Contro l’ira, fare la pace con l’Iran

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 ottobre 2023

È rovinoso nascondersi i pericoli mortali che s’annidano per Israele come per Gaza, e continuare a dividersi, in Italia e Occidente, fra buoni amici di Israele e cattivi fiancheggiatori dei palestinesi.

La verità è che l’invasione di Gaza potrebbe culminare in strage, perché come potrà l’invasore distinguere tra civili e terroristi di Hamas in zone così popolose, e come potranno fuggire gli abitanti se i valichi son chiusi? E la verità è che lo Stato d’Israele è oggi minacciato esistenzialmente, per aver vissuto con gli occhi bendati sin da quando nacque, adottando la mortifera menzogna sulla “Terra senza popolo per un popolo senza terra”. Se li bendò definitivamente dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando ebbe la sconsideratezza di non restituire i territori che aveva occupato: doveva farlo “sin dal settimo giorno”, disse oltre vent’anni fa l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair, consulente legale di Rabin.Israele è minacciato esistenzialmente non per una sua congenita debolezza o fragilità – è osceno impersonarlo nella figura dell’ebreo perennemente vulnerabile – ma perché dagli anni 60 è una potenza atomica che continua indefessamente a negarsi come tale (la chiamano “ambiguità nucleare”, l’artefice fu il laburista Shimon Peres), che non aderisce a trattati di disarmo o proliferazione e che non possiede quindi flessibilità negoziale – tranne brevi intervalli, chiusi dall’assassinio di Rabin nel 1995.Questa condizione gli ha permesso di frenare attacchi su larga scala, ma ha trasformato Israele in potenza regionale troppo forte ma immobile, incapace non solo di perizia negoziale, ma anche di chiaroveggenza sulle proprie storiche responsabilità, sul proprio futuro destino, sui pericoli che gli si accampano davanti, oggi sotto forma della autentica polveriera che i governi d’Israele hanno fabbricato con le proprie mani ai confini con Gaza, foraggiando Hamas in funzione anti-Arafat.È uno dei motivi per cui il regime iraniano si va convincendo che l’unico modo per controbilanciare Israele, in prospettiva, è dotarsi anch’esso dell’atomica, in modo da dissuadere Israele o Stati Uniti da attacchi e guerre di regime change. Basta una piccolissima bomba per polverizzare Israele, il suo territorio è minuscolo. L’ambiguità nucleare si basava sull’illusione che non sarebbero apparse nella regione ambizioni nucleari concorrenti. È pensiero magico: anche se Teheran non possiede ancora la bomba, le ambizioni ci sono.Qui non si tratta di aprire negoziati Israele-Hamas: le atrocità terroriste non consentono compromessi di sostanza, e Hamas non ha riconosciuto Israele come fece Arafat alla vigilia degli accordi di Oslo nel ’93. I paragoni con l’Ucraina sono zoppicanti: Putin non è Hamas, ma un uomo di Stato che per decenni ha tentato pacificamente di scongiurare eccessive estensioni Nato, senza riuscirci. In Medio Oriente si tratta di avviare negoziati non finti tra Usa, Israele e rappresentanti palestinesi, coinvolgendo non tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran, in primissima linea e con la massima urgenza. L’Iran pesa su Hamas (e sul libanese Hezbollah): se non trattato come Stato canaglia, potrebbe facilitare trattative puntuali e forse durature.

Ogni ricerca di soluzione dovrà quindi avere come oggetto principale il futuro palestinese e la promessa di una tangibile, graduale restituzione di territori occupati, in modo da consentire che su di essi possa nascere uno Stato palestinese sovrano e minimamente funzionante. Nascita sempre più perigliosa: anche questo non andrebbe nascosto. La Cisgiordania è occupata da circa 670.000 coloni israeliani – inclusi 220.000 coloni a Gerusalemme Est, legalmente parte della Cisgiordania – e non solo è occupata: le milizie dei coloni stanno attuando massicci pogrom antipalestinesi, col consenso più o meno tacito delle destre religiose al governo.

Sono distrutti i pozzi dei residenti palestinesi, uccisi civili, espropriate terre, case, strade. Amira Hass testimonia su Haaretz che in questi giorni pogrom e uccisioni sono aumentati in Cisgiordania. I palestinesi parlano di seconda Nakba (“catastrofe”), la prima essendo quella del ’48, quando milioni di loro furono banditi, per imporre la favola della terra senza popolo. Come stupirsi che i banditi e i loro discendenti non diventino banditi armati.

