L’Occidente: un “giardino” che ci fa feroci

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 marzo 2023

Si stanno pagando con decine di migliaia di morti in Ucraina gli errori, le promesse tradite, la tracotanza, l’assenza di intuito e di capacità di penetrazione con cui l’Occidente ha gestito, sotto la guida di sei amministrazioni Usa, il dopo Guerra fredda e i rapporti con la Russia.

Guida priva di sagacia, che negli ultimi trentaquattro anni ha creato caos ovunque e l’ha chiamato “ordine basato sulle regole”, rules-based international order – le regole essendo quelle statunitensi.

La Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, ma la storia di questa violenza illegale ha radici in un passato sistematicamente occultato da chi, a Washington e in Europa, vede solo il segmento ucraino di un trentennio disastroso, che le amministrazioni Usa narrano come lotta del bene contro il male – come fantasticata ripetizione della guerra contro Hitler o favola di Cappuccetto Rosso, secondo il Papa. Qui in Occidente il bene, lì i barbari dell’inciviltà. Qui la potenza Usa, disperatamente ansiosa di apparire vincitrice della guerra fredda e unico egemone nel pianeta, lì gli Stati e popoli che quest’egemonia la rigettano perché rivelatasi incapace di produrre stabilità e convivenze incruente. È toccato a un europeo, il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, impersonare la hybris atlantista con le parole più demenziali: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”. Quale giardino? Quantomeno incongruo sproloquiare su giardini con la Francia di Macron sull’orlo dell’insurrezione popolare, l’Italia di Meloni che vuol abolire il reato di tortura (ma è vietato dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1984), la Polonia affamata di guerra nucleare, le guardie costiere libiche pagate dall’Ue che sparano sulla nave Ocean Viking per rimandare in Libia, in campi mortiferi, 80 migranti in fuga verso l’aiuola europea che ci fa tanto feroci.

A queste demenze siamo arrivati – accompagnate all’invio di armi sempre più offensive, uranio impoverito compreso – e c’è ancora chi parla, serio, di ritorno della guerra fredda. Non è guerra fredda quella che uccide l’Ucraina, ma esercitazione in guerre calde tra potenze atomiche. La Guerra fredda fu violenta e bugiarda, ma mai mancò la capacità di negoziare, di scansare la catastrofe, di aprire epoche di distensione, di Ostpolitik e di disarmo.

Oggi niente chiaroscuro, è tutto nero. A più riprese si è sfiorata la pace, tra Mosca e Kiev, e ogni volta Washington e Londra hanno messo il veto e imposto il proseguimento della guerra a un’Ucraina trattata al tempo stesso come eroe e vassallo. È accaduto una prima volta il 5 marzo ’22, subito dopo l’invasione, come rivelato lo scorso 4 febbraio dall’ex premier israeliano Naftali Bennett: Putin “capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky e non chiedeva più il disarmo dell’Ucraina”, Zelensky era pronto a seppellire l’adesione alla Nato (impegno iscritto nella Costituzione dal 2019). Ma venne il veto di Boris Johnson e poi di Biden (l’obiettivo secondo Bennett era “distruggere Putin” –smash Putin). Lo stesso è successo dopo la proposta di tregua in 12 punti (la pace appare solo come prospettiva) avanzata il 24 febbraio da Pechino: prima ancora di conoscere le reazioni di Zelensky e i risultati della visita di Xi Jinping a Mosca, Washington respingeva non solo la pace ma anche il cessate il fuoco.

Subito prima della visita a Mosca di Xi, tanto per mettere le cose in chiaro, la Corte penale internazionale emetteva il 17 marzo un mandato di arresto nei confronti di Putin per crimini di guerra. Washington ha applaudito, anche se una legge autorizza il presidente a usare la forza ogni qualvolta un americano è incolpato dalla Corte. Difficile trattare con chi hai appena definito un criminale. Negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina cozza contro il ripetersi di veti opposti alle tregue e l’evidente interesse Usa a demolire Putin.

Qualcosa però sta accadendo fuori del piccolo recinto Nato (e dell’alleanza tra servizi segreti dei cosiddetti “Five Eyes”: Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito). Qualcosa di planetario che il conflitto dissigilla. Due terzi dell’umanità sono contro guerra e sanzioni. L’egemone ha clamorosamente fallito in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Ha fallito in Iraq, Libia, Siria. Ha partorito mostri come lo Stato Islamico. Da oltre mezzo secolo ignora l’occupazione illegale della Palestina e accetta la “clandestinità” dell’atomica israeliana. Gli Stati Uniti sono più che mai egemonici dunque vittoriosi nell’Ue, ma collassano nel Sud globale: un territorio sempre più ostile all’interventismo Usa, più rassicurato da Cina e Russia. È il “momento Suez” degli Stati Uniti, dicono alcuni, evocando il fiasco di Londra, Parigi e Tel Aviv quando sfidarono Nasser occupando militarmente il canale egiziano nel 1956.

Il passato occultato da governi e giornali mainstream, in Occidente, sta già passando da quando è entrato in scena, con forza inattesa e formidabile, il nuovo attivismo di Pechino: prima con il piano di tregua in Ucraina, il 24 febbraio, seguito dalla visita di Xi a Mosca il 20 marzo; poi con la riconciliazione fra Iran e Arabia Saudita patrocinata da Xi, il 10 marzo. La riconciliazione scompiglia radicalmente il Medio Oriente allargato. Rassicura Assad in Siria, spunta i piani bellici israeliani, facilita la pace in Yemen, tranquillizza lo Stato afghano, che teme nuovi interventi Usa di “regime change”. A Iran e Arabia Saudita è stata prospettata l’adesione al gruppo non allineato dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): una vistosa promozione.

È consigliabile la lettura del rapporto pubblicato il 20 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, intitolato “L’egemonia Usa e i suoi pericoli”. Si parla di una quintupla egemonia, sempre più destabilizzante: egemonia politica (esportazioni della democrazia che “producono caos e disastri in Eurasia, Africa del Nord, Asia occidentale”), militare (uso sfrenato della forza), economica (egemonia del dollaro, politiche predatorie), tecnologica, culturale.

Il piano cinese sull’Ucraina è vago, certo. Volutamente vago. Ma letto assieme al testo sull’egemonia Usa diventa una forma di empowerment, di coscienza della propria forza condizionante. Il primo punto dovrebbe piacere a Kiev e a Mosca, visto che difende la sovrana integrità territoriale di tutti gli Stati Onu, e si accoppia a esigenze precise: applicazione non selettiva della legge internazionale (punto 1); architettura di una sicurezza europea senza espansioni delle alleanze militari (punto 2); neutralità delle operazioni umanitarie (punto 5), fine delle sanzioni unilaterali (punto 10).

Tra le righe, quel che si legge è un’alternativa al disordine causato dal suprematismo Usa. Inutile temere il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo: sta già succedendo, benvenuti nella realtà. I Brics contestano anche l’uso politico del dollaro. Gli scambi tra Cina, Russia, Arabia Saudita e Iran non avverranno più in dollari. È l’inevitabile trauma che viviamo. È la conferma solenne che oltre il giardino c’è ben più di una giungla.

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