“Macron pensa di fare De Gaulle e invece è solo una marionetta”

Intervista di Tommaso Rodano, «Il Fatto Quotidiano», 16 marzo 2024

Barbara Spinelli, ieri Macron e Scholz avrebbero concordato di “non prendere mai l’iniziativa di un’escalation militare”. È un passo indietro per il presidente francese, ormai calato nelle vesti del falco?
Non credo che Macron abbia fatto marcia indietro. Anche nella conferenza stampa di giovedì aveva parlato di uno scatto in avanti dell’Occidente come reazione militare alle avanzate russe. Non credo nemmeno che Scholz faccia marcia indietro sui missili Taurus da inviare a Kiev. Anche se in Germania si sta discutendo una manovra piuttosto disgustosa, su spinta dei Verdi e Liberali: i missili verrebbero inviati all’Inghilterra affinché siano gli inglesi a inviarli in Ucraina, con esperti britannici che si occupino della loro manutenzione e destinazione. In questo modo i tedeschi eviterebbero di inviare i propri uomini, incaricati di decidere se i missili saranno impiegati sul suolo ucraino o anche su quello russo. Scholz non lo vuole.

Nelle prime fasi del conflitto ricordavamo Macron al tavolo con Putin, tra i pochi leader internazionali a promuovere un dialogo. Poi cosa è successo?
È vero, all’inizio Macron insisteva sulla necessità di non umiliare la Russia. Aveva adottato una logica da prima guerra mondiale (evitare gli errori che seguirono il ’14-18). Ora è in una logica da seconda guerra mondiale: “guerra esistenziale”, sostegno all’Ucraina per recuperare tutti i territori Crimea compresa, rinuncia a parlare con Putin. È un cambiamento impressionante, Gli occidentali, per fortuna con alcune differenze interne, prendono atto che la controffensiva ucraina è fallita e si stanno preparando a una seconda controffensiva, nella quale l’appoggio dell’Occidente sarà ancora più forte, con l’invio sul territorio ucraino non ancora di soldati, ma sicuramente di consiglieri militari con il controllo sulla destinazione dei missili a lunga gittata. Ci sono rischi molto grandi: il primo è la morte di altre centinaia di migliaia di soldati ucraini. Quanti ne resteranno alla fine della carneficina? Il secondo è l’incidente nucleare. Oggi i droni ucraini hanno colpito la città di Kaluga, a meno di 160 chilometri da Mosca. Si sta giocando col fuoco.

Anche in Francia c’è un’opinione pubblica contraria all’escalation militare, ma il presidente si muove in direzione opposta.
L’operazione di Macron è condivisa dalle altre forze politiche, tranne l’estrema destra, la sinistra di Mélenchon e i comunisti. Macron sta facendo campagna elettorale, è questo l’aspetto nefasto della faccenda. È la politica interna che spiega il cambio radicale nella politica estera francese. Lui vuole apparire alla vigilia delle elezioni europee come un De Gaulle, dimenticando però che De Gaulle era per l’autonomia della Francia dagli Usa e dalla Nato e per i buoni rapporti con la Russia. È un finto De Gaulle, un finto Churchill. Una marionetta che nasconde la realtà e mente su tutto: sul proprio isolamento mondiale, sulle responsabilità ucraine nel fallimento degli accordi di Minsk, sull’espansione della Nato e le sue responsabilità, sui necessari negoziati, attorno alla neutralità ucraina.

I sondaggi gli danno torto: Marine Le Pen è di nuovo in crescita, se si votasse oggi il partito di Macron rischierebbe di rientrare in Parlamento dimezzato.
Infatti siamo all’improvvisazione. Nell’intervista di giovedì, quando gli hanno domandato se ritenesse possibile l’invio di truppe francesi, Macron ha risposto alla giornalista: “Lei è seduta su una sedia. Può escludere che dopo si alzerà in piedi?”. Come se l’escalation fosse un movimento naturale del corpo.

Macron è al secondo mandato, non potrà ricandidarsi. Che partita sta giocando?
Nell’immediato vuol dare una mano al proprio partito e ai socialisti, che hanno esattamente le stesse idee sull’Ucraina. Poi c’è il lungo termine. Macron fa parte di una élite, non solo francese, molto atlantista, legata all’industria delle armi. Le sue posizioni somigliano a quelle di Draghi. Immagino stia preparando il proprio futuro personale.

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Germania, cercasi mamma perduta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 25 settembre 2021

Più che una competizione politica, la campagna elettorale tedesca è stata una lunga, stremata cerimonia degli addii.

Addio ai 16 anni di Angela Merkel, eulogia sterminata delle sue ineguagliabili doti, necrologio che da mesi si sovrappone malinconicamente alle analisi su passato, presente e futuro. Non pianto, ma rimpianto che inonda ogni pensiero, paralizzando in anticipo chiunque sia chiamato a succederle alla cancelleria: forse il socialdemocratico Olaf Scholz, forse il democristiano Armin Laschet, in fondo non sembra importare molto. Forse di nuovo alleati, forse invece coalizzati ciascuno con altri partiti: Verdi o Liberali. Con la sinistra – la Linke – le coalizioni restano improbabili: il “nemico rosso” già governa in regioni e città, ma critica troppo la Nato. La logica dell’obituario esige che tutto resti così com’è. Come se ancora ci fosse lei: Mutti come la chiamano i tedeschi – Mamma. Di Mamma ce n’è una sola.

