Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2024

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.

C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota automatico” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata. Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen. La concorrenza fra le due persone è finta.

Chi legga il discorso dell’ex Presidente del consiglio, a tutto penserà tranne che a un pensatore e protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.

Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).

Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

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Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

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Meloni, l’album di famiglia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 ottobre 2022

Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri dello Stato e parte dei poteri forti.

L’ex magistrato ha ricordato le trame nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco.

Si può capire l’ira di Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto, con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda, il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta – parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?). “Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte.

Intanto il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili: crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda.

Non che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi: fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (Sapevatelo su Rieducational Channel!) che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc. Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato: ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina.

Come neoliberista/illiberale, infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. (…) Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe con collo più alto.

La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano Ritorno della Politica e Meritocrazia.

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Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

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Gli appelli a Draghi e il populismo delle élite servili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 luglio 2022

Chiedendo al Parlamento un “nuovo patto di fiducia”, ieri al Senato, Mario Draghi ha usato toni talmente sprezzanti verso i partiti (5 Stelle in primis, ma anche Lega e Forza Italia) che alla fine ha subito una vistosa sconfitta. Non è chiaro se fosse questo il calcolo, se la sua proposta di rifondazione del patto fosse un bluff. È una decisione che Draghi ha motivato con un’argomentazione al tempo stesso singolare e insolente verso il Parlamento. Chiedendo ai parlamentari se fossero pronti a una ricostruzione del patto ha concluso il suo intervento così: “Sono qui, in quest’aula, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani”.

Parlamento e partiti servono per la fiducia ma le loro esigenze sono svilite, sia quelle dei 5 Stelle sia quelle della Lega. I molti appelli (sindaci, accademici, imprenditori) che hanno implorato il presidente del Consiglio di non andarsene si sostituiscono nella mente di Draghi al suffragio universale, ai sondaggi, perfino al voto delle Camere. Il rapporto di fiducia Draghi ha immaginato di poterlo stringere direttamente col quello che ritiene essere il popolo italiano nella sua interezza, come fanno i capi di Stato nelle monarchie repubblicane. Alcuni parlano di populismo delle élite. Sembra un ossimoro ma non lo è. Il populismo delle élite ripete da anni che la politica è un disastro e il suffragio universale un azzardo pericoloso. La scommessa sugli omaggi di sindaci e imprenditori è stata contrassegnata da dismisura ed è naufragata.

Quel che più colpisce, negli appelli pro-Draghi, è la totale indifferenza alle richieste avanzate da Giuseppe Conte in nome del Movimento 5 Stelle. Erano richieste che avevano un filo conduttore: la questione sociale e la riconversione ecologica. Erano domande essenziali che esigevano risposte concrete e non i dinieghi rabbiosi offerti ieri dal presidente del Consiglio (su Reddito di cittadinanza, Superbonus, salario minimo, precarietà).

Spesso sono domande e critiche espresse anche dall’Ue, come l’introduzione del salario minimo, le politiche contro la precarietà e la povertà, la riforma della giustizia che introduce l’improcedibilità dei processi e che secondo il procuratore Gratteri “risponde agli auspici del papello di Riina”.

Ma chi ha firmato gli appelli non ha contemplato neppure da lontano la necessità di risposte chiare di Draghi sui drammi sociali menzionati da Conte: non era questo che domandavano, ma un regolamento dei conti che frantumasse e togliesse di mezzo i destabilizzatori che fanno capo a Conte. Nel mirino di Draghi non c’era solo il M5S: tutti i partiti che si preoccupano dei propri elettori sono stati oggetto di biasimo da parte dell’effimero monarca di Palazzo Chigi, a cominciare da Lega e Forza Italia che avevano puntato su una coalizione completamente nuova, senza 5 Stelle. Sotto tiro sono la dialettica democratica e i partiti in quanto tali che ancora una volta – come quando Conte fu silurato, o Mattarella rieletto presidente – vengono giudicati rovinosi, soprattutto quando vogliono esistere. Stiamo per perdere il tecnico mondialmente più rinomato, piangevano gli appelli e gran parte della stampa, e il buio era alle porte.

