La falsa memoria dell’Occidente verso un futuro di morte

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2024

Visto che si parla molto di memoria, trasformandola spesso in manovra diversiva, potremmo farne un uso meno opportunista e ricordare che tra febbraio e marzo non entriamo nel terzo, ma nell’undicesimo anno della guerra d’Ucraina. È più della Prima e della Seconda guerra mondiale messe insieme.

Il conflitto odierno ha una genealogia e trovare una soluzione che metta fine alle ostilità è possibile solo se si analizzano criticamente gli anni che precedono l’invasione del 24 febbraio 2022. È quello che gli occidentali si rifiutano di fare, convinti come sono del proprio primato mondiale e della propria ininterrotta, indiscutibile rettitudine. Se Navalny muore, l’assassino è Putin; se il giornalista Assange rischia la morte in carcere per aver pubblicato i leak di un whistleblower, la colpa è sua.

Ai confini orientali dell’Unione europea come in Palestina, l’Occidente a guida Usa non vede che l’ultimo segmento della storia – l’illegale invasione del 2022; il criminale eccidio inflitto da Hamas il 7 ottobre – e ignora volutamente gli eventi che hanno originato ambedue gli episodi.

Ignorare le rispettive storie lunghe incoraggia due comportamenti. Primo: fingere che le sconfitte militari di Kiev non esistano e che continuare ad armare Israele sia compatibile con la stabilità mediorientale. Secondo: volere con tutte le forze che le guerre perdurino (la guerra mondiale a pezzi denunciata da Papa Francesco). Chi chiede negoziati tra avversari, accordi di pace o di tregua, disarmo, superamento del nefasto dominio unipolare Usa ha rappresentanti in gran parte del pianeta, ma non negli Stati Uniti, non nell’Ue e non nelle destre europee, nell’ex sinistra e ancor meno tra i Verdi.

È nell’aprile del 2014 che inizia l’offensiva dell’esercito ucraino contro una parte del proprio popolo, i russofoni del Donbass (più di 14.000 morti in otto anni): un regolamento di conti voluto da chi a Kiev si propone di riscrivere la storia e spezzare il legame millenario russo-ucraino e russo-europeo. Ma, per capire come si sia giunti a quella guerra civile, occorre risalire ancora indietro negli anni ed evocare i primi allargamenti della Nato, compiuti nonostante la promessa fatta a Gorbaciov nel 1990: non estendere d’un pollice l’Alleanza (parola di James Baker, segretario di Stato americano).

Fin dal 2007 alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, Putin aveva avvertito quelli che ancora chiamava partner occidentali: “Abbiamo il diritto di chiedere: contro chi s’intende espandere la Nato? E cosa è successo con le garanzie dei nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi le dichiarazioni di allora? Nessuno riesce neanche a ricordarle”. Non meno dura la replica, durante la stessa conferenza, alle parole del ministro della Difesa italiano (Arturo Parisi, governo Prodi), secondo cui non solo l’Onu ma anche l’Unione europea e la Nato “possono legittimare l’uso della forza per combattere la violenza ingiusta e ripristinare la pace”. “Forse non ho udito correttamente – così Putin – ma i nostri punti di vista divergono. L’uso della forza può essere legittimato solo se la decisione è presa dall’Onu. Non abbiamo bisogno di sostituire l’Onu con la Nato e l’Unione europea”.

Già allora il monito di Putin fu ignorato: si scelse lo scontro con una potenza russa ritenuta moribonda. Ragion per cui l’espansione Nato proseguì. E nel 2008 l’Alleanza assicurò le porte aperte a due paesi confinanti con la Russia: Ucraina e Georgia. Ciononostante, nel 2010 una legge costituzionale in Ucraina decretò il non allineamento del Paese. Non fu gradito, e l’abbandono della neutralità venne annunciato nel 2014, dopo un semi-colpo di Stato voluto da Washington (e orchestrato dal vicesegretario di Stato Victoria Nuland), che infiltrò il movimento democratico Euromaidan con l’aiuto di miliziani neonazisti e destituì il governo Yanukovich, giudicato filorusso. L’adesione della Crimea alla Russia avvenne dopo le porte aperte della Nato all’Ucraina e alla Georgia, mentre imperversava l’offensiva dell’esercito e delle milizie ucraine in Donbass. Nel 2019 la volontà di adesione alla Nato fu iscritta nella Costituzione di Kiev.

Una volta riconosciuta questa storia lunga, il cammino verso la pace potrebbe un po’ accorciarsi, nonostante il cumulo di morti e l’inacidirsi dell’ostilità che ormai l’intralciano. Può accorciarsi a due condizioni: che si attivi la diplomazia e che si torni alla neutralità del 2010. Gli occidentali insistono a non volerlo. I governi di Washington e Londra hanno bloccato ogni tregua, perfino quando Kiev accettò un piano di pace nel marzo 2022, poche settimane dopo l’invasione russa. Pur d’impedire la neutralità prevista dal piano, l’invio di armi continua. L’intento è vincere la partita con Mosca fino all’ultimo soldato ucraino morto.