Scialbi tutti e due, Scholz e Laschet, non perché la natura li abbia fatti così, ma perché questa è la legge del necrologio cui si attengono quasi tutti i commentatori, soprattutto fuori dalla Germania. È commisurando le caratteristiche dei candidati al mirabile profilo della Merkel che il commentatore giudica, azzarda ipotesi di coalizioni, di politiche. L’occhio sgranato dei celebranti non vede quel che guarda. Vede solo quello di cui ha fin d’ora nostalgia, l’attimo che vorrebbe fermare perché così bello.

L’attimo di Angela Merkel non è stato eroico. Non è stato nemmeno carismatico, come ricorda lo storico Heinrich August Winkler. Gli attributi che sintetizzano i 16 anni di governo, e che si ripetono con impressionante monotonia, sono: pragmatismo in primis, e uso parsimonioso della parola, senso dell’utile, del management, della modestia.

Questo si cerca oggi di trovare, nei successori e anche ai vertici degli Stati europei: un sosia della Merkel.

Scholz e Laschet vanno bene se la imiteranno, se continueranno a disarmare l’immaginazione, se non saranno lì per risolvere le grandi crisi, ma per arrangiarsi e cavarsela nel breve termine (durchwursteln è l’ottimo verbo tedesco).

Sono anni che Angela Merkel è descritta come egemone in Europa, e oggi più che mai. La modestia pratica elude le ideologie, le visioni di lungo periodo, le scelte trasformatrici che durano nel tempo. Angela era così anche quando viveva nella Repubblica Democratica Tedesca: silenziosa e ligia. Quando i tedeschi dell’Est sfilavano nelle piazze lei non c’era. Fece capolino ben dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Kohl la scelse come pupilla.

Il management delle crisi è la dote merkeliana cui oggi si anela, ovunque. Anche quando si espresse con ferocia, e Berlino impartì le direttive alla trojka che piegarono e umiliarono la Grecia, riducendola quasi alla fame con l’assistenza della Banca centrale europea e della Commissione europea.

A volte la monotonia pragmatica s’interruppe, e Mutti improvvisò condotte inedite. Accadde quando annunciò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima, ma accrescendo poi la dipendenza da carbone e gas. E accadde soprattutto nel 2015, durante quella che viene chiamata crisi migratoria e fu invece crisi europea sulle migrazioni. La Merkel d’un colpo spalancò le porte ai migranti, soprattutto siriani. Furono circa 1 milione a entrare. Ma durò poco, tanto quanto bastava per ringiovanire un Paese sempre più vecchio. Le porte si richiusero, e Berlino fu la prima nell’Unione a imporre un accordo con la Turchia cui si chiese di non far partire i rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro.

Un’altra interruzione dell’utilitarismo pragmatico fu la messa in comune del debito europeo, al culmine della pandemia Covid: una soluzione sempre osteggiata dal dissimulato nazionalismo tedesco. Nato in Germania, l’ordoliberismo esigeva che ogni Paese membro “facesse i compiti in casa” prima di ricevere assistenza dall’Unione ed ecco che d’un tratto Merkel sconfessava gli ordoliberisti, accettava la lettera che Giuseppe Conte aveva scritto assieme ad altri otto leader dell’Unione in favore di una nuova solidarietà europea. Ne nacque il Recovery Plan, particolarmente generoso verso Italia e Spagna.

Ma Mutti non disse mai che la soluzione sarebbe stata strutturale, permanente, e tale da abolire i rigidi parametri fissati a Maastricht e inseriti nei Trattati dell’Unione. Fu un’iniziativa necessaria ma di eccezione, fece capire. E così dicono i successori: da Laschet il democristiano agli aspiranti Tesorieri nei futuri governi di coalizione (tra gli altri: il democristiano Friedrich Merz o il liberale Christian Lindner). Lo stesso Scholz, che forse favorirebbe il superamento di parametri che risalgono agli anni Novanta, non ha mai preconizzato a chiare lettere la loro riscrittura. Lo spettro dell’Unione delle Elargizioni (“Transfer Union”), di cui profitterebbero gli “sperperatori intrappolati nel debito” del Sud Europa, continua a ossessionare le élite tedesche, dalla Banca centrale nazionale all’Unione industriali: una paura cavalcata per anni dalla nuova destra impersonata da Alternativa per la Germania (Afd), nata nel 2013 durante la crisi greca.

Si è anche molto parlato dell’asse fra Macron e Merkel. Ma Berlino in realtà fa da sé, sia nei rapporti con Mosca (di volta in volta freddi e caldi) sia in quelli con la Cina.

La Cancelliera non ha sprecato molte parole neppure quando Emmanuel Macron ha ricevuto da Joe Biden la formidabile sberla che è consistita nell’accordo Usa-Australia-Regno Unito per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare, che ha affossato l’accordo franco-australiano con una mossa imperiale che smentisce ogni ipotesi sul declino Usa dopo il ritiro dall’Afghanistan. Troppo presto è stato scritto che lo schiaffo colpisce l’intera Unione, proprio mentre quest’ultima discute di comune difesa e perfino di autonomia strategica da Washington.

Non ci sarà mai accordo su simile autonomia, fino a quando Parigi non “europeizzerà” la propria atomica e fino a quando gli avamposti orientali dell’Unione (Polonia, Baltici) preferiranno la protezione militare statunitense garantita dalla Nato.

Berlino stessa, di fronte a una scelta radicale, non si farà trascinare in prove autentiche di indipendenza. Adenauer fu messo davanti a questa scelta da De Gaulle, alla fine degli anni Cinquanta, e rispose con un secco No.