Il colmo lo ha raggiunto Antonio Scurati, in una lettera a Draghi sul Corriere del 17 luglio: lo scrittore gli ha chiesto di “umiliarsi”, e di “scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti”. Gli ha chiesto di scendere dalle “vette inarrivabili” della “vertiginosa responsabilità” esercitata in passato e di “battersi nelle fosse della politica politicante dove il combattimento è quasi sempre brutale, rozzo, sleale e meschino”. La diagnosi conclusiva: Draghi è “spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della Sua mano sinistra”. Nessun altro appello ha raggiunto tali vette di impudenza, ma tutti chiedono fra le righe l’uomo forte che – nelle crisi multiple che viviamo – sgomini la fossa dei dissensi e delle obiezioni. Forse l’eguaglia solo l’appello del vicepremier ucraino Iryna Vereshchuk: “Con leader come Mario Draghi vinceremo questa guerra che si consuma non in Ucraina ma nel continente europeo”.

Con l’eccezione di alcuni rappresentanti del Pd, e di politici come Bersani, il partito di Letta e gran parte della stampa hanno condiviso questa strategia di occultamento della questione sociale-ecologica e della battaglia contro ulteriori invii di armi all’Ucraina, che sono al centro delle richieste di Conte. Confermano quello che i più avveduti sanno: il Pd non è più sinistra, ma ex-sinistra. La sinistra è un campo disabitato che Conte potrebbe occupare, se non fosse una formazione gravemente frantumata e se si fosse staccata prima dal governo.

L’elenco di quel che potrebbe accadere dopo Draghi è copioso e inaudito, secondo gli appelli: sfracello del Piano di ripresa e resilienza innanzitutto (i motivi non sono mai indicati), caos e allarme dei mercati, inflazione e prezzi dell’energia alle stelle (verrebbe meno il tetto ai prezzi energetici chiesto dal governo, non approvato dall’Ue) e non per ultimo, disallineamento dell’Italia dall’Unione europea e dalla Nato.

Anche qui abbondano calunnie e disinformazioni. Conte avrebbe il sostegno di Putin, che manovra per destabilizzarci. Nessuna risposta viene data alla domanda centrale di Conte: “La nostra partecipazione a questi consessi (Nato-Ue) si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geopolitica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. È una domanda legittima, se si considera che Draghi è sempre accostato a Parigi e Berlino, nonostante il suo abissale silenzio sulle riserve e preoccupazioni di Macron e Scholz.

La “sudicia congiura” denunciata da Scurati non era dunque contro Draghi, ma contro Conte. Ha finito col mandare in rovina anche il consenso del centrodestra, e ora mette in forse il campo progressista fra Pd e 5Stelle, Articolo 1, Leu. A Letta rimangono per ora Renzi e Calenda, come alleati sicuri. Anche i suoi calcoli, elaborati assieme a Draghi, sembrano sfociare in disastro.

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Cappuccetto rosso e il lupo russo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 17 giugno 2022

Sempre più si riduce e scompare lo spazio dedicato dai media alla guerra in Ucraina, che a sua volta cancella le guerre in Siria, Yemen o Libia. “La terza guerra mondiale è stata dichiarata”, constata il Papa nel colloquio pubblicato da «La Civiltà Cattolica»: procede “a pezzi e bocconi” ma è ormai trama dei nostri tempi.

Il pezzo ucraino di guerra è specialmente vistoso, perché ha scatenato in Occidente una corsa al riarmo e alle sanzioni che affamerà il pianeta, e perché sono implicate le due superpotenze atomiche: Mosca che in febbraio ha spietatamente attaccato e Washington che da anni arma e addestra gli ucraini. Ma anche questo conflitto, se dura molto, scomparirà dagli schermi pur restando trama dei nostri tempi.

Angela Merkel parla di tragedia, nell’intervista del 6 giugno allo «Spiegel», perché lei si sforzò di evitare il peggio: fin dal 2015 si oppose all’invio di armi a Kiev, e con Parigi tentò di conciliare le esigenze russe e ucraine tramite gli accordi di Minsk. Fu boicottata dagli Usa, e Kiev rifiutò l’autonomia, specie linguistica, che gli accordi prescrivevano per le province russofone del Donbass. Oggi la Merkel riconosce che l’ordine di sicurezza europea cui ambiva è fallito, che Putin ha reagito con violenza ingiustificata, ma non si pente: “Se la diplomazia fallisce non è detto che diventi inutile”.