È la prova che i nostri governanti – in Italia, in Europa e negli Stati Uniti – si stanno abituando alla guerra e addirittura sembrano esservi affezionati come mai era accaduto dal 1945. Nessun governo europeo ha obiettato quando il segretario Nato Jens Stoltenberg il 10 febbraio ha incitato a prepararsi a un’economia di guerra e a “decenni di confrontazione con la Russia”. È finita l’epoca dei grandi accordi di disarmo negoziati in piena Guerra fredda, degli sforzi per sventare un nuovo conflitto mondiale, della grande paura dell’atomica. Forse perché i responsabili del crimine a Hiroshima e Nagasaki, essendo usciti vincitori dalla guerra, non sono mai stati processati. È finita anche l’Unione europea così come concepita in origine: come strumento per garantire la pace nel continente, non come fortilizio contro Mosca.

La parola d’ordine oggi è riarmo, a tutti i costi. A questo deve servire l’Unione europea. Questo promette Ursula von der Leyen, candidata alla rielezione come presidente della Commissione: difesa comune con più spese militari e meno investimenti nella transizione ecologica, troppo costosi in tempi di riarmo e di anteguerra.

È significativo in questo quadro il nuovo Patto di Stabilità approvato il 10 febbraio da Consiglio Ue e Parlamento europeo. Per la prima volta l’aumento delle spese militari figura tra le riforme che gli Stati membri devono attuare per non rischiare infrazioni (punto 2.3 del Patto). I precedenti Patti di Stabilità avevano umiliato la sovranità della Grecia con il ricorso alla “governance” della trojka (Commissione, Banca centrale europea, Fondo monetario), ma almeno non contenevano alcun vincolo di natura militare. Ora a esercitare la governance sono gli apparati militari-industriali e le loro lobby. Sono loro che nell’Ue si “unificano”.

La guerra è così accettata, chiamata. Diventa lievito delle industrie. Promette “crescita e posti di lavoro”, come assicurato a ottobre dal segretario di Stato americano Blinken e dal ministro della Difesa Austin. È sinonimo di stabilità. Questa è l’Europa della Difesa magnificata da chi si proclama europeista e atlantista. Lo spegnersi in Occidente della paura della guerra e dell’atomica mette spavento.

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L’Occidente: un “giardino” che ci fa feroci

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 marzo 2023

Si stanno pagando con decine di migliaia di morti in Ucraina gli errori, le promesse tradite, la tracotanza, l’assenza di intuito e di capacità di penetrazione con cui l’Occidente ha gestito, sotto la guida di sei amministrazioni Usa, il dopo Guerra fredda e i rapporti con la Russia.

Guida priva di sagacia, che negli ultimi trentaquattro anni ha creato caos ovunque e l’ha chiamato “ordine basato sulle regole”, rules-based international order – le regole essendo quelle statunitensi.

La Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, ma la storia di questa violenza illegale ha radici in un passato sistematicamente occultato da chi, a Washington e in Europa, vede solo il segmento ucraino di un trentennio disastroso, che le amministrazioni Usa narrano come lotta del bene contro il male – come fantasticata ripetizione della guerra contro Hitler o favola di Cappuccetto Rosso, secondo il Papa. Qui in Occidente il bene, lì i barbari dell’inciviltà. Qui la potenza Usa, disperatamente ansiosa di apparire vincitrice della guerra fredda e unico egemone nel pianeta, lì gli Stati e popoli che quest’egemonia la rigettano perché rivelatasi incapace di produrre stabilità e convivenze incruente. È toccato a un europeo, il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, impersonare la hybris atlantista con le parole più demenziali: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”. Quale giardino? Quantomeno incongruo sproloquiare su giardini con la Francia di Macron sull’orlo dell’insurrezione popolare, l’Italia di Meloni che vuol abolire il reato di tortura (ma è vietato dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1984), la Polonia affamata di guerra nucleare, le guardie costiere libiche pagate dall’Ue che sparano sulla nave Ocean Viking per rimandare in Libia, in campi mortiferi, 80 migranti in fuga verso l’aiuola europea che ci fa tanto feroci.

A queste demenze siamo arrivati – accompagnate all’invio di armi sempre più offensive, uranio impoverito compreso – e c’è ancora chi parla, serio, di ritorno della guerra fredda. Non è guerra fredda quella che uccide l’Ucraina, ma esercitazione in guerre calde tra potenze atomiche. La Guerra fredda fu violenta e bugiarda, ma mai mancò la capacità di negoziare, di scansare la catastrofe, di aprire epoche di distensione, di Ostpolitik e di disarmo.