Forse verrà il giorno in cui Berlino guiderà la trasformazione dell’Unione. Ma l’Eliseo dovrà cambiare rotta, e per smuoverlo non basterà di certo il pragmatismo tedesco.

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AstraZeneca, quei dubbi da seri studi scientifici

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 marzo 2021

Per la prima volta da quando viviamo in pandemia, non pochi scienziati sembrano temere la contraddizione. La loro fiducia nel vaccino AstraZeneca è semireligiosa, e ogni dubbio o diffidenza è bollato come una reazione emotiva, irrazionale, perfino antiscientifica. Non mancano le eccezioni – l’immunologa Antonella Viola ha accolto con favore la sospensione del farmaco, che permette più indagini sui decessi e più trasparenza nella campagna vaccinale – ma un gran numero di esperti scientifici nega la sia pur minima esistenza di controindicazioni. Intervengono nei talk show, sui giornali, esprimendo fastidio per la pausa di riflessione annunciata prima da quattro Paesi nordeuropei, poi da Germania, Italia e Francia.

Quel che molti esperti italiani omettono di dire è che tra gli scienziati non c’è affatto unanimità sui possibili effetti negativi di AstraZeneca. In Germania, la sospensione del vaccino non è stata solo politica (il prof. Luciano Gattinoni insinua addirittura che Angela Merkel abbia deciso la sospensione subito dopo la sconfitta del proprio partito in due elezioni regionali) ma si è basata su un rapporto scientifico del prestigioso Istituto Paul Ehrlich, specializzato in vaccini e farmaci biomedici. Il rapporto è uscito il 16 marzo e chiedeva – con un’argomentazione molto stringente – di sospendere subito AstraZeneca in attesa di un parere dell’Agenzia Europea del Medicinali (Ema).

In primo luogo, l’Istituto smonta la vulgata secondo cui i deceduti (per trombosi del seno venoso cerebrale nel caso tedesco) sarebbero morti anche qualora non si fossero vaccinati. Il numero esiguo di questa patologia letale rientrerebbe in una curva “normale”, sempre secondo la vulgata. L’istituto tedesco sostiene invece che il numero di casi letali di cui si sta occupando è “statisticamente superiore, in maniera significativa, al numero di trombosi cerebrali che si manifestano abitualmente nella popolazione in assenza di vaccino”. Lo ha appurato attraverso un’analisi che mette a confronto le osservazioni sul campo e le aspettative (la cosiddetta “Observed-versus-Expected Analysis”).

Ancora venerdì scorso, il 12 marzo, i morti cui era stato somministrato poco prima il vaccino non destavano un allarme speciale, visto che gli eventi letali erano apparsi con una frequenza che “ci si aspetta” in tempi ordinari. Era dunque giusto parlare di nesso non causale, ma solo temporale tra vaccinazioni e decessi.

La svolta avviene lunedì 15, quando vengono segnalati in Germania due ulteriori decessi di trombosi del seno venoso cerebrale dopo vaccinazioni con AstraZeneca. È a questo punto – spiega l’Istituto Ehrlich – che il numero di decessi ha cominciato a “superare in maniera netta la cifra normalmente prevista (expected)”. Allarmato da questa constatazione, l’Istituto è uscito allo scoperto e ha consigliato la provvisoria sospensione del vaccino.

Altro punto importante del rapporto: la questione, sollevata da molti commentatori, concernente la pillola anticoncezionale. Anche in questo caso la trombosi è in effetti un potenziale effetto secondario. Ma “i medici che prescrivono la pillola sono tenuti a illustrare alla paziente i possibili rischi che corre”. E i rischi sono indicati nei bugiardini del farmaco. Questo non accade per le eventuali trombosi che potrebbero manifestarsi in coincidenza con la vaccinazione AstraZeneca. Anche questo punto andrebbe chiarito oggi dall’Ema. Il consenso al vaccino dovrebbe essere pienamente informato.

Come sappiamo, la scienza è fatta di un succedersi infinito di esperimenti, errori e nuovi esperimenti. Sarebbe un peccato se divenisse d’improvviso un’ortodossia, e confondesse l’allarme con l’allarmismo. È in gioco non solo la credibilità degli scienziati, ma anche e soprattutto la fiducia degli italiani nei vaccini.

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Il Conte cocciuto e i “disfattisti”

di mercoledì, Luglio 22, 2020 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 22 luglio 2020

Alla fine l’Europa dei Ventisette ha prodotto il Recovery Fund che aveva promesso, con vantaggi cospicui non solo per Italia e Spagna ma anche per se stessa, per quest’Unione che fatica a trovare il suo “momento Hamilton”: il momento in cui di fronte alle grandi crisi (più di 100.000 morti per Covid, una recessione che rimanda al crollo del ’29) scopre di doversi unire meglio, come avvenne in America del Nord nel 1790 quando i debiti della guerra di indipendenza vennero messi in comune.

Al successo hanno contribuito Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma ancor più ha pesato la cocciuta insistenza di Giuseppe Conte, che trascinando altri otto Paesi si è battuto per una svolta nella politica europea sin da marzo. Si è rivelata vincente anche la sua ritrosia nei confronti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che offre prestiti agevolati ma è pur sempre figlio di politiche vecchie, e di un Patto di stabilità solo provvisoriamente sospeso. La preferenza tattica data al Recovery Fund ha smosso il pigro status quo nell’Unione.