Anche nelle nostre menti la terza guerra mondiale c’è e non c’è; non siamo belligeranti ma combattiamo inviando armi in grado di colpire la Russia; formalmente non c’è stato di eccezione ma i grandi giornali pubblicano liste di cosiddetti “putiniani” perché contrari alla linea degli alti comandi. Cos’altro è questo, se non stato di eccezione e maccartismo. Quanto all’alto comando, non ne conosciamo il volto, l’ubicazione. A seconda delle convenienze si addita Palazzo Chigi, i Servizi, il Copasir, i giornali mainstream, in un immondo scarico di responsabilità.

Tanto per fare un esempio, il «Corriere della Sera» ripete che la pagina del 5 giugno con la lista di proscritti stilata dai Servizi è uscita perché i giornali seri “danno le notizie”. Ma sono state le firmatarie dell’articolo – una di esse vicedirettore – a decidere l’impaginazione piuttosto indecente della notizia in questione e a corredarla di foto segnaletiche che denunciano, per intimidire chiunque scriva sulla guerra, nove “putiniani”. Non tutti i nomi escono dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. L’affare non è pulito: per il «Corriere» questa guerra ha da farsi anche in casa, senza troppi riguardi.

Dice il Papa che dobbiamo abbandonare lo “schema di Cappuccetto Rosso, con Cappuccetto che è buono e il lupo che è cattivo”. Che “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto”. Che le idee prive di esperienza sono “eresie”, perché “scollegate dalla realtà umana”: le idee possono essere discusse, ma “quel che conta è il discernimento che porta all’azione”.

Discernere gli eventi era possibile già nel 2014, quando in Donbass insorsero i separatisti russofoni e l’esercito di Kiev contrattaccò assieme alle milizie neonaziste (i neonazisti ucraini dispongono di una trentina di battaglioni, tra cui Azov e Aidar, integrati nell’esercito regolare dopo il colpo di Stato di piazza Maidan). Il 24 febbraio Mosca è intervenuta con innegabile brutalità e ferocia, dice Bergoglio, ma discernere implica che lo sguardo non si appunti solo sul pericolo russo: “Il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi”. Il dramma comprende l’espansione della Nato, come confidato al Papa da un capo di Stato poco prima dell’invasione russa: “Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro”.

Fino a quando i co-belligeranti occidentali non riconosceranno le proprie responsabilità, e resteranno impigliati nello schema di Cappuccetto Rosso e dell’offensiva antihitleriana, la guerra d’attrito in Ucraina continuerà sempre più mortifera: con le forze russe che devasteranno una città dopo l’altra fino a prendersi la riva destra e sinistra del Dniepr e a ridurre l’Ucraina a un torso di Stato, deprivato delle sue industrie, dello sbocco al mare, degli abitanti (l’Onu prevede 10 milioni di profughi). Non è vero che alla fine entrambi i belligeranti saranno perdenti. La Russia avrà perso moltissimo, ma potrà dire di aver conquistato le parti essenziali, industrializzate, dell’Ucraina. L’Ucraina invece sarà uno Stato fallito, grazie alle armi occidentali che hanno rovinosamente prolungato la guerra. Chi in un’Unione europea già flagellata dalla crisi saprà ricostruire città, fabbriche, campi agricoli? E il Donbass: con quali risorse sarà ricostruito da Mosca?

Nonostante le perdite e qualche resipiscenza, Zelensky chiede armi sempre più pesanti ed è in preda al pensiero magico della vittoria. Ma gran parte degli occidentali sa che non sarà così, pur non osando dirlo: in particolare Macron, Scholz e Draghi che ieri erano a Kiev per appoggiare Zelensky ma anche per sondare e propiziare i suoi intenti negoziali. Kiev ha l’appoggio di Polonia, dei Baltici, del Regno Unito, degli Usa, ma anche Washington mostra alcune insofferenze. Alti funzionari Usa si lamentano delle poche informazioni che hanno da Zelensky, sulle perdite e sulle armi disponibili.

Poi c’è la “guerra mondiale a pezzi e bocconi” descritta dal Papa. La Turchia si presenta come mediatrice, ma Erdogan profitta del caos ucraino per annunciare nuovi attacchi sterminatori contro le enclave curde nel nord siriano. Per non disturbarlo e scongiurare il veto turco all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, gli Occidentali tacciono. Intanto Biden s’appresta a riconciliarsi con gli assassini di Khashoggi a Ryad, in cambio di più petrolio.

