Draghi, parole introvabili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 luglio 2021

È improbabile che il presidente del Consiglio sia privo di proprie idee, ma sta di fatto che pur dovendo tener conto di una maggioranza sconnessa, egli le esprime in maniera spesso confusa e non sempre competente. È confuso quello che ha detto giovedì sui green pass obbligatori, ed è anche poco chiaro l’annuncio di un voto di fiducia che blinderà la riforma giudiziaria eliminando ogni emendamento al testo Cartabia. Ripetendo quasi testualmente l’accusa che Biden lanciò il 16 luglio a Facebook (divulgando disinformazioni vaccinali i social “uccidono gente”) Draghi ha lanciato il suo anatema: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Frase piuttosto sgangherata, non informativa e solo in parte efficace. Qualsiasi incoraggiamento alla vaccinazione è auspicabile, ma toni così genericamente minatori potrebbero confortare le posizioni dei contrari e soprattutto irrigidire gli esitanti. Inoltre il green pass italiano che garantisce tutte le libertà dopo una sola dose di vaccino è tutt’altro che rassicurante, visto che secondo uno studio britannico la prima dose di Pfizer proteggerebbe da infezioni sintomatiche solo il 33 per cento (sarebbe efficace all’88 per cento dopo la seconda dose). Non meno insicuro il tampone con esito negativo effettuato 48 ore prima per beneficiare degli stessi privilegi offerti dalla vaccinazione incompleta.

Se lo scopo è quello di aumentare le somministrazioni, la scommessa del pass ha un suo senso. Non ne ha ed è anzi nefasta se non si comincia a fornire qualche dato agli scettici del vaccino, invece di bollarli indistintamente come branco di assassini. Se non si ricomincia a prendere sul serio il principio di precauzione (malauguratamente abbandonato in gran parte d’Europa da oltre un decennio: era incompatibile con i tagli alla spesa pubblica e alla ricerca) e se non si dice come stanno davvero le cose a proposito di un vaccino che evita fortunatamente forme gravi e decessi, ma che funziona in modo meno efficace per quanto riguarda la circolazione, specie a fronte della contagiosissima variante Delta oggi prevalente. L’obiettivo insomma non dovrebbe essere solo vaccinare, ma bloccare le contaminazioni con strumenti tuttora irrinunciabili come il distanziamento, l’uso delle mascherine e anche eventuali chiusure selettive. Biden si è scusato per le accuse di omicidio lanciate ai social. Sarebbe opportuno che anche Draghi ritirasse l’anatema e parlasse in maniera più razionale con chi non si fida dei vaccini. È quanto consigliato dal presidente del Consiglio superiore di sanità e del Cts Franco Locatelli (“Alla paura della cura si risponde con la cura della paura”).

Anche sulla riforma Cartabia, che sarà blindata con un voto di fiducia, regna la confusione. In un primo momento Draghi ha taciuto, anche se l’8 luglio fece capire ai ministri 5Stelle che il governo sarebbe saltato senza il loro assenso. La riforma sarà forse modificata, ma per ora il presidente del Consiglio sembra ignorare le critiche durissime espresse dal Consiglio superiore della magistratura, oltre che da singoli magistrati, costituzionalisti e avvocati (Nicola Gratteri, Cafiero De Raho capo dell’Antimafia, Massimo Villone, Pier Camillo Davigo, Gian Carlo Caselli, Alessandra Dolci, Giuseppe De Carolis, Franco Coppi).

Queste le forme che sta assumendo la Restaurazione inaugurata da Draghi: tornano in auge personaggi che hanno ispirato politiche e analisi fallimentari durante e dopo la crisi del 2007-2008 e che nulla hanno saputo dire sulla pandemia, sul clima, sulla rovina di una mondializzazione interamente affidata all’arbitrio dei mercati. È stata estromessa come consigliere di Palazzo Chigi un’economista innovativa come Mariana Mazzucato, ma in compenso sono rientrati nelle stanze del potere neoliberisti in parte screditati come Franco Bernabè, Francesco Giavazzi, e perfino Elsa Fornero che fallì la riforma delle pensioni.