Tuttavia non si dimenticherà il subbuglio delle cinque giornate di Bruxelles, e l’Unione non esce affatto guarita da questo vertice che approva il Fondo ma non senza concessioni di rilievo ai cosiddetti “frugali”. I quali hanno provato a disfare il Recovery Fund e a ridurne le novità cambiando sia la sua ripartizione (la quota delle sovvenzioni resta ma è ridotta) sia la natura dei controlli che verranno esercitati via via che si attueranno i piani di ripresa finanziati dall’Unione. Non hanno acquisito un esplicito diritto di veto sulle progressive erogazioni di fondi, ma hanno ottenuto che l’opposizione di un singolo Stato potrà temporaneamente bloccarle.

Li chiamano Paesi frugali, aggettivo sicuramente da loro assai apprezzato ma che non corrisponde a nulla. I governanti in Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia: chiamiamoli più realisticamente, in questo frangente, i custodi del mondo di ieri, quello che sta naufragando; i fautori di una misantropica colpevolizzazione del debito; i cultori di un’austerità non solo fallita ma del tutto impresentabile in tempi di Covid e di ritorno dello Stato nell’economia. Chiamiamoli disfattisti, è aggettivo non univoco ma più pertinente. E chiamiamo l’Olanda, il cui governo ha guidato questo fronte, il Paese noto nel mondo per essere un paradiso fiscale che danneggia enormemente gli alleati. Basta già questo, specie in epoche di crisi, per inficiare la solidarietà fra europei. E bastano a inficiarla i famosi sconti, i rebates concessi in extremis ai disfattisti. Questi rimborsi parziali dei soldi versati all’Unione furono un’invenzione di Margaret Thatcher nel 1984 e sono un modo per stare nell’Ue con un piede dentro e uno fuori.

Anche qui Conte è stato cocciuto e lucido, nell’evidenziare le discrasie europee che permangono: i rebates “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery Plan realizza lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. È stato lucido anche quando ha accusato l’olandese Rutte di miopia: “Vi state illudendo che la partita non vi riguardi […]. Tu forse sarai eroe in patria per qualche giorno, ma dopo qualche settimana sarai chiamato a rispondere pubblicamente davanti a tutti i cittadini europei per avere compromesso un’adeguata ed efficace reazione europea”. Naturalmente il disfattista ha il diritto di combattere il proprio Paese, se lo ritiene tirannico. Ma il disfattista di cui si parla qui vuole il degrado dell’Europa di cui c’è bisogno, e non smetterà di volerlo.

Il degrado è facilitato dal permanere, nelle decisioni più importanti, dell’unanimità: un solo Paese può alzare la bandiera del veto. È il motivo, tra l’altro, per cui da anni sono chiuse nei frigoriferi le riforme delle politiche di migrazione approvate dal Parlamento europeo: accordo di Dublino, rimpatri, reinsediamenti, qualifiche, accoglienza, ecc.

Il disfattista che gongola quando lo chiamano frugale è anche cieco. Gli è passato davanti un tifone – il Covid – e non se n’è accorto. In quel momento passeggiava nei giardinetti e proprio non l’ha visto, povero disgraziato. C’è un personaggio così nel Tifone di Conrad. Non avendolo visto e non vedendolo, Rutte ha chiesto quel che chiede da sempre: molto più potere agli Stati, molto meno alla Commissione che ha avuto la faccia tosta di proporre il Recovery Plan e che pensa di poter vegliare sulla sua attuazione, come chiesto dai non-disfattisti nella speranza che finiscano i rapporti di forza fra Stati cui l’Unione s’è ridotta.

In parte i disfattisti l’hanno purtroppo spuntata: il controllo dei vari piani di ripresa è nelle mani della Commissione, ma gli Stati nel Consiglio avranno l’ultima parola e un singolo Paese membro può interrompere le erogazioni per almeno tre mesi. Nei giorni scorsi Rutte è entrato nel dettaglio, ricordando quello che a suo parere l’Italia dovrebbe fare su pensioni e mercato del lavoro. Nessuna differenza, per lui, rispetto ai prestiti condizionati che hanno devastato la Grecia (anche per motivi politici: c’era un premier, Tsipras, cui bisognava dare una lezione).

A suo tempo, Conte disse che avrebbe negoziato, in Europa, avvalendosi della “forza del popolo”. Tsipras perse questa battaglia, ma l’Italia ha più peso e ha tentato il salto mortale. Nel dopo-lockdown, con l’esperienza di solitudine che hanno sperimentato i Paesi Ue, non sono più possibili ingerenze “alla greca”. L’ingerenza/punizione non è neppure più proponibile allo stesso modo di prima nei confronti dei Paesi di Visegrad, per quanto riguarda il legame tra fondi e rispetto dello Stato di diritto. Il Covid ha scosso certezze anche in questo campo.

Ultima cosa: è straordinario che la Germania, superando vecchi dogmi su sovvenzioni ed eurobond, abbia scelto l’alleanza con chi rifiuta che l’Unione abbia come unica ragion d’essere la protezione dei creditori (soprattutto bancari) dai debitori. Questa alleanza è la vera novità europea nei tempi di Covid, ma non possiamo essere sicuri che tale resterà nel dopo-Merkel.