Per questo è insensato inviare più armi a Kiev. Tra Russia e Europa si apre un baratro tragico. Di disarmo atomico non si parla più da anni. E la retorica secondo cui Mosca ha il monopolio della brutalità criminale non fa che nascondere gli altri conflitti: in Yemen, Kashmir, Palestina, Siria, ecc. Chi li menziona è sospettato di sminuire l’unica guerra che conta. Chi difende l’innocenza di Julian Assange reo d’aver svelato i delitti Usa in Iraq e Afghanistan è considerato un nemico che svia l’attenzione dai “putiniani” incriminati dal «Corriere».

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Quirinale, menzogne e Amarcord

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2022

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola locuzione “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i gilets jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

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Clima, i fallimenti che Draghi nasconde

di venerdì, Novembre 5, 2021 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 novembre 2021

C’è qualcosa di veramente storto nel governo e in gran parte dei nostri giornali (telegiornali compresi) se si comparano i loro giudizi sui risultati del G20 con quelli espressi da giornali stranieri e scienziati: un gran successo per il futuro del clima a sentire Draghi, un compromesso minimo o quasi fallimento secondo chi osserva da fuori.

A lamentarsi delle divisioni che impediscono impegni concreti a riportare il riscaldamento della terra a 1,5 gradi non è solo Greta Thunberg. Il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha commentato: “Mentre accolgo con favore l’impegno del G20 verso soluzioni globali, lascio Roma con le mie speranze insoddisfatte, anche se non sepolte per sempre”, per poi rincarare alla Cop26 di Glasgow: “Basta trattare la natura come un gabinetto. Basta bruciare, trivellare e scavare sempre più in profondità. Stiamo scavando le nostre stesse tombe”.

Ancora più severo il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, intervistato dal «Corriere»: “Se non si realizza un piano dettagliato e condiviso dalle nazioni, è difficile pensare che la promessa sia mantenuta”. Siamo alle prese con “economie nazionali in concorrenza fra di loro. Il problema fondamentale è ‘frenare’ queste economie per rallentare le emissioni e farlo con il consenso delle popolazioni”. Gli italiani fanno abbastanza? “Non vedo la gente che installa pannelli solari sui tetti. A Roma, sui tetti vedo più piscine che celle solari”.

Nemmeno come negoziatore il governo ha fatto abbastanza. L’agenzia Bloomberg scrive che i deludenti risultati del G20 sono dovuti alla cattiva gestione italiana, poco rispettosa dei Paesi – delegazione russa in primis – che non sono nel ristretto gruppo dei G7. Il ministro degli Esteri Lavrov accusa la presidenza italiana del G20 di aver preconfezionato il comunicato finale con i colleghi del G7, mostrandolo in extremis ad altre delegazioni. Un po’ come fa Draghi nei Consigli dei ministri.

È uno dei motivi per cui è caduta, secondo Lavrov, la scadenza del 2050 per l’azzeramento delle emissioni di gas serra: data prevista nel comunicato preconfezionato e che è sostituita da una nebbiosa scadenza: “Attorno alla metà del secolo”. Ogni Stato farà comunque a modo suo, mentre già ora la terra brucia (l’Ue si impegna per il 2050, l’India per il 2070). Conclusione di Bloomberg: “Il team italiano è stato lento nel capire quanto dovesse sforzarsi per convincere Paesi come Cina e Russia, e ha commesso errori che senza necessità hanno infiammato risentimenti”.

È ingannevole anche l’ennesimo euforico annuncio di una tassazione globale delle multinazionali. Lo smonta con argomenti convincenti Nicoletta Dentico sul «Manifesto»: manca “la riflessione sul fatto che il tasso del 15% concordato dal G20 risulta appena superiore alle aliquote medie del 12% nei paradisi fiscali, sicché l’esito finale è quello che trasformare tutto il mondo in un grande paradiso fiscale a partire dal 2023 – l’aliquota delle tasse sulle multinazionali è intorno al 27,46% in Africa, 27,18% in America latina, 20,71 in Ue, 28,43% in Oceania e 21,43 % in Asia: la media globale si assesta intorno al 23,64%”. E conclude: “Senza obblighi vincolanti, e una rotta temporale cogente all’altezza, il G20 consegna alla Cop26 di Glasgow declamazioni senza credibilità, perché ancora orientate alle vecchie ragioni della economia globalizzata piuttosto che a un improrogabile nuovo pensiero sul modello di sviluppo ecologico”.

