della sinistra.

Questo ci dice che costruiremo il futuro della lista solo se cercheremo di essere sempre più inclusivi; solo se nessuno fra noi e fra i diversi partiti che hanno dato vita al nostro comune progetto cercherà di mettere il proprio cappello sulla lista, perché questo è il modo più sicuro di perdere le prossime elezioni. Per salvare la lista, nessun gruppo deve cadere nell’illusione di poter agire solo, senza gli altri.

Credo che questo sia importante soprattutto per voi che siete qui, a Bruxelles, che vi siete battuti per la lista e che continuate a farlo. Forse voi siete più liberi e più indipendenti che in Italia, dove la lista attraversa un periodo difficile.

Sapete perfettamente che le cose cambieranno, in ogni paese, solo se in Europa e nelle istituzioni il paradigma del liberismo verrà smantellato. Meglio sarebbe parlare di “dogma”, anziché di paradigma, dal momento che il liberismo è diventato un’ideologia – e le ideologie non si discutono mentre i paradigmi sì. È come per l’infallibilità papale nella Chiesa: non la si può mettere in questione. Abbiamo assistito a grandi contraddizioni, in questo senso. Per esempio, quando Juncker, il nuovo presidente della Commissione, ha criticato la trojka e il fiscal compact: proprio lui che ha dato il proprio consenso attivo all’una e all’altro. Oppure quando tutti i governi dicono che nelle presenti condizioni è necessario concentrarsi su politiche per la crescita, e alzano la voce invocando parametri più flessibili, ma nessuno di essi fa autocritica sul veleno che essi stessi hanno propinato per anni alle proprie società. La crisi continua a essere curata con il medesimo veleno che l’ha scatenata. Nessuno, nel governo italiano e nell’Unione europea, ammette che questa ricetta semplicemente non funziona. Ricordo qui una frase, attribuita a Albert Einstein: è pura insania ostinarsi a rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.

Dunque cosa significa, oggi, volere un’“altra Europa”? Significa, a mio avviso, riconcentrare i nostri obiettivi sui diritti (primi fra tutti quelli che riguardano il lavoro e l’immigrazione) e sulle guerre: sono queste le nostre emergenze. Quando dico “emergenza”, sono consapevole che si tratta di una parola utilizzata dai governi costantemente e da anni; dicono che siamo in emergenza, che la crisi è tale da rendere necessari la riduzione dei diritti, l’accentramento del potere esecutivo, l’indebolimento del potere giudiziario, lo svuotamento delle costituzioni democratiche.

Ma la parola “emergenza” viene brandita abusivamente: in generale, in periodi di crisi si cambiano le cose, mentre qui i governi gridano all’emergenza perché le cose restino come stanno. Il loro obiettivo è garantire lo status quo, e dunque il potere, il dominio dei mercati e degli apparati militari. E mantenere lo status quo significa al contempo immobilizzare i cervelli, far sì che le persone smettano di pensare. Non a caso in Italia è in corso una lotta feroce dell’intero Governo Renzi contro i “professoroni” che si permettono di criticarlo e contro i comitati cittadini. Insomma, contro il libero pensiero.

Di questa parola – “emergenza” – dobbiamo riappropriarci. Dobbiamo strapparla con forza a chi l’ha sequestrata a favore di forze anonime quali i mercati e il complesso militare-industriale.

La vera emergenza è la precarizzazione del lavoro, ed è la questione della sovranità (sovranità che gli Stati-nazione pretendono di aver concesso all’Europa: in effetti l’avevano già perduta, ma l’hanno trasferita a un’Unione europea che non è né solidale né sino in fondo democratica). Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, lo ha detto chiaramente: potete avere i risultati elettorali che volete, non ci fanno paura, perché a Francoforte le riforme sono assicurate dal “pilota automatico”.

Le vere emergenze sono i morti nel Mediterraneo (più di 20.000 dal 1988) e l’abolizione delle operazioni di salvataggio dei migranti come Mare Nostrum, sostituito da operazioni non più intese a salvarli ma a respingerli. Le vere emergenze sono le guerre e il consenso implicito dell’Europa a queste guerre. Lo vediamo in Ucraina: sulla natura antidemocratica e lesiva delle minoranze che caratterizza l’attuale regime di Kiev l’Unione Europea non ha speso una sola parola, mentre esercita un’enorme pressione sulla Russia, accodandosi alla strategia degli Stati Uniti. Non una sola parola sui morti civili della regione di Donbass, né sulle centinaia di migliaia di ucraini dell’Est che fuggono verso la Russia (non perché putiniani, ma in quanto russofoni), né sulle milizie paramilitari di estrema destra alle dipendenze dirette del ministero dell’Interno a Kiev.

L’unica vera emergenza è quindi l’estensione e la radicalità di questa crisi. Vorrei in conclusione ricordare ciò che ha detto Alexis Tsipras, citando Lenin: “Siamo radicali, sì, ma perché la realtà è radicale”.