Anche se volitiva, e più consapevole che in passato, la Germania ha faticato parecchio a imporsi. Era un egemone nascosto, ora esce dal nascondiglio ma non più egemone come prima. Ancor meno lo è la Francia, già diminuita dopo l’89 e l’allargamento a Est. È con questa realtà – la contusa egemonia tedesca, la Francia incapace di convincere durevolmente l’insieme dell’Unione, la risonanza dei disfattisti – che toccherà fare i conti.

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Mes, usciamo dai sensi di colpa e ricordiamo Atene. Come fa Conte

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 21 aprile 2020

Quel che più sconcerta, nelle discussioni italiane sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), è lo sconcerto di molti commentatori, confortati dall’appoggio che ricevono da buona parte del Partito democratico. Possibile che Conte sia così sprovveduto o ideologico – si chiedono costoro – da respingere l’offerta di aiuti senza condizioni? Il governo Conte deve essersi ammattito, se insiste nel giudicare “inadeguata” l’assistenza del Mes e se pensa di poter ottenere quel che Germania e Olanda non concederanno, e tanto meno a noi peccatori: una messa in comune del debito nell’eurozona, attraverso l’emissione di eurobond. Ammattito due volte: perché resiste a qualcosa che può solo avvantaggiarci, e perché non si è accorto come il Mes sia mutato rispetto ai tempi in cui l’Unione, rappresentata nella Trojka da Commissione e Banca centrale, e affiancata dal Fondo Monetario, aiutò la Grecia a distruggere il proprio Stato sociale.

Chi accusa Conte di riaccendere lo scontro fra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno dà evidentemente per scontato che Mes sia sinonimo di buona Unione, e non-Mes sia sinonimo di non-Europa e sovranismo.

Nulla di più lontano dalla realtà, se si perde un po’ di tempo a leggere i comunicati europei, a usare le parole con un minimo di precisione, e a osservare quel che accade fuori casa. Vero è che le condizioni per accedere agli aiuti del Mes diminuiscono – lo shock Coronavirus non è stavolta asimmetrico ma colpisce simmetricamente tutti gli Stati – ma non per questo scompaiono. Il Report approvato dall’eurogruppo in vista del vertice Ue di giovedì prossimo parla di “condizioni standard per tutti”, definite in anticipo dagli organi del Mes, e di aiuti temporanei legati solo alle spese sanitarie. La formula è vaga sull’accesso ai prestiti ma si fa più concreta sul dopo-Covid (quando verrà alla luce l’aumento del debito cui si è sobbarcato il paese richiedente). Finita l’emergenza, quest’ultimo dovrà “restare fedele all’impegno di rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con il quadro di coordinamento economico-fiscale e di sorveglianza dell’Unione”. Niente di nuovo in Occidente, dopo il Covid-19.

L’assistenza “senza condizioni” del Mes non è peraltro prevista dai Trattati dell’Unione, così come modificati il 25 marzo 2011 da una decisione del Consiglio europeo (quando al governo c’era Berlusconi, ha opportunamente ricordato Conte). Fu allora che l’articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione venne corredato di un’aggiunta rilevante: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un Meccanismo di stabilità […]. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria […] sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Anche se giovedì si giungesse a un’intesa sul Mes che soddisfi l’Italia, i paesi contrari agli eurobond potranno sempre – in un secondo momento – appellarsi a quest’articolo.

Un altro punto a favore della scommessa di Conte: la sua intransigenza sul Mes ha dato forza ai paesi che chiedono un’Unione attrezzata per il disastro economico scatenato dal Covid. Disastro non paragonabile a nessun altro disastro recente o non recente. Che i meccanismi europei nella loro totalità vadano reinventati è opinione che si sta diffondendo, non solo a Sud: la lettera di nove governi in favore degli eurobond, diramata il 25 marzo, è firmata anche da Belgio, Lussemburgo, Irlanda. Si diffonde, anche, la consapevolezza che tali meccanismi poggiano su dottrine neo-liberiste che lungo gli anni, in nome di uno Stato dimagrito, hanno divorato servizi pubblici, spesa sanitaria, ricerca, e affidato al mercato globalizzato la produzione di dispositivi sanitari di prima necessità (medicine, mascherine, ventilatori). “Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici” (Gaël Giraud, «La civiltà cattolica», Quaderno 4075, 2020, volume II).

Non stupisce dunque che il ricorso al Mes sia ormai inviso in molti paesi dell’Unione, e non è escluso che Spagna e Francia giocheranno al rialzo, giovedì, scommettendo come Conte sul massimo che potranno ottenere, nella speranza di ottenere almeno qualcosa di concreto. Il Premier spagnolo Pedro Sánchez ha appena proposto un Fondo di Ricostruzione (1,5 trilioni di euro, pari all’1% del Pil europeo) che sia agganciato al bilancio europeo e aiuti i paesi in difficoltà con trasferimenti di risorse (“grants”) anziché con prestiti destinati ad aumentare il loro debito pubblico. Di questo “debito perpetuo” si pagherebbero solo gli interessi.

In parallelo con la Spagna sembra muoversi anche Macron, in un’intervista al «Financial Times» del 16 aprile in cui afferma che l’Italia non va abbandonata e che “gli Stati membri non hanno altra scelta se non quella di istituire un fondo per la ripresa post Covid pari a 400 miliardi di euro”, capace di emettere debito comune, garantito congiuntamente e basato sui bisogni degli Stati anziché sulla grandezza delle loro economie. “Se non lo faremo i populisti vinceranno: in Italia, Spagna, forse in Francia”. “Sarebbe un errore storico ripetere che ‘i peccatori debbono pagare’, come si fece come nel primo dopoguerra”, conclude Macron, evocando il “fatale, colossale errore della Francia che in quegli anni reclamò riparazioni dalla Germania, scatenando reazioni populiste e il successivo disastro”.