Alcuni passi avanti sono stati compiuti, anche se il più delle volte confermano impegni solo verbali, cioè già presi anni fa ma non mantenuti. Si riconosce di nuovo che la terra non deve scaldarsi oltre 1,5 gradi, come nell’accordo di Parigi del 2015. Si torna a promettere aiuti ai Paesi poveri che più patiranno delle riconversioni verdi (100 miliardi di dollari all’anno entro il 2025). La data fissata nel 2009 dall’Onu a Copenaghen era il 2020: non è stata rispettata da nessuno dei Paesi sviluppati, che pure sono i grandi predatori delle risorse del pianeta. Visti i precedenti c’è da dubitare che saranno rispettati gli impegni principali presi a Glasgow: freno alle emissioni di metano (ma Cina, Russia e India dissentono) e stop alle deforestazioni.

Difficile in queste condizioni che i cittadini comprendano quel che i governi intendano fare qui e ora. Difficile prevedere come se la caveranno Paesi come l’India e in genere l’Asia, dove vastissime regioni dipendono dal carbone per sopravvivere. Viviamo dilemmi di natura tragica, che i sorrisi compiaciuti di Draghi e la foto da Dolce Vita dei Grandi che gettano monete nella Fontana di Trevi trasformano in incubo.

Tutti questi dilemmi e trionfi dell’inerzia sono chiari a molti, ma il principale dramma viene occultato nelle conferenze stampa ed è geopolitico, come si capisce bene dal commento di Bloomberg. È impossibile che i G20 o i Paesi della Cop26 si accordino seriamente, ingolfati come sono in una nuova guerra fredda che vede Usa e Nato in croniche posture bellicose contro Russia e Cina, con lo scontro su Taiwan che incombe. È improbabile una riduzione drastica di produzione petrolifera nei Paesi nel Golfo, cui la Nato è legata anche militarmente. L’assenza di Putin e di Xi Jinping a Roma e Glasgow è un segno funesto, di cui i leader occidentali dovrebbero rammaricarsi in maniera molto più ragionata e meno bellicosa.

Nella sua rubrica “L’arte della guerra”, sul «Manifesto», il geografo Manlio Dinucci riassume il dilemma geopolitico, spiegando come la rovina non riguardi solo il clima ma anche la corsa agli armamenti nucleari e le recenti manovre nucleari della Nato, in funzione anti-Cina e anti-Russia. Poco prima del G20, il nostro Paese è stato teatro di un’“esercitazione Nato di guerra nucleare Steadfast Noon nei cieli dell’Italia settentrionale e centrale. Vi hanno partecipato per sette giorni, sotto comando il Usa, le forze aeree di 14 Paesi Nato, con cacciabombardieri a duplice capacità nucleare e convenzionale dislocati nelle basi di Aviano e Ghedi. Ad Aviano è schierata in permanenza la 31ª squadriglia Usa, con cacciabombardieri F-16C/D e bombe nucleari B61”.

“Per il clima non c’è più tempo”, s’inquietano i governanti, ma per una guerra nucleare il tempo pare si trovi. Siamo ben lontani dallo spirito del Secondo dopoguerra, quando furono create le Nazioni Unite per metter fine alle impotenze e inerzie della Società delle Nazioni. Chi si meraviglia solo arrabbiandosi e non allarmandosi per l’assenza di Putin e Xi Jinping o è cieco, o mentendo ci imbroglia.

