La preminenza dello scienziato

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 2 giugno 2020

Non pochi scienziati europei di primo piano hanno consigliato ai governi un’uscita molto prudente dal confinamento, e continuano a farlo senza lasciarsi influenzare dalle scelte dei governi, dalle pressioni delle lobby economiche, dal desiderio diffuso di mettere tra parentesi il lockdown.

Non perché siano sicuri di una seconda ondata Covid, non perché disconoscano le esigenze dell’economia, ma perché osservano il perseverare della pandemia in Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, America Latina, o il suo riesplodere in Corea del Sud, e perché temono l’estendersi di una persuasione perniciosa e paradossale: il virus è alle nostre spalle, la pandemia è odiosa ma egualmente odiose sono le misure di cautela, visto che hanno limitato e limitano troppe libertà.

Hanno anche memoria delle passate pandemie. La Spagnola, ad esempio, cominciò con una prima ondata nel giugno 1918, seguita nell’autunno dello stesso anno da una seconda ondata cinque volte più grave e da una terza nel ’19, meno grave della seconda ma più forte della prima (il numero totale dei morti è incerto: fra 35 e 100 milioni).

Per tutti questi motivi gli scienziati sono sempre più considerati uccelli di malaugurio, anche quando non vantano certezze e sono dunque autentici scienziati. Guastano la festa della normalità ritrovata, usurpano la politica con i loro moniti (in Italia gli accusatori denunciano la “repubblica degli scienziati” paragonandola alla “dittatura dei magistrati”). Movimenti anti-lockdown e anti-mascherine sono sorti negli Stati Uniti, in Germania che pure ha contenuto il Covid meglio di altri, sporadicamente anche in Italia. Perfino i lavori di ricerca sono sotto attacco, quando i risultati complicano rapidi ritorni alla normalità. È il caso di Christian Drosten, prestigioso direttore dell’istituto di virologia all’ospedale Charité di Berlino, attaccato dal quotidiano «Bild» per uno studio sull’incidenza del virus nei bambini, pubblicato il 29 aprile. Drosten ha anche ricevuto un certo numero di minacce di morte.

Lo studio afferma che i bambini possono essere contagiosi come gli adulti, e che dunque la riapertura di asili e scuole elementari va gestita con la massima cautela. Il quotidiano ha reagito con indignazione, come se il virus fosse una colpa non imputabile ai bambini. Bollato come “scienziato star”, Drosten avrebbe sbagliato tutti i calcoli in maniera “poco pulita”. «Bild» fa campagna in favore dell’immunità di gregge. Si domanda addirittura se un “eccesso di igiene, come il continuo lavarsi le mani e l’uso di mascherine, non attenui le capacità del nostro corpo di resistere al virus producendo anticorpi”.

Uno dei motivi di quest’offensiva contro gli scienziati è il ruolo che hanno svolto durante la pandemia. Oltre a consigliare i governi vengono regolarmente convocati nei talk show televisivi, e per questa via influenzano anche il singolo cittadino. Sono divenuti più importanti degli economisti, e questo crea fastidio e desiderio che tornino a chiudersi nei loro laboratori.

Un elemento decisivo della loro influenza è la democratizzazione/circolazione della scienza. In epoche di urgenza la comunità scientifica si fa più accessibile, offrendo una “scienza aperta”. Nel dibattito pubblico non pesano più soltanto gli studi che ottengono, molto lentamente, la cosiddetta revisione paritaria (peer-review). Egualmente importanti sono oggi gli studi preliminari (pre-print studies), che attendono la valutazione dei pari. Lo studio di Drosten sulla contagiosità dei bambini è per ora un pre-print cui tutti possono accedere in internet, e questo ha innescato la campagna diffamatoria di «Bild».

La “scienza aperta”, detta anche cittadina, è una sfida per gli scienziati ma anche per i politici. Consente ai cittadini di conoscere meglio i pericoli pandemici e di esercitare un’autodeterminazione (la partecipazione al potere cui Amartya Sen dà il nome di empowerment) non sempre gradita ai politici e alle lobby economiche o farmaceutiche. Non c’è frase più ebete di quella pronunciata recentemente da Renzi: “Lo scienziato ti dice che c’è il coronavirus, il politico decide come affrontarlo”. È falso: se è indipendente, se dall’inizio ha preso sul serio il coronavirus non comparandolo all’influenza (le “sviste” sono state numerose in Italia), lo scienziato influenza anche i modi di combatterlo: consigliando i governi, continuando le ricerche di laboratorio, e illuminando i cittadini.

Come affrontare il virus, nelle fasi in cui i contagi calano? Gli esperti seri ammettono di non avere ricette definitive, e per questo è così importante che la “scienza cittadina” sia protetta da attacchi. La ricerca ci dirà se e come evitare nuovi lockdown generalizzati, concentrando gli sforzi sui rischi maggiori. Nei Paesi dove i contagi diminuiscono il virus non cessa infatti di essere una minaccia. Gli studi confermano che riesplode in precisi eventi di superdiffusione (superspread events), dove l’assembramento è intenso o la temperatura ambientale è bassa: nelle chiese (esplosione del virus a Francoforte e a Mount Vernon negli Stati Uniti), nei luoghi refrigerati di macellazione (nelle regioni del Nordrhein-Westfalen e Schleswig-Holstein), nei ritrovi chiusi, nei concerti in Giappone, in magazzini commerciali a Seul, in dormitori per lavoratori migranti a Singapore, nelle scuole in Israele. Gli stessi studi mostrano che il fattore R non basta, limitandosi a indicare una media di contagiati. Bisogna incrociarlo con un secondo parametro – il fattore K – che indica i modi di dispersione del virus e la sua attitudine a riesplodere “a grappolo” (cluster). I grappoli possono scatenare esplosioni anche se la media nazionale mostra che le persone contagiate dal singolo diminuiscono.

Una volta appurato che tali “eventi” restano pericolosi nei Paesi usciti dal lockdown, Drosten sostiene che bisogna ridefinire le politiche di contenimento concentrandosi su di essi: quando si scopre un contagiato, tutte le persone presenti all’evento vanno isolate prima ancora di testarle: “In questi casi i test arrivano comunque tardi. Conoscere i modi della dispersione facilita le riaperture che privilegiano la circolazione dell’aria”.

In attesa del vaccino, di farmaci risolutivi, di app funzionanti, il distanziamento fisico e l’igiene restano la precauzione basilare. Gli studi scientifici permetteranno ai governi di affinarla, e ai cittadini di difendersi con l’arma della conoscenza. Prendersela con le precauzioni equivale a togliere quest’arma a ciascuno di noi.

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Perché gli attacchi politici alla scienza fanno male a tutti

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 maggio 2020

Nella maggior parte dei paesi europei i governi hanno deciso un’uscita minimalista dal lockdown. La cautela è stata consigliata loro da esperti scientifici (virologi, epidemiologi, ecc.) e da importanti istituti di ricerca. Quando sono seri, e non si contraddicono con eccessiva frequenza, gli esperti hanno una sapienza specifica e uno sguardo lungo che i politici in genere non possiedono (tra gli esperti più prestigiosi internazionalmente: in Italia Massimo Galli; in Germania Christian Drosten, direttore dell’Istituto virologico nell’ospedale Charité a Berlino).

Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.

Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.

Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto R0 – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se R0 scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.

In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.

L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.

Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e R0) scenderanno significativamente.

Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al «Guardian». Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).

Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.

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