Quell’errore non si ripeté nel 1945 ma può ripetersi oggi, con la Germania che oggi colpevolizza gli indebitati (in tedesco Schuld definisce sia il debito che la colpa) e con l’Olanda che si oppone agli eurobond continuando a profittare dei propri paradisi fiscali: un punto su cui insistono Sánchez e Conte, nell’intervista alla «Süddeutsche Zeitung» pubblicata ieri su questo giornale. Dopo il ’45 l’Europa fu ricostruita grazie al Piano Marshall, e al Welfare State predisposto durante la guerra da William Beveridge in Gran Bretagna. Anche allora si fece una scommessa temeraria, giocando al rialzo come promettono oggi Italia, Spagna o Francia.

Può darsi che il vertice di giovedì produca compromessi al ribasso (Macron è volubile). Può darsi che Conte, isolato, non usi il veto. Ma darsi per sconfitti sin da ora vuol dire interiorizzare l’equivalenza debito-colpa (“Chi siamo noi, per rifiutare 37 miliardi?”). Vuol dire non aver capito la natura dell’odierna minaccia, e far finta che il Covid sia una crisi come le altre, padroneggiabile con vecchi fallimentari dispositivi.

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I falsi progressi dell’Agenda europea per la migrazione

Bruxelles, 26 marzo 2018. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della discussione congiunta della Commissione Libertà pubbliche (LIBE) con la Commissione per gli Affari esteri (AFET) sull’Agenda per la migrazione:

Relazione sui progressi compiuti in merito all’attuazione dell’agenda europea sulla migrazione. Scambio di opinioni con rappresentanti del SEAE (Servizio europeo per l’azione esterna), della Commissione e del Centro per le politiche migratorie di Firenze

Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio – Seconda relazione annuale sullo strumento per i rifugiati in Turchia

Stato di avanzamento del progetto pilota della Commissione con paesi terzi per la migrazione legale

Ho qualche dubbio sui sondaggi che sono stati presentati dal rappresentante del Centro per le politiche migratorie di Firenze James Dennison (molto ottimisti sull’atteggiamento dei cittadini europei verso gli immigrati) ma non mi concentrerò su questo perché la discussione diverrebbe troppo complessa. Vorrei invece porre alcune domande alla Commissione e al Servizio per l’azione esterna su punti specifici.

Il primo punto riguarda la Turchia: le mie domande vertono sulla questione dei fondi europei messi a disposizione di questo Stato e sulle loro implicazioni strategiche.

Sulla questione dei fondi, diversi giornali europei – tra cui Mediapart, in collaborazione con la European Investigative Collaboration (EIC) – hanno pubblicato in questi giorni un’inchiesta secondo cui ingenti somme di denaro, pari a 83 milioni di euro, sarebbero state versate dall’Unione europea per finanziare l’acquisto da parte delle autorità turche di veicoli militari ed equipaggiamenti di sorveglianza, soprattutto lungo la linea di confine tra Turchia e Siria. È una notizia preoccupante e vorrei avere un chiarimento in merito.

La seconda domanda sulla Turchia concerne l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, secondo il quale il refoulement di rifugiati siriani verso la Siria sta raggiungendo cifre molto alte: si parla di centinaia di persone e di numerosi attacchi armati contro i rifugiati.

Il secondo punto riguarda le cosiddette “procedure accelerate” per le richieste di asilo in Grecia. Nel documento della Commissione è scritto che quest’ultima ha chiesto alla Grecia di cambiare le leggi nazionali concernenti le procedure d’asilo in modo da accelerarle al massimo, tramite l’eliminazione della possibilità di ricorso in appello. Vorrei sapere come questa richiesta dell’Unione si concili con il diritto al secondo grado di giudizio: un diritto che esiste nelle leggi nazionali come nelle leggi europee.

Il terzo punto è relativo alle prese di posizione del rappresentante dell’UNHCR in Germania, sia sul rimpatrio dei cittadini afghani sia sulla politica delle quote che i governanti della Grande coalizione vorrebbero adottare.

Secondo l’UNHCR, il rimpatrio degli afghani viola la legge internazionale, perché non esistono zone sicure protette all’interno dell’Afghanistan.

Per quanto riguarda le quote – cito ancora l’UNHCR – nella legge internazionale non esiste un limite massimo per le richieste di asilo.

Un’ultima domanda sul reinsediamento dei rifugiati, previsto dall’accordo con la Turchia e concernente anche i richiedenti asilo trasferiti dalla Libia in Niger. Le quote di resettlement sono ancora molto basse e vorrei sapere come si possano aumentare. Dal Niger sono state reinsediate solo 24 persone, da quel che mi risulta. Ma la cosa che più mi interessa è sapere se il paradigma della politica europea stia cambiando: se cioè il resettlement stia diventando un’alternativa alla richiesta di asilo fatta sul suolo europeo. Tutto questo, sempre per l’UNHCR, è legalmente molto dubbio, perché il resettlement non sostituisce l’accesso individuale alla protezione internazionale. Una cosa non compensa l’altra. Avrei altre domande ma mi fermo qui. Grazie presidente.

Avanzo delle partite correnti in Germania

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-006514/2015 alla Commissione

Articolo 130 del regolamento

Kostas Chrysogonos (GUE/NGL), Fabio De Masi (GUE/NGL), Javier Couso Permuy (GUE/NGL), Barbara Spinelli (GUE/NGL), Lola Sánchez Caldentey (GUE/NGL), Marina Albiol Guzmán (GUE/NGL), Ángela Vallina (GUE/NGL), Pablo Iglesias (GUE/NGL), Stelios Kouloglou (GUE/NGL), Cornelia Ernst (GUE/NGL), Marisa Matias (GUE/NGL), Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL) e Lidia Senra Rodríguez (GUE/NGL)

Oggetto: Avanzo delle partite correnti in Germania

In Germania l’avanzo delle partite correnti è in costante crescita dal 2000, che coincide approssimativamente con l’unione monetaria. Nel 2013, l’economia tedesca ha registrato un avanzo delle partite correnti pari a 206 miliardi di EUR, che corrispondono al 7,5 % del prodotto interno lordo (PIL), [1] mentre i dati mostrano che per il 2014 e il 2015 l’avanzo potrebbe essere ancora più alto. [2] A tale eccedenza, che viola la soglia massima del 6% raccomandata dalla Commissione, [3] viene imputata la ragione degli oneri aggiuntivi imposti agli Stati membri che stanno lottando per uscire dalla crisi finanziaria. Se un paese registra un’eccedenza, un altro dovrà registrare un deficit, in quanto l’eccedenza dei risparmi/delle esportazioni del paese che registra un avanzo deve essere assorbita da un altro paese sotto forma di investimenti, consumi o importazioni. [4]

Può la Commissione rispondere ai seguenti quesiti:

  1. Quali misure intende adottare, e quali proposte è disposta a proporre, per attenuare l’onere trasferito agli altri Stati membri attraverso i surplus eccessivi della Germania?
  2. Condivide la tesi secondo cui la Germania dovrebbe aumentare le retribuzioni, modernizzare le sue strutture e creare stimoli per rilanciare gli investimenti e i consumi? [5] A tale fine, quali sono le misure che la Commissione intende chiedere alla Germania?

[1]     http://www.bundesbank.de/Redaktion/EN/Downloads/Topics/2014_03_21_german_economys_account_surplus.pdf?__blob=publicationFile

[2]     http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2014/09/europes-current-account-surplus

[3]     http://www.reuters.com/article/2014/01/14/us-germany-economy-trade-ifo-idUSBREA0D0MU20140114

[4]     http://www.theguardian.com/business/2014/jul/24/germany-surplus-part-blame-eurozone-stagnation

[5]     http://www.cer.org.uk/sites/default/files/publications/attachments/pdf/2013/bulletin_93_js_st_article2-8164.pdf


 

IT
E-006514/2015
Risposta di Pierre Moscovici
a nome della Commissione
(5.8.2015)

Nella relazione per paese 2015 relativa alla Germania [1] la Commissione mette in luce l’esistenza di squilibri macroeconomici che richiedono un’azione politica risoluta e un monitoraggio. La Commissione arguisce che l’elevato e persistente avanzo delle partite correnti della Germania riflette la bassa domanda interna (compresi gli investimenti), le ingenti entrate nette in conto capitale derivanti dagli investimenti all’estero del settore privato e una forte competitività.

L’aggiustamento all’interno della zona euro è in corso e l’avanzo delle partite correnti della Germania rispetto al resto della zona euro si è significativamente ridotto a partire dal 2007. È di particolare importanza intervenire per ridurre il rischio di ripercussioni negative sull’economia tedesca e, considerate le sue dimensioni, sull’Unione economica e monetaria.

Le constatazioni esposte nella relazione per paese trovano riscontro nella proposta di raccomandazioni specifiche per paese rivolte alla Germania, [2] in particolare nel settore degli investimenti e della tassazione, delle pensioni e del mercato del lavoro nonché nei servizi.

[1]     Commissione europea (2015), “Country Report Germany 2015 including an In-Depth Review on the prevention and correction of macroeconomic imbalances”, SWD(2015) 25 final/2.

[2]     COM(2015) 256 final. Cfr.: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0256&rid=1

Golpe di tipo nuovo voluto da Merkel, Lagarde e Renzi

Intervista a Barbara Spinelli di Giampiero Calapà, «Il Fatto Quotidiano», 1° luglio 2015

«Inammissibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

Cos’altro vuole la Germania? Il sangue greco? È un intervento gravissimo. Non può e non deve essere il cancelliere, l’interlocutore di Atene. Le trattative le porta avanti la Troika, anche se i greci rifiutano di chiamarla così: Commissione europea, Bce e Fmi. Anzi sarebbe bene che Atene negoziasse prescindendo dal Fmi. Il resto è ingerenza. Qual è il motivo dell’ingerenza?
Si configura come un colpo di Stato di tipo nuovo: una forma di regime change. È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras.
Perché?
Per avere di nuovo, in Grecia, un gruppo dirigente in linea con l’austerità voluta da Berlino. Ma è proprio così che si è generato il disastro europeo che stiamo vivendo. Non è responsabile solo la Merkel, ma anche la Lagarde, Renzi e molti altri.
Non era questa l’Europa sognata da suo padre a Ventotene…
Era l’opposto. È stata azzerata la solidarietà, l’Unione oggi viola il proprio stesso Trattato, che prescrive la “cooperazione leale” in caso di crisi. Dovrebbe essere citata davanti alla Corte di Lussemburgo. E la Bce non è in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. L’interruzione degli aiuti d’emergenza viola le regole stesse della Bce, che dovrebbe garantire stabilità finanziaria nell’eurozona.
Boccia anche l’operato di Mario Draghi, quindi?
Difendo l’indipendenza della Bce e il ruolo positivo spesso svolto durante la crisi dell’euro. Negli ultimi frangenti, però, la stessa Bce ha svolto un ruolo molto dubbio, di parte. Non indipendente.
 
Crede che il suo gruppo, la Sinistra europea, abbia responsabilità?
La Sinistra europea è minoritaria, non mi pare responsabile di questo dramma.
 
Almeno la responsabilità della sconfitta?
Il governo Tsipras ha indetto un referendum: non è una sconfitta, ma un ritorno alla natura democratica della costruzione europea contro le decisioni prese da poteri oligarchici. L’azione di Tsipras è una scommessa sulla democrazia, l’elemento che più è mancato nella crisi dell’euro.
La cura potrebbe essere l’unità tra sinistra radicale e socialdemocrazia?
È la cosa in cui spero moltissimo. Così come punto su alleanze con i Verdi. Ma non sembrano esserci ancora le condizioni. Dopotutto i partiti socialisti (la Spd tedesca e anche il Pd) hanno sulla Grecia una posizione perniciosa, ambigua: interpretano il referendum come una scelta tra dracma ed euro. Ma Tsipras non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro. I socialdemocratici sono dentro una deliberata strategia della paura e della menzogna, molto pericolosa.
Paradossalmente anche il Movimento cinque stelle racconta così questo referendum…
Fa molto male. Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che la soluzione sia l’uscita dall’euro, ma non la penso così io e non la pensa così il governo Tsipras.
Che cosa succede se vince il sì?
Il panico è tale che non si può escludere una vittoria del sì alle proposte della Troika, ancora nel segno dell’austerità. Credo che in quel caso il governo Tsipras accetterà comunque il nuovo mandato popolare, se ne farà interprete fino ad accettare le proposte della Troika e “riconfigurando il governo”, come ha detto il ministro Varoufakis.
L’Europa del dopoguerra era una speranza. Oggi non riesce a fornire alcuna risposta. Né economica né di civiltà. E il Mediterraneo sembra diventato un mare di migranti in costante pericolo di vita e di terroristi pronti a uccidere.
Non sono d’accordo con quest’ultima visione. È anch’essa il risultato della strategia della paura. È sbagliato mischiare migranti, richiedenti asilo, terroristi, scafisti: alimentando un immaginario di terrore nelle nazioni. Ingiusto e non corrispondente al vero.

Why is Europe not “coming together” in response to the Euro Crisis?

di Yanis Varoufakis, 29 agosto 2014

Fonte: http://yanisvaroufakis.eu/2014/08/29/why-is-europe-not-coming-together-in-response-to-the-euro-crisis/


In this article I ask a question on everyone’s lips: Almost everyone agrees that the Eurozone was a one-legged giant; a monetary union lacking a political ‘leg’ to stabilise it. If so, why has the Euro Crisis (which surely strengthened that view on the back of its ferocity and durability) not strengthen the hand of the federalists? Of those who were, supposedly, waiting to pounce upon any opportunity to create a United States of Europe? (This article was compiled from extracts of a keynote speech I have on 25th August 2014 at the University of Tampere, Finland, in the context of a conference entitled Power, Knowledge and Society.)

 

«Monetary Union is an attempt to usher in Federation through the back door.»
Margaret Thatcher, 1990

We now know that Mrs Thatcher was wrong. The Euro Crisis, that broke out in th aftermath of the 2008 global financial implosion, was a splendid opportunity for federalists in Berlin, Brussels and Paris to push for the federal moves that they, purportedly, always planned to make on the back on the common currency.

Just look at the so-called Banking Union that the EU has agreed. The unification of banking sectors across the Eurozone, which was and is absolutely essential for the survival of the Eurozone, was recently proclaimed in name to be denied in practice.

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Barbara Spinelli: salviamo l’Europa
dai conservatori e dagli euroscettici

Intervista di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano», 9 febbraio 2014

Ci sarà un momento per parlare di candidature, per discutere di quanto coinvolgere i partiti, per capire se la rinascita della sinistra italiana passa da Atene. Ma per ora Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica , scrittrice, sempre europeista e sempre più critica, vuole parlare delle ragioni che hanno spinto lei e un gruppo di intellettuali a lanciare una lista italiana a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras, capo del partito greco Syriza, alla commissione europea in vista delle elezioni di maggio.

Barbara Spinelli, lei ha contribuito a portare nella politica italiana un leader greco, Alexis Tsipras. Qual è il primo bilancio dopo la sua visita a Roma?

Ha riempito un vuoto. Sono rimasta stupita perché i grandi giornali hanno coperto pochissimo l’iniziativa, ma quando Tsipras era al Teatro Valle c’era la strada piena di gente che non riusciva a entrare. Per ora è un successo, ma è un’iniziativa molto difficile.

La cosa più complessa sembra inserirsi tra euro-scettici e forze moderate.

In Italia c’è una maggioranza molto critica dell’Europa ma che non la vuole sacrificare: i sondaggi parlano chiaro. Ed è così anche in Grecia. Tsipras è cambiato molto dalla campagna elettorale del 2012: ha fatto una vera evoluzione europeista, anche per tenere conto della volontà popolare. C’è una parte settaria della sinistra greca che è molto anti-euro, ma lui ha deciso di imporre una linea europeista.

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