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Draghi, parole introvabili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 luglio 2021

È improbabile che il presidente del Consiglio sia privo di proprie idee, ma sta di fatto che pur dovendo tener conto di una maggioranza sconnessa, egli le esprime in maniera spesso confusa e non sempre competente. È confuso quello che ha detto giovedì sui green pass obbligatori, ed è anche poco chiaro l’annuncio di un voto di fiducia che blinderà la riforma giudiziaria eliminando ogni emendamento al testo Cartabia. Ripetendo quasi testualmente l’accusa che Biden lanciò il 16 luglio a Facebook (divulgando disinformazioni vaccinali i social “uccidono gente”) Draghi ha lanciato il suo anatema: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Frase piuttosto sgangherata, non informativa e solo in parte efficace. Qualsiasi incoraggiamento alla vaccinazione è auspicabile, ma toni così genericamente minatori potrebbero confortare le posizioni dei contrari e soprattutto irrigidire gli esitanti. Inoltre il green pass italiano che garantisce tutte le libertà dopo una sola dose di vaccino è tutt’altro che rassicurante, visto che secondo uno studio britannico la prima dose di Pfizer proteggerebbe da infezioni sintomatiche solo il 33 per cento (sarebbe efficace all’88 per cento dopo la seconda dose). Non meno insicuro il tampone con esito negativo effettuato 48 ore prima per beneficiare degli stessi privilegi offerti dalla vaccinazione incompleta.

Se lo scopo è quello di aumentare le somministrazioni, la scommessa del pass ha un suo senso. Non ne ha ed è anzi nefasta se non si comincia a fornire qualche dato agli scettici del vaccino, invece di bollarli indistintamente come branco di assassini. Se non si ricomincia a prendere sul serio il principio di precauzione (malauguratamente abbandonato in gran parte d’Europa da oltre un decennio: era incompatibile con i tagli alla spesa pubblica e alla ricerca) e se non si dice come stanno davvero le cose a proposito di un vaccino che evita fortunatamente forme gravi e decessi, ma che funziona in modo meno efficace per quanto riguarda la circolazione, specie a fronte della contagiosissima variante Delta oggi prevalente. L’obiettivo insomma non dovrebbe essere solo vaccinare, ma bloccare le contaminazioni con strumenti tuttora irrinunciabili come il distanziamento, l’uso delle mascherine e anche eventuali chiusure selettive. Biden si è scusato per le accuse di omicidio lanciate ai social. Sarebbe opportuno che anche Draghi ritirasse l’anatema e parlasse in maniera più razionale con chi non si fida dei vaccini. È quanto consigliato dal presidente del Consiglio superiore di sanità e del Cts Franco Locatelli (“Alla paura della cura si risponde con la cura della paura”).

Anche sulla riforma Cartabia, che sarà blindata con un voto di fiducia, regna la confusione. In un primo momento Draghi ha taciuto, anche se l’8 luglio fece capire ai ministri 5Stelle che il governo sarebbe saltato senza il loro assenso. La riforma sarà forse modificata, ma per ora il presidente del Consiglio sembra ignorare le critiche durissime espresse dal Consiglio superiore della magistratura, oltre che da singoli magistrati, costituzionalisti e avvocati (Nicola Gratteri, Cafiero De Raho capo dell’Antimafia, Massimo Villone, Pier Camillo Davigo, Gian Carlo Caselli, Alessandra Dolci, Giuseppe De Carolis, Franco Coppi).

Queste le forme che sta assumendo la Restaurazione inaugurata da Draghi: tornano in auge personaggi che hanno ispirato politiche e analisi fallimentari durante e dopo la crisi del 2007-2008 e che nulla hanno saputo dire sulla pandemia, sul clima, sulla rovina di una mondializzazione interamente affidata all’arbitrio dei mercati. È stata estromessa come consigliere di Palazzo Chigi un’economista innovativa come Mariana Mazzucato, ma in compenso sono rientrati nelle stanze del potere neoliberisti in parte screditati come Franco Bernabè, Francesco Giavazzi, e perfino Elsa Fornero che fallì la riforma delle pensioni.

Per rendere ineluttabile quello che è evitabile si insiste sul fatto che “è l’Europa a chiedercelo”, in cambio del Recovery Plan: a volere questa riforma giudiziaria che potrebbe mandare al macero il 50% dei processi dopo averne allungata la durata in modo che dopo 2/3 anni, in appello, scatti la prescrizione chiamata nel frattempo improcedibilità. E sarebbe ancora una volta l’Europa a imporre che sia il Parlamento, cioè la politica, a fissare le azioni penali prioritarie (una “piccola e micidiale novità” che viola l’articolo 112 della Costituzione e mina l’indipendenza della giustizia, afferma il costituzionalista Villone in sintonia con il Csm).