Fino a quando non finirà questa Nakba, che sminuzza le terre attribuite ai Palestinesi, è vano ripetere il mantra “due popoli in due Stati”. All’origine delle atrocità terroristiche c’è la politica di apartheid attuata dai governi israeliani. Non è Hamas a dirlo. Dal 2002 lo dice l’ex procuratore generale israeliano Michael Ben-Yair e tanti israeliani.

In questo contesto varrebbe la pena fare un po’ di ordine nel nostro linguaggio, per aggirare qualche errore. Soprattutto in Italia ed Europa, poco influenti in Medio Oriente ma importanti per quel che dicono.

Come prima cosa, sarebbe consigliabile disgiungere Israele e popolo ebraico (oltre che Israele e diaspora ebraica). Non farlo danneggia gli ebrei e significa far propria la “legge sullo Stato Nazione” proposta da Netanyahu e adottata nel luglio 2018, secondo la quale “Israele è la patria nazionale del popolo ebraico”, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei, e l’arabico è declassato da lingua ufficiale a lingua con “statuto speciale”. La legge è assai controversa in patria ed è in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Il 21 per cento degli israeliani sono arabi palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3%), i drusi (2%), i cristiani (2%). Tutti israeliani, ma non ebrei. Alcuni illustri ebrei israeliani sono giunti fino a ripudiare dimostrativamente l’ebraismo, per protesta contro la legge.

Il secondo errore è definire Israele come la più grande democrazia in Medio Oriente. È solo in parte vero, se si considerano la libertà di stampa, di dimostrazione, di voto. Ma la democrazia non è compatibile con l’occupazione di territori, l’aumento delle colonie e i diritti negati o declassati dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

Terzo malinteso: Gaza non è un territorio che Israele nel 2005 ha smesso di occupare. Israele ha ritirato le colonie ma esercita su di esso un controllo aereo, terrestre, marittimo; fornisce acqua, energia, cibo, medicine. Non si può né entrare né uscire da Gaza a causa del blocco/assedio israelo-egiziano. Ci sarà qualche motivo per cui si parla di prigione a cielo aperto, o secondo Giorgio Agamben di campo di concentramento. Secondo la legge internazionale, chi esercita un “controllo” su un determinato territorio è giuridicamente responsabile della sussistenza di chi lo abita.

Infine l’argomento del generale Mini, decisivo («Il Fatto Quotidiano» del 12 ottobre): “È militare e antico il detto ‘in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira’”. L’ira è appena sopportabile nei talk show. Sul terreno mina la sopravvivenza sia di Israele sia della Palestina.

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La guerra oscena dei soldi mischiati a valori e sangue

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 agosto 2021

Al pari di altri leader europei, Draghi ha speso poche parole sul ritiro di Washington e della Nato dall’Afghanistan. Si è limitato a dire che il rientro degli italiani e dei cooperanti afghani avverrà nel rispetto dei diritti umani, e che una cooperazione mondiale dovrà avere come sede il G20. Ha poi invitato a “riflettere sull’esperienza” passata, ma non ha azzardato alcun tipo di riflessione visto che “non è questa la cosa più importante”.

È la più importante, invece. Sapere perché la guerra d’invasione sia stata inutile oltre che nefasta, e come abbia potuto durare 20 anni, mietere tanti morti, non produrre alla fine altro che caos: rispondere a tali domande è cruciale, altrimenti non proveremo che smarrimento di fronte a un conflitto che finisce in modo così catastrofico: ben più catastrofico di quanto avvenne dopo la guerra di 9 anni condotta dall’Urss. Il governo pro-sovietico sopravvisse qualche anno dopo il ritiro del 1989; il governo di Ashraf Ghani protetto da Washington si è dato alla fuga immediatamente.

Quanto al G20, Draghi e molti suoi colleghi ignorano la necessità di trattare non solo con Russia, Cina e Turchia ma anche e soprattutto con i due Paesi che pesano maggiormente sulle sorti afghane e che tuttavia non sono nel Gruppo dei Venti: l’Iran che ha un lungo confine con l’Afghanistan (4 milioni di Hazara sciiti vivono nel timore), e il Pakistan che è il primo interlocutore-garante dei talebani. Senza di loro la guerra civile afghana è assicurata.