Per rendere ineluttabile quello che è evitabile si insiste sul fatto che “è l’Europa a chiedercelo”, in cambio del Recovery Plan: a volere questa riforma giudiziaria che potrebbe mandare al macero il 50% dei processi dopo averne allungata la durata in modo che dopo 2/3 anni, in appello, scatti la prescrizione chiamata nel frattempo improcedibilità. E sarebbe ancora una volta l’Europa a imporre che sia il Parlamento, cioè la politica, a fissare le azioni penali prioritarie (una “piccola e micidiale novità” che viola l’articolo 112 della Costituzione e mina l’indipendenza della giustizia, afferma il costituzionalista Villone in sintonia con il Csm).

L’Europa non chiede nulla di tutto questo. Siamo in presenza di fake news allo stato puro, diffuse da giornalisti e politici sempre così pronti a insultare i social. L’Ue chiede processi più rapidi, ma da anni critica le prescrizioni facili e nel febbraio 2020 la Commissione europea promosse la riforma Bonafede.

C’è ancora chi si dice convinto che le fake news nascano solo nei social. Ma che dire degli editoriali giornalistici e televisivi osannanti la Restaurazione di Draghi e che propinano contro-verità? Che dire quando gli stessi giornalisti incensano gli oracolari silenzi o le sprezzature del presidente del Consiglio continuando a trattare con sufficienza i frequenti discorsi tenuti da Conte fin dall’inizio della pandemia? Varrebbe invece la pena ricordare meglio quell’inizio 2020. Conte fu il primo in occidente a scegliere di fronteggiare con metodi coercitivi una pandemia colossale: impresa non scontata nelle democrazie costituzionali.

Questo sarebbe il momento di trovare parole appropriate e persuasive: sulla giustizia, sul Covid, sul clima. Sembra che quelle parole Draghi non riesca a trovarle.

Per avviare un dialogo vero con tutti gli italiani anziché dividerli, occorre avere conoscenza, idee che si affinano nel contraddittorio, audacia nel fornire dati affidabili. Si potrebbe ricordare che più circola il virus, anche se non letale tra i giovanissimi, più si sviluppano nuove mutazioni fino al giorno in cui apparirà la variante che sfuggirà ai vaccini esistenti. Oppure si potrebbe spiegare che il “Covid lungo” non è una passeggiata, per un giovane non vaccinato che si infetti anche leggermente.

Dicono che Draghi è disinteressato al consenso. Ne dubitiamo. Le sue parole sono somministrate come ostie, anche se vuote. Se il consenso gli fosse indifferente non si presenterebbe e non sarebbe percepito come l’onnisciente che non è.

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AstraZeneca, quei dubbi da seri studi scientifici

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 marzo 2021

Per la prima volta da quando viviamo in pandemia, non pochi scienziati sembrano temere la contraddizione. La loro fiducia nel vaccino AstraZeneca è semireligiosa, e ogni dubbio o diffidenza è bollato come una reazione emotiva, irrazionale, perfino antiscientifica. Non mancano le eccezioni – l’immunologa Antonella Viola ha accolto con favore la sospensione del farmaco, che permette più indagini sui decessi e più trasparenza nella campagna vaccinale – ma un gran numero di esperti scientifici nega la sia pur minima esistenza di controindicazioni. Intervengono nei talk show, sui giornali, esprimendo fastidio per la pausa di riflessione annunciata prima da quattro Paesi nordeuropei, poi da Germania, Italia e Francia.

Quel che molti esperti italiani omettono di dire è che tra gli scienziati non c’è affatto unanimità sui possibili effetti negativi di AstraZeneca. In Germania, la sospensione del vaccino non è stata solo politica (il prof. Luciano Gattinoni insinua addirittura che Angela Merkel abbia deciso la sospensione subito dopo la sconfitta del proprio partito in due elezioni regionali) ma si è basata su un rapporto scientifico del prestigioso Istituto Paul Ehrlich, specializzato in vaccini e farmaci biomedici. Il rapporto è uscito il 16 marzo e chiedeva – con un’argomentazione molto stringente – di sospendere subito AstraZeneca in attesa di un parere dell’Agenzia Europea del Medicinali (Ema).

In primo luogo, l’Istituto smonta la vulgata secondo cui i deceduti (per trombosi del seno venoso cerebrale nel caso tedesco) sarebbero morti anche qualora non si fossero vaccinati. Il numero esiguo di questa patologia letale rientrerebbe in una curva “normale”, sempre secondo la vulgata. L’istituto tedesco sostiene invece che il numero di casi letali di cui si sta occupando è “statisticamente superiore, in maniera significativa, al numero di trombosi cerebrali che si manifestano abitualmente nella popolazione in assenza di vaccino”. Lo ha appurato attraverso un’analisi che mette a confronto le osservazioni sul campo e le aspettative (la cosiddetta “Observed-versus-Expected Analysis”).