L’Europa non chiede nulla di tutto questo. Siamo in presenza di fake news allo stato puro, diffuse da giornalisti e politici sempre così pronti a insultare i social. L’Ue chiede processi più rapidi, ma da anni critica le prescrizioni facili e nel febbraio 2020 la Commissione europea promosse la riforma Bonafede.

C’è ancora chi si dice convinto che le fake news nascano solo nei social. Ma che dire degli editoriali giornalistici e televisivi osannanti la Restaurazione di Draghi e che propinano contro-verità? Che dire quando gli stessi giornalisti incensano gli oracolari silenzi o le sprezzature del presidente del Consiglio continuando a trattare con sufficienza i frequenti discorsi tenuti da Conte fin dall’inizio della pandemia? Varrebbe invece la pena ricordare meglio quell’inizio 2020. Conte fu il primo in occidente a scegliere di fronteggiare con metodi coercitivi una pandemia colossale: impresa non scontata nelle democrazie costituzionali.

Questo sarebbe il momento di trovare parole appropriate e persuasive: sulla giustizia, sul Covid, sul clima. Sembra che quelle parole Draghi non riesca a trovarle.

Per avviare un dialogo vero con tutti gli italiani anziché dividerli, occorre avere conoscenza, idee che si affinano nel contraddittorio, audacia nel fornire dati affidabili. Si potrebbe ricordare che più circola il virus, anche se non letale tra i giovanissimi, più si sviluppano nuove mutazioni fino al giorno in cui apparirà la variante che sfuggirà ai vaccini esistenti. Oppure si potrebbe spiegare che il “Covid lungo” non è una passeggiata, per un giovane non vaccinato che si infetti anche leggermente.

Dicono che Draghi è disinteressato al consenso. Ne dubitiamo. Le sue parole sono somministrate come ostie, anche se vuote. Se il consenso gli fosse indifferente non si presenterebbe e non sarebbe percepito come l’onnisciente che non è.

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Draghi, operazione “reconquista”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 2 giugno 2021

Come documentato nell’ultimo libro di Marco Travaglio – I Segreti del Conticidio – l’avvento di Draghi era programmato o comunque desiderato da molto tempo, con un’accelerazione massima subito dopo il successo europeo ottenuto dal suo predecessore (il Recovery Plan).

Conosciamo gli autori del cambio di guardia: la maggioranza di Confindustria, i padroni dei principali giornali, i potentati economici con profilo di multinazionali, Matteo Renzi esecutore finale. Intuiamo anche il motivo del cambio: la gestione/distribuzione del suddetto Recovery Plan, detto anche Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In questi giorni stiamo conoscendo i primi frutti dell’operazione.

Operazione che potremmo chiamare Reconquista, in ricordo della lunghissima guerra di religione che portò all’estromissione della civiltà musulmana in Spagna. La Reconquista, oggi, punta a scalzare uno dopo l’altro gli ostacoli che nell’ultimo decennio hanno insidiato i dogmi neoliberisti: ostacoli sommariamente bollati come populisti. Decisiva fu l’offensiva contro la sinistra greca che andò al potere nel 2015. Altrettanto decisivo il Brexit, che ha provvidenzialmente neutralizzato non solo le uscite dall’Unione ma anche le critiche radicali delle sue regole (torna senza più complessi il motto “Ce lo chiede l’Europa”). Infine il Covid esploso in Europa nel 2020, ultimo ostacolo frapposto alla Reconquista. Non mancarono le promesse di una normalità diversa, non più fondata sulla disuguaglianza sociale e la rovina ambientale. Lo prometteva il governo Conte-2 ed è stato estromesso, con la scusa che “tutta” la classe politica aveva fallito. Le critiche all’Unione europea e ai suoi parametri di austerità ridiventano sospette.

Le recenti scelte di Draghi e alcuni suoi gesti verbali sono tappe evidenti della Reconquista. In economia: la liberalizzazione dei subappalti, solo in parte frenata dai sindacati, con la scusa che è l’Europa a chiederci di semplificare e velocizzare i progetti del Recovery Plan; la fine del blocco dei licenziamenti introdotto durante il Covid, ancora una volta perché lo chiede Bruxelles e prima di aver creato gli ammortizzatori sociali che in altri Paesi Ue attutiscono l’urto dei licenziamenti; l’accentramento delle decisioni sul Pnrr nella figura del presidente del Consiglio e in centinaia di tecnici che erano intollerabili quando li propose Conte; la degradazione dei ministri tecnici a braccidestri di Palazzo Chigi. In politica estera: professione di fedeltà atlantica sin dal discorso inaugurale in Parlamento. Nella giustizia: le nuove regole sulla prescrizione forse non si toccano ma nella proposta Cartabia è il Parlamento e non il potere giudiziario a decidere le priorità delle azioni penali.

