I referendum delle società spezzate

Lettera al direttore de «La Stampa», 4 ottobre 2014

Caro direttore,

o per vizio ormai congenito, o per rimorso inconfessato, i governi europei tendono a far finta di niente, quando i propri cittadini esprimono malcontento e chiedono che l’Unione cambi alle radici. E accaduto dopo il voto del 25 maggio: la Commissione Junker è una non-risposta alle domande dell’elettorato. Ed è accaduto ancora una volta dopo il referendum scozzese del 18 settembre. Gli «unionisti» hanno vinto a malapena, e subito governo e laburisti giudicano la questione «risolta per una generazione»: il divorzio non s’ha da fare, dunque performativamente non si farà. Gli autonomisti hanno ottenuto la promessa di una devoluzione, ma il giuramento di Cameron è irto di tranelli. Primo fra tutti: se gli inglesi, che sono la stragrande maggioranza nel Regno, non potranno influire sui parlamenti regionali, allora anche questi ultimi dovranno smettere di sindacare sulle leggi decise dai deputati inglesi.

I secessionisti hanno raccolto il 44,7 per cento dei consensi. Non è poca roba, l’avvertimento comunque è forte, e chi governa in Europa lo sa, anche se subito dimentica quello che sa: ora bisogna farle, le devoluzioni. Altri paesi si ispireranno poi alla Scozia, a cominciare dalla Catalogna dove il 9 novembre si svolgerà una consultazione popolare sul separatismo (il referendum è ritenuto illegale sia dal governo Rajoy sia dai socialisti). Potrebbero seguire i baschi. E conosciamo le ricorrenti spinte autonomiste in Italia.

Le dissociazioni non cadono dal cielo. Sono risentimenti profondi che la crisi ha esasperato, ed è inutile etichettarli come estremismi populisti o, peggio, folcloristici. Siamo di fronte a vere e proprie secessioni sociali, non solo identitarie. I Sì più numerosi, in Scozia, vengono dai poveri, dai disperati. Il marasma finanziario ha scosso le fondamenta delle nazioni europee — antiche o recenti che siano — e ha messo in luce l’inanità, la vanitosa abulia, l’impotenza di sovranità nazionali che decidono ormai poco, dipendenti come sono dai mercati internazionali in economia, dagli Stati Uniti in politica estera.

Gli studiosi inglesi insistono su questo punto: Owen Jones sul Guardian parla di «società spezzata», e di forme di povertà che rimandano all’era vittoriana. In cinque anni di crisi, la ricchezza delle 1000 persone più benestanti è più che raddoppiata, inghiottendo un terzo del prodotto nazionale britannico. Per la prima volta dal dopoguerra, la Croce rossa torna a distribuire cibo agli indigenti. Nel 2014, centinaia di migliaia di sudditi del Regno non riescono a sfamarsi. La secessione nasce anche da qui, ed è il motivo per cui concerne l’intera l’Unione, Italia compresa. L’indecenza della disuguaglianza cresce ovunque.

Ne sono responsabili in particolar modo i laburisti, perché fu la terza via di Tony Blair a dilatare ineguaglianze e miseria. Il loro slogan nel referendum scozzese è stato: «Votate no, non vale il rischio». Affermazione davvero singolare per un partito di sinistra, perché non esistono trasformazioni sociali o istituzionali che non comportino rischi. Fu un rischio instaurare il Welfare, dare diritti ai lavoratori. Anche il suffragio universale fu – ed è – un rischio. È difficile, conclude Jones, «distinguere tra la pavidità del Labour e la spudoratezza dei conservatori».

Al tempo stesso tuttavia il referendum può indicare una via d’uscita possibile, come spesso succede nelle disgregazioni sociali. Può divenire un’occasione affatto inaspettata, se il governo Cameron negozierà sul serio la devoluzione promessa. Si può anche fantasticare, sul dopo referendum. Non si può escludere che, costretto dagli eventi, il Regno Unito scopra – in casa – le virtù di quel federalismo che con tanta protervia, con tanta mancanza di fantasia e curiosità, s’ostina da decenni a negare all’Unione europea.

Probabilmente è necessaria una grande crisi, o il trauma di una sconfitta bellica, perché i cervelli si mobilitino e pensino modelli di convivenza meno accentrati e prevaricatori, dentro i vecchi Stati nazione. Il federalismo tedesco, il più perfezionato in Europa, aveva tradizioni antiche ma fu imposto con la forza dalle potenze vincitrici, perché non nascesse più – Leviatano mortifero – il potente Stato egemone prussiano.

Sull’Observer del 21 settembre, Andrew Rawnsley deplora l’incongruenza degli inglesi, che si sono battuti per una costituzione federale nella Repubblica di Bonn, dopo la seconda guerra, e oggi sono incapaci di darsene una simile, pur avendone drammaticamente bisogno. Perché la crisi è una sorta di guerra, e non è semplice tenere insieme le membra disgiunte del Regno: la preponderante Inghilterra, il Galles, la Scozia, l’Irlanda del Nord.

Eppure un nuovo Stato federale non dovrebbe essere una novità, nel pensiero britannico. L’idea di un’Europa federale, fondata sulla solidarietà dei rischi e su una ridefinizione della pace, fu essenzialmente inglese, fin dall’800. È in Gran Bretagna che Luigi Einaudi scoprì l’invenzione federalista: l’apprese dall’economista Lionel Robbins, dal pacifista kantiano Lord Lothian, da William Beveridge noto per la creazione del Welfare State.

Abbiamo assistito al possibile sfascio, sventato in extremis, di uno Stato-nazione pluricentenario: quello britannico. Forse l’Unione ha bisogno proprio di questo: di morti annunciate degli Stati di ieri. Il referendum scozzese potrebbe insegnare al Regno Unito che non deve obbligatoriamente traversare una guerra, per darsi una costituzione multi-nazionale — scritta o non scritta – e scoprirsi un po’ più vicino al destino del continente.

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