Oggi niente chiaroscuro, è tutto nero. A più riprese si è sfiorata la pace, tra Mosca e Kiev, e ogni volta Washington e Londra hanno messo il veto e imposto il proseguimento della guerra a un’Ucraina trattata al tempo stesso come eroe e vassallo. È accaduto una prima volta il 5 marzo ’22, subito dopo l’invasione, come rivelato lo scorso 4 febbraio dall’ex premier israeliano Naftali Bennett: Putin “capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky e non chiedeva più il disarmo dell’Ucraina”, Zelensky era pronto a seppellire l’adesione alla Nato (impegno iscritto nella Costituzione dal 2019). Ma venne il veto di Boris Johnson e poi di Biden (l’obiettivo secondo Bennett era “distruggere Putin” –smash Putin). Lo stesso è successo dopo la proposta di tregua in 12 punti (la pace appare solo come prospettiva) avanzata il 24 febbraio da Pechino: prima ancora di conoscere le reazioni di Zelensky e i risultati della visita di Xi Jinping a Mosca, Washington respingeva non solo la pace ma anche il cessate il fuoco.

Subito prima della visita a Mosca di Xi, tanto per mettere le cose in chiaro, la Corte penale internazionale emetteva il 17 marzo un mandato di arresto nei confronti di Putin per crimini di guerra. Washington ha applaudito, anche se una legge autorizza il presidente a usare la forza ogni qualvolta un americano è incolpato dalla Corte. Difficile trattare con chi hai appena definito un criminale. Negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina cozza contro il ripetersi di veti opposti alle tregue e l’evidente interesse Usa a demolire Putin.

Qualcosa però sta accadendo fuori del piccolo recinto Nato (e dell’alleanza tra servizi segreti dei cosiddetti “Five Eyes”: Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito). Qualcosa di planetario che il conflitto dissigilla. Due terzi dell’umanità sono contro guerra e sanzioni. L’egemone ha clamorosamente fallito in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Ha fallito in Iraq, Libia, Siria. Ha partorito mostri come lo Stato Islamico. Da oltre mezzo secolo ignora l’occupazione illegale della Palestina e accetta la “clandestinità” dell’atomica israeliana. Gli Stati Uniti sono più che mai egemonici dunque vittoriosi nell’Ue, ma collassano nel Sud globale: un territorio sempre più ostile all’interventismo Usa, più rassicurato da Cina e Russia. È il “momento Suez” degli Stati Uniti, dicono alcuni, evocando il fiasco di Londra, Parigi e Tel Aviv quando sfidarono Nasser occupando militarmente il canale egiziano nel 1956.

Il passato occultato da governi e giornali mainstream, in Occidente, sta già passando da quando è entrato in scena, con forza inattesa e formidabile, il nuovo attivismo di Pechino: prima con il piano di tregua in Ucraina, il 24 febbraio, seguito dalla visita di Xi a Mosca il 20 marzo; poi con la riconciliazione fra Iran e Arabia Saudita patrocinata da Xi, il 10 marzo. La riconciliazione scompiglia radicalmente il Medio Oriente allargato. Rassicura Assad in Siria, spunta i piani bellici israeliani, facilita la pace in Yemen, tranquillizza lo Stato afghano, che teme nuovi interventi Usa di “regime change”. A Iran e Arabia Saudita è stata prospettata l’adesione al gruppo non allineato dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): una vistosa promozione.

È consigliabile la lettura del rapporto pubblicato il 20 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, intitolato “L’egemonia Usa e i suoi pericoli”. Si parla di una quintupla egemonia, sempre più destabilizzante: egemonia politica (esportazioni della democrazia che “producono caos e disastri in Eurasia, Africa del Nord, Asia occidentale”), militare (uso sfrenato della forza), economica (egemonia del dollaro, politiche predatorie), tecnologica, culturale.

Il piano cinese sull’Ucraina è vago, certo. Volutamente vago. Ma letto assieme al testo sull’egemonia Usa diventa una forma di empowerment, di coscienza della propria forza condizionante. Il primo punto dovrebbe piacere a Kiev e a Mosca, visto che difende la sovrana integrità territoriale di tutti gli Stati Onu, e si accoppia a esigenze precise: applicazione non selettiva della legge internazionale (punto 1); architettura di una sicurezza europea senza espansioni delle alleanze militari (punto 2); neutralità delle operazioni umanitarie (punto 5), fine delle sanzioni unilaterali (punto 10).

Tra le righe, quel che si legge è un’alternativa al disordine causato dal suprematismo Usa. Inutile temere il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo: sta già succedendo, benvenuti nella realtà. I Brics contestano anche l’uso politico del dollaro. Gli scambi tra Cina, Russia, Arabia Saudita e Iran non avverranno più in dollari. È l’inevitabile trauma che viviamo. È la conferma solenne che oltre il giardino c’è ben più di una giungla.

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