E ancora, sulla migrazione: fallito tentativo di ottenere più solidarietà in Europa, seguito da dichiarazioni sibilline: “Continueremo ad affrontare il problema da soli”. Anche il governo Letta operò in solitudine, dopo il naufragio del 2013 a Lampedusa (368 morti, 20 dispersi), dando vita all’operazione Mare Nostrum, poi abbandonata nel 2014. Nulla di simile oggi.

Tra i gesti verbali potremmo citare la risposta a Enrico Letta sulla proposta di tassare le successioni oltre i 5 milioni di euro per lasciare un’eredità ai giovani. “Non ne abbiamo mai parlato. Non è il momento di prendere i soldi dei cittadini ma di darli”. Non si chiamava Next Generation? Vorrebbe forse essere sprezzatura e somiglia piuttosto a disprezzo.

A ciò si aggiunga, sempre nel Recovery, l’aumento dei fondi per la telemedicina a scapito degli investimenti nella sanità territoriale (gli anziani faticano a telecurarsi, ma non importa). Diminuiscono inoltre rispetto alle bozze di Conte gli investimenti – già considerati esigui dagli scienziati – nella ricerca, soprattutto quella fondamentale (nonostante la sua centralità nello studio di future zoonosi e pandemie).

Draghi segue molte scelte di Conte, senza mai riconoscerne i meriti, ma le discontinuità sono oggi evidenti. Discontinuità mai spiegate nelle nomine o sostituzioni, oltre che nell’economia. Ma più in generale: ripristino di quella che negli anni Ottanta e Novanta si chiamava “disintermediazione”. Mutuata dal linguaggio finanziario, la disintermediazione marginalizza ogni sorta di intermediario/mediatore (sindacati, partiti, giornalisti, parlamenti, magistrati) sistematicamente incriminati di allentare, ostacolare, normare le forze di mercato. L’ultimo nemico da maledire: la burocrazia.

Oltre all’offensiva indistinta contro burocrati e partiti, assistiamo infine a una progressiva, sotterranea squalifica dei maggiori scienziati che ci sono stati accanto nella pandemia, da Andrea Crisanti a Massimo Galli. Il “rischio ragionato” al momento si dimostra vincente, per fortuna. Ma le riaperture non sono irreversibili come afferma Sileri: in Gran Bretagna già si parla di terza ondata e di nuove restrizioni. Il rischio è preferito al principio di precauzione: anche questo fa parte della Reconquista.

La disintermediazione è una macchina di accentramento dei poteri nelle mani del premier e di quelle che Zagrebelsky chiama cerchie ristrette del potere. Contestualmente sono sempre più invise le elezioni: evitarle è cosa buona e giusta. Quando danno risultati sconvenienti subito ci si rincuora dicendo che in ogni caso opera il “pilota automatico”. Subito dopo le elezioni del febbraio 2013 e il primo grande successo del M5S, Draghi presidente dalla Banca centrale europea disse in conferenza stampa: “I mercati sono stati meno impressionati (dall’esito del voto) dei politici e di voi giornalisti. Penso che capiscano che viviamo in democrazie (…) Dovete considerare che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico”. Già allora i giornalisti andarono in estasi, specie quando venivano scherniti per la loro “impressionabilità” (anche qui: fu sprezzatura o disprezzo?).

Con Draghi, il mercato si libera di parecchi controlli – declassati a burocratici. Il desiderio è di chiudere la parentesi della pandemia e restaurare quel che c’era prima. Offerta e domanda devono potersi di nuovo incontrare direttamente, senza intermediari. Fino alla prossima crisi, finanziaria o sanitaria o democratica che sia. O al prossimo crollo di un ponte o una funivia. Si chiama rischio, non disastro. Vince l’osannata resilienza/sopportazione, che sta soppiantando – simile alle varianti virali – le più promettenti nozioni di resistenza e normalità alternativa.

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