Nessun dirigente europeo ha mostrato di voler imparare dalla disfatta, e infatti la parola sconfitta è assente. Fa eccezione Angela Merkel, che ha ammesso errori ma non ha specificato quali, né quando e perché furono commessi: dunque le sue parole restano vacue. In Europa ci si preoccupa giustamente degli afghani traditi, che fuggiranno dal proprio paese. O del peso esercitato dai talebani sul narcotraffico (Roberto Saviano). O delle donne che potrebbero patire persecuzioni. Ma il vero dramma è occultato: la fine di un’Alleanza Atlantica creata per fronteggiare l’Urss ma che nel dopo Guerra fredda non ha saputo far altro che provocare o indirettamente favorire ulteriori guerre, tutte fallimentari: in Afghanistan, Siria, Iraq, Somalia, Libia, Sahel. L’appoggio sistematico agli integralisti più radicali: contro l’Urss in Afghanistan, contro Assad in Siria. L’incapacità di costruire un sistema di sicurezza internazionale che oltrepassi il multilateralismo – la forma gentile dell’atlantismo – e diventi infine multipolare, composto di potenze non omologabili alle idee di civiltà di volta in volta dominanti in occidente.

I difensori dei diritti delle donne conducono giuste battaglie ma non sempre in buona fede. Non solo perché la politica dei talebani è ancora incerta, ma perché i diritti sono stati in questo ventennio una conquista nelle grandi città, non nei villaggi. Perché sono migliaia le donne e i bambini morti sotto le bombe Usa. Perché l’Afghanistan, come del resto l’Iraq, non ha mai sopportato le aggressioni, anche liberatrici, dei forestieri. E chissà, forse i talebani, o una parte di essi, hanno imparato dalle ultime guerre più cose di noi. Forse daranno vita a governi più inclusivi delle varie etnie, e a forme di pacificazione con i Paesi limitrofi che scongiurino devastanti guerre civili.

La confusione delle nostre menti è rafforzata da ventennali menzogne. Ed è una confusione che persiste perché buona parte delle sinistre e dei commentatori sono figli più o meno consapevoli del pensiero neo-conservatore, del suo falso umanitarismo, delle teorie sullo scontro fatale tra culture. Tessono le lodi di Gino Strada, ma in cuor loro sperano che alle guerre infinite facciano seguito guerre civili altrettanto infinite, che diano diritti alle donne bombardandole.

Riflettere sull’esperienza passata vuol dire fare il punto sulle origini di una guerra che apparentemente fu una risposta all’attentato dell’11 settembre 2001. Fu la prima finzione, subito seguita dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam in Iraq. Gli attentatori dell’11 settembre trovarono rifugio in Afghanistan ma erano legati all’Arabia Saudita, alleata di Washington.

Un’altra bugia riguarda il denaro “speso in Afghanistan”: oltre 3000 miliardi di dollari. Non sono stati spesi “in Afghanistan”. Hanno arricchito rappresentanti dei governi fantoccio, e in primo luogo le industrie delle armi in Usa ed Europa. Andrew Cockburn spiega bene come il complesso militare-industriale esca non perdente ma vincente dal conflitto, avendo accumulato profitti enormi dalla vendita di armi spesso inutilizzabili («The Spectator», agosto 2021). Il caso più spettacolare: la vendita degli aerei da trasporto italiani G-222, comprati dagli Usa per questa guerra (500 milioni di dollari). John Sopko, l’Ispettore Generale per la Ricostruzione Afghana nominato nel 2012 dal Congresso Usa ha rivelato: “I G-222 erano aerei del tutto inadeguati, inadatti alle altitudini e al clima”. I loro relitti giacciono oggi nei pressi dell’aeroporto di Kabul. La sentenza di Sopko: “La ricostruzione afghana è un villaggio Potemkin”. Una finzione.

Biden ha mantenuto la promessa del ritiro, anche se la gestisce male, ma quel che dice sulla colpa del governo e dell’esercito di Kabul è in minima parte verosimile (“Le truppe americane non dovrebbero combattere e morire in una guerra che le forze afghane non sono disposte a combattere per conto proprio”). Se gli afghani non erano “disposti” è colpa di quattro amministrazioni Usa che li hanno male attrezzati e infine abbandonati.

Dopo aver fatto il guaio, i belligeranti temono ora i suoi effetti inevitabili: l’arrivo dei profughi. Macron chiede di “irrobustire” i confini contro i “flussi migratori irregolari”, come se i profughi avessero il tempo di verificare la “regolarità” della loro fuga. La speranza è di mantenere, come se nulla fosse, gli accordi sui respingimenti negoziati fra Ue e Kabul nell’ottobre 2016 (Joint Way Forward on migration issues).

La parola d’ordine è dunque: guardare avanti, non attardarsi in autocritiche. Non imparare dagli errori, ma commetterne di nuovi preservando strutture fallimentari come la Nato, proteggendo le lobby militari che mischiano oscenamente “valori” e guerre, tuonando contro la Cina che minaccia Taiwan. Il vuoto di riflessioni non promette niente di buono. La spedizione in Afghanistan finisce ma già gli apparati militari-industriali d’occidente si preparano a future guerre, dirette o per procura.

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