Ancora venerdì scorso, il 12 marzo, i morti cui era stato somministrato poco prima il vaccino non destavano un allarme speciale, visto che gli eventi letali erano apparsi con una frequenza che “ci si aspetta” in tempi ordinari. Era dunque giusto parlare di nesso non causale, ma solo temporale tra vaccinazioni e decessi.

La svolta avviene lunedì 15, quando vengono segnalati in Germania due ulteriori decessi di trombosi del seno venoso cerebrale dopo vaccinazioni con AstraZeneca. È a questo punto – spiega l’Istituto Ehrlich – che il numero di decessi ha cominciato a “superare in maniera netta la cifra normalmente prevista (expected)”. Allarmato da questa constatazione, l’Istituto è uscito allo scoperto e ha consigliato la provvisoria sospensione del vaccino.

Altro punto importante del rapporto: la questione, sollevata da molti commentatori, concernente la pillola anticoncezionale. Anche in questo caso la trombosi è in effetti un potenziale effetto secondario. Ma “i medici che prescrivono la pillola sono tenuti a illustrare alla paziente i possibili rischi che corre”. E i rischi sono indicati nei bugiardini del farmaco. Questo non accade per le eventuali trombosi che potrebbero manifestarsi in coincidenza con la vaccinazione AstraZeneca. Anche questo punto andrebbe chiarito oggi dall’Ema. Il consenso al vaccino dovrebbe essere pienamente informato.

Come sappiamo, la scienza è fatta di un succedersi infinito di esperimenti, errori e nuovi esperimenti. Sarebbe un peccato se divenisse d’improvviso un’ortodossia, e confondesse l’allarme con l’allarmismo. È in gioco non solo la credibilità degli scienziati, ma anche e soprattutto la fiducia degli italiani nei vaccini.

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Studiare vaccini non fa fatturati

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 5 marzo 2020

La pandemia Coronavirus è stata paragonata, per gli effetti che ha sull’economia, alla crisi finanziaria del 2007-2008: ancora una volta si pronosticano contrazioni della crescita e dell’occupazione, cui si aggiungono restrizioni nel movimento delle persone e ulteriori chiusure dell’Europa ai migranti – che con Covid-19 non hanno nulla a che vedere.

Il paragone è molto appropriato, ma non solo per gli effetti del virus: lo è anche per quanto riguarda le cause, cioè le difficoltà strutturali di trovare farmaci antivirali e vaccini. Ancora una volta si evita di mettere in questione il neoliberismo che alimenta le crisi, finanziarie o sanitarie che siano. È il persistente dogma neo-liberale che spiega almeno in gran parte come mai ancora non siano stati escogitati né cure né vaccini.

È quanto afferma lo scrittore scientifico Leigh Phillips in un articolo sul sito di Jacobin.it, citando i pareri allarmati di biologi e in particolare un rapporto di Goldman Sachs del 10 aprile 2018. La conclusione di Phillips è che “il libero mercato sta frenando l’avanzata della scienza, della medicina e della salute pubblica”. E questo con la complicità della autorità pubbliche, che giustamente si preoccupano oggi di circoscrivere gli effetti del Covid-19, ma non riconoscono l’esistenza degli ostacoli frapposti dalle politiche neoliberali alla ricerca di rimedi e vaccini.

Quel che le autorità pubbliche nascondono è che la polmonite di Wuhan non è caduta dal cielo. Sono 18 anni che imperversa una stessa famiglia di Coronavirus, con epidemie che si accendono, si spengono e si riaccendono a seconda della mutazione del virus, senza che vengano rintracciate cure: prima la Sars del 2002-2003, poi la MERS del 2012 in Medio Oriente, ora Covid-19. La principale responsabilità dei governi è di presentare il Covid-19 come una novità, che giustificherebbe l’impreparazione. Si investono soldi in deficit per combattere le conseguenze della pandemia – cosa senz’altro opportuna – ma non si parla degli investimenti indispensabili alla ricerca e sperimentazione di rimedi e vaccini. Rimedi che proteggano non tanto dall’odierno Coronavirus (i suoi tempi sono troppo brevi), ma da future sue forme che torneranno di sicuro a colpire nei prossimi anni e decenni.

Gli scienziati citati da Phillips spiegano questa cecità di fronte al virus multiforme, e da anni ne denunciano la causa: l’assenza di interventi pubblici, sotto forma di finanziamenti continuativi, per contrastarlo. Il rapporto pubblicato da Goldman Sachs prima del Covid-19 è brutale (titolo: “Rivoluzione del genoma”), e i suoi autori non esitano a dire che esistono terapie dei mali “non sostenibili per il business delle case farmaceutiche”. Questo perché il giorno in cui si trova il rimedio definitivo (la one-shot cure), il “pool” dei malati scende e i guadagni crollano. L’esempio additato è la cura dell’epatite C (tasso di guarigione: 90%). “Nel 2015, la società Gilead Sciences commercializzò farmaci risolutivi, incassando 12,5 miliardi di dollari. Poi però le vendite cominciarono a scemare, man mano che più soggetti venivano curati e diminuivano gli individui infettati. Oggi il flusso di guadagni ammonta a meno di 4 miliardi l’anno”. Il rapporto aggiunge sfacciatamente che il cancro è “meno rischioso”. Mancando cure risolutive “il pool dei malati resta stabile”: un vantaggio per Big Pharma. Gli scienziati confermano la deficienza dei mercati, acuita dall’assenza di un impegno pubblico che sostenga ricerche indipendenti, dunque non saltuarie. Una delle difficoltà è dovuta al fatto che la ricerca ha una durata assai più lunga di quella dei singoli Coronavirus. Quando si è vicini a individuare farmaci e vaccini è troppo tardi per l’epidemia in corso, e sia ricerca sia sperimentazioni si bloccano: in parte perché il virus è in costante mutazione, ma in grandissima parte anche perché l’industria farmaceutica non ha interesse a continuare le ricerche, visto che le singole epidemie sono brevi e la “platea” di contaminati e vittime non “sufficientemente ampia”. È quello che sostiene il biologo strutturale Rolf Hilgenfeld, che sta studiando nel Wuhan il Covid-19, o esperti di malattie infettive come Alimuddin Zumla, professore alla University College di Londra. Ambedue spiegano come le ricerche e la cooperazione scientifica internazionale siano molto avanzate, ma come sia estremamente arduo trovare finanziamenti perché la ricerca non si blocchi alla fine di una singola epidemia ma continui per fronteggiare le sue prevedibili forme successive. Anche i virologi hanno una responsabilità, secondo Hilgenfeld: hanno sottovalutato la minaccia di una riemergenza del virus apparso con la Sars.

La privatizzazione della sanità impedisce insomma che si facciano progressi, e non perché le case farmaceutiche siano soggetti malefici, ma perché esistono crisi e malattie che la vista corta del mercato non è in grado di combattere. I mercati guardano a profitti e perdite: è il loro mestiere. Solo lo Stato può intervenire e investire in progetti di lungo periodo che non procurano ricavi immediati. Se le epidemie Coronavirus non riescono a essere debellate, la ragione va senza dubbio cercata in impedimenti tecnico-scientifici, ma in misura non minore nella dottrina neoliberale che ancora non ha capito come il mercato non si autoregoli, e vada affiancato da una ripresa in mano massiccia e continuativa da parte del pubblico (in settori come farmaceutica, ricerca, green economy, telecomunicazioni, nanotecnologie).

Il Covid-19 ricorda il libro Cecità di Saramago. Da anni le autorità pubbliche avanzano come ciechi, di crisi in crisi, continuando a tagliare spese sanitarie e ricerca. Solo alcuni hanno gli occhi aperti. Tra loro l’economista Mariana Mazzucato, che fortunatamente affianca oggi Giuseppe Conte nel rilancio delle zone colpite da Coronavirus, e secondo cui non è il mercato ma “lo Stato, nelle economie più avanzate, a doversi far carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione”.

Dice il rapporto di Goldman Sachs che “la dinamica di un farmaco effettivo, che cura permanentemente il male, comporta il graduale esaurimento del pool di pazienti”, e che qui è il rischio per le Big Pharma. È davvero ora che gli Stati mettano a tacere strategie così succubi dei mercati da anteporre l’interesse e i rischi del business ai bisogni del bene